L’America
di Raffaello Gualterotti
Di certo vicina all’esperienza epica di Strozzi, l’America di Raffaello Gualterotti fu edita nel 1611, per il solo primo canto (del resto del poema nulla è dato sapere). Già a partire dal titolo, è evidente la continuità con l’esperimento dell’illustre accademico concittadino (confermato dal rapporto biografico tra i due poeti), mentre il testo conferma, sul versante dell’inventio, la prossimità alla linea dell’epica fiorentina stabilita nel circolo di casa Strozzi.
L’indugio narrativo, quasi cronachistico, del primo canto lascia pensare che forse il desiderio del poeta fosse quello di descrivere il periplo compiuto da Vespucci più che una sua improbabile campagna contro i popoli nativi: la precisione nel descrivere le fasi preparatorie del viaggio, il tono da rendiconto storico onnicomprensivo e veritiero, a partire dalla giovinezza del navigatore fino alle prove mature, e lo stile poco curato lasciano pensare che dovesse trattarsi di un testo tutto sommato breve, del genere del poemetto encomiastico. Non una vera e propria epica, dunque, ma uno schema narrativo aperto a una materia contemporanea e parzialmente slegato dalla pressione dei modelli classici.
È interessante la rappresentazione che è data del navigatore fiorentino, detto «contemplator» e «esperto e fido». Non un eroe belligerante, ma un navigatore e un astrologo, come realtà storica vuole vecchio e saggio. Verso la fine del frammento, è il personaggio stesso a definirsi in base al modello omerico («quantunque veglio, io pur novello Ulisse»), a riassumere due connotati fondamentali nell’ottica della meditazione seicentesca sul tema. La senilità sarà un tratto dominante anche nel poema di Bartolomei, così come il modello ulissiaco, a conferma del fatto che una tradizione oceanica disponibile ad accettare la sfida di un nuovo tipo di narrazione non sul modello tassiano ma volta al secondo grande corno dell’epica classica, l’Odissea omerica, esisteva già prima delle rivendicazioni di Tassoni.
Opera e sinossi
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- Proemio (1–3). Giovinezza, studi e convinzioni di Vespucci: i suoi continui tentativi di trovare un finanziatore vanno a vuoto (4–25,2). Vespucci prega Dio, il quale concede che il disegno si compia (25,3–34,2). La Fama divulga la notizia della scoperta di Colombo e le idee di Vespucci, il re Ferdinando decide di armare una missione e lo chiama a corte (34,3–39). Vespucci al re la propria idea geografica, il re acconsente alla missione (40–52). Ferdinando sceglie personalmente gli uomini per la missione e investe Vespucci del comando (53–60,4). Vespucci investe il Borghese del comando delle truppe e via via assegna gli altri ruoli (60,5–76). Tutto il corpo di spedizione giunge sulle rive del Beti dove è stata approntata una flotta: il re investe Vespucci del comando (77–89). Vespucci, assiso affianco al trono di Ferdinando, vede sfilare le sue forze (90–102,4). Al cenno del re, Vespucci parte con il naviglio (102,5–104).