Guid’Ubaldo Benamati
Nato a Gubbio intorno al 1595, trascorse i suoi primi anni di formazione presso i Farnese a Parma, dove fu al servizio prima di Ranuccio I poi del duca Odoardo; qui entrò in contatto con Tommaso Stigliani. Allacciò rapporti epistolari anche con il Marino (coem testimoniano le lettere del napoletano), il quale dimostrò però di non apprezzarne la vena poetica, benché l’eugubino fosse uno dei suoi più entusiasti ammiratori. Durante il secondo decennio del secolo instaurò legami duraturi, densi di presupposti letterari, anche con i bolognesi Cesare Rinaldi e Ridolfo Campeggi. Nel 1614 licenziò una modesta favola boschereccia, l’Alvida, cui seguiva due anni più tardi l’uscita, corredata di un ampio apparato di dediche, di un ambizioso Canzoniero (rifluito parzialmente in una raccolta veneziana del 1628 intitolata Faretra di Pindo), titolo che anticipa la raccolta omonima di Stigliani (1623), verso il quale Benamati nutrì una profonda rivalità. Tale silloge risulta fortemente influenzata dalla struttura macrotestuale e dai temi portanti della Lira mariniana (1614), risultando una delle sue più tempestive e capillari imitazioni. Punta di diamante degli ambienti letterari della corte farnesiana all’indomani della partenza di Stigliani per Roma, Benamati mandò alle stampe nel 1621 Il Colosso, panegirico modellato sul Ritratto per Carlo Emanuele del Marino, e un anno più tardi i primi tre libri del Mondo nuovo e della Vittoria navale; se la prima opera rimase incompiuta, allo stato di abbozzo, adesione, sulla scia degli esperimenti coevi dello Stigliani, ad un registro epico allora di gran voga, la seconda trovò compiuta realizzazione solo nel 1646, quando uscì a Bologna per i tipi di Giacomo Monti. I trentadue canti del poema narrano antefatti e sviluppi della battaglia di Lepanto, intorno alla quale andavano affastellandosi episodi secondari, digressioni amorose e cavalleresche che contrassegnano la narratio di un poema in certo modo esemplare della deformazione cui il modello eroico tassiano venne sottoposto durante il Seicento. Tra le prove epiche di Benamati andrà poi ricordato il Trivisano (1630), poema «eroicivico» che, sulla scia dell’esempio strozziano del Barbarigo (1626), celebra «l’alta amicizia» tra i due nobili veneziani Nicolò Barbarigo e Marco Trevisan. Tra le tante opere di Benamati che ebbero discreta fortuna converrà menzionare il romanzo Principe Nigello (1640), che finirà all’Indice donec corrigatur, e la Penna lirica, miscellanea poetica contenente per lo più testi d’occasione, che fanno risaltare i tantissimi legami allacciati da Benamati con nobiluomini e letterati coevi; infatti, la sua straordinaria prolificità creativa e la sua capacità di cimentarsi in svariati generi letterari (lirica, pastorale, epica, teatro, romanzo) si inscrivono entro una rete di contatti letterari vastissima e accreditata, tra cui risaltano, oltre ai già citati Marino e Stigliani, i nomi di Preti, Achillini e Aprosio (cfr. le lettere all’Aprosio). Benamati morì nel 1653 a Gubbio, dove si era trasferito stabilmente sin dal 1630.
Bibliografia
- C. Rinaldi, Lettere, Venezia 1617, pp. 98, 147, 167
- G. Fulco, La «meravigliosa» passione. Studi sul Barocco tra letteratura ed arte, Roma, Salerno Editrice, 2001, pp. 152-194.
- M. Slawinski, Gli affanni della letteratura nella corrispondenza di Guidubaldo Benamati ad Angelico Aprosio (1629-1652), in «Aprosiana», X (2002), pp. 11-67.
- L. Giachino, «Opera di stato e d’amore». Il Prencipe Nigello di Guidubaldo Benamati, in «Studi secenteschi», XLVIII (2007), pp. 89-124.