Proemio (1-4)
1Se per me pur dischiuse, aspro e guerrero,
il delubrio di Giano, altr’arme or gridi:
canto il ligure eroe ch’al magno ibero
primo acquistò d’un novo mondo i lidi;
oh quanti ordì vèr lui destin severo
e di terra e di mar perigli infidi!
Costante superolli, e in ferma sede
pur vagheggiò del Redentor la fede.
2Tu che da i Cieli il Ciel su ʼl carro eterno
de l’Unità con tre gran lampi aggiri,
Sol che senza alternar la state e il verno
primavera perpetua infondi e spiri,
illustra, prego, il mio devoto interno
acciò che ʼl fin del bel viaggio io miri:
s’a l’usato mio ardir fermi le piante
avrà ʼl mondo novello anco il suo Atlante.
3E tu, cresciuto a i merti, almo e sovrano
ritratto de la dea feroce e casta,
ch’a tempo sai vibrar con forte mano,
pacifico e guerrier, l’olivo e l’asta,
or ch’io, Ranuccio alter, de l’oceano
scopro e solco li scogli e l’onda vasta,
l’arme ascolta e gli amori, e ceda intanto
ogni altra brama, ogni altro affetto al canto.
4Quel di cui porti il nome e l’opre imiti
vedrai fuor del sepolcro in queste carte,
ché può la mia, se ʼl tuo favor l’aiti,
l’ultima tromba assomigliare in parte,
né tardo esser tu devi a i nostri inviti
ricettando nel cor Bellona e Marte.
Ma perché già benigno al suon ti trovo
ecco che ʼl fiato ad animarla io movo.
Colombo dopo aver dedotto l’esistenza di un nuovo mondo cerca senza successo un armatore, una tempesta infernale lo allontana dalla Spagna e lo spinge verso la Numidia (5-10)
5L’almo nocchier che la Liguria onora,
de l’acqua e del terren colombo errante,
era giunto a stimar del mondo fuora
ch’altre terre ascondesse il mar sonante,
il mar, su le cui terga audace ancora
posto non avea legni uom navigante
che, de l’ardir pentito, in grembo a morte
non fosse entrato a deplorar sua sorte.
6Quinci lunga stagion tenne nel petto
di scoprir un desio mostro sì raro,
e mancò sempre al suo pensier l’effetto
perché povero d’or gli avi il lasciaro.
Tentò principi molti, e pria l’affetto
il trasse a Genoa offrir pregio sì caro
l’opra sua promettendo, e quella mai
drizzar non volle al nobil segno i rai.
7Se ne dolse l’uom saggio, e tra se stesso
parlò: – Quanto pentir dovrati un die,
patria, di non avere un bene espresso
tolto, un certo tesor da le man mie! -.
Voltò poscia, il suo legno il mar rifesso,
a le mura le spalle a sé natie,
e si spinse veloce a quelle arene
che ʼl re di Portogallo impera e tiene.
8E qui pur ebbe intoppo al giusto intento,
il re non ascoltando il suo sermone,
onde ne l’alma torbido e scontento
l’onde solcate a risolcar si pone,
ma sorge d’improviso oscuro un vento
a cui forza d’ingegno in van s’oppone.
Sempre più impetuoso i lini enfiando
andar lo fa per l’ampio mare errando.
9L’Inferno il vento mosse, e fu l’Inferno,
mosso da non soffrir che per lui vegna
a novo onor del Regnator superno
condotta a fin sì illustre opra, sì degna;
vedea che vèr Castiglia il suo governo
volgere il timonier cauto s’ingegna,
per che pur quivi il suo signor cortese
faccia il vanto sublime al re palese.
10Dubita il reo demon che re sì saggio
volga l’orecchio a la fatal proferta,
e rincora Aquilone a fare oltraggio
al forte eroe per la marina incerta,
et ei, che nulla teme, il suo viaggio
su la carta maestra in tutto accerta,
e le Sirti schivando, occulti scogli,
sprezza d’Eolo gl’incontri e i duri orgogli.
Colombo si allontana dai suoi marinai, trova una tabella su un albero che gli indica la via per la dimora di Cerfilda: vi si reca, ma prima deve attraversare un bosco e una erta grotta (11-23,4)
11Alfin questi cessando un’aura amica
empì la vela, e rabbonaccia il mare,
appunto allor che la sua stanza antica
l’alba abbandona e ʼl ciel si vede ornare.
Così la navicella al lido implica
quando su l’orizzonte il sole appare,
e ʼl Colombo si scorge esser fermato
ove i Numidi erranti ebber lo stato.
12Getta l’ancore tosto e fuor del legno
per che prenda riposo il piè riduce,
e parla a i marinari: «Infin ch’io vegno
qui stiasi», et oltre, detto, ei si conduce.
I sensi invigorir, quetar l’ingegno
vorrebbe, pur ne la nascente luce,
e tanto innanzi va per quel terreno
che spiegar vede un verde prato il seno.
13Nel bel mezzo di cui dritta s’estolle
ricca di cento braccia unica pianta,
che dal sol fatta scudo a l’erba molle
d’un’ombra di smeraldo il suolo ammanta.
Sotto questa ei si giacque, e farsi volle
guanciale il duro piè d’arbor cotanta,
e serrando le luci un breve sonno
si fa de le sue membra amico e donno.
14Destosi poi, senza lasciar la bella
erba, leva le ciglia al tronco altero,
e, non prima veduta, una tabella
pender vi mira u’ più per l’ombra è nero.
Allora ei sorge, e volto il guardo a quella
fa bramoso più molto il suo pensiero,
perché scritta la vede e sermon tosco
forma in candido spazio un licor fosco.
15E queste eran le note: O voi, che ʼl piede,
siasi caso o voler, portate a noi,
in così dolce terra have la sede
Cerfilda, e in essa appaga i desir suoi.
Ella invitavi a sé: da lei sen riede
chi venne ad essa ben contento poi,
e se l’albergo suo mirar volete
questo destro camin, saggi, prendete.
16In leggendo il Colombo alto stupore
sente l’alma ingombrarsi, e tra sé dice:
– Or che fia ciò? Par che mi chiami il core
a veder se colà giunger mi lice -.
E quinci essaminando il bel tenore
de la scrittura, un sospir grave elice,
quasi dir voglia: «E come unqua contento
esser potrò se l’ocean non tento?».
17Risoluto di poi cercare il fine
di sì strana avventura, ei move i passi,
e per l’ignote strade a lui vicine
entra in folta foresta e innanzi fassi.
Or prova erto il sentiero, or trova spine,
or fansi intoppo a le sue piante i sassi,
e dopo alcuni giri il calle vede
impedir rupi immensi al mobil piede.
18Et ei si ferma, e da una parte scorge
ne la selce durissima intagliati
più faticosi gradi, onde si sorge
d’una cieca spelunca in su i meati;
per li quali salito, al guardo porge
il varco altri caratteri e dorati:
Se veder vuoi di tanta donna il muro
entrane (è scritto), o peregrin, sicuro.
19Letto ch’egli ha queste seconde note
de la caverna al limitar si toglie,
e s’atterga a la foce, e a quelle ignote
strade, intrepido sempre, il camin scioglie.
Prima però quel segno onde si puote
far l’abisso temer su ʼl fronte accoglie.
Così camina e in breve spazio mira
che la luce si scosta e si ritira.
20Vèr la bocca de l’antro il debil lume
si torna, e lascia il saggio eroe, ch’interna
fra l’ombre ognor più ʼl passo, ove in costume
ha calcar gli error suoi l’atra caverna.
Et egli, poi che ʼl suo visivo lume
sul riposto sentier più no ʼl governa,
tardo si move, e molto cauto al piede
una totale aita omai richiede.
21E mentre alza una pianta e la distende,
ben salda in su ʼl terren l’altra si pianta,
né si sgiugne da quel se non comprende
che posta in stabil sito è l’altra pianta;
allor dal suo si svelle e si sospende,
e s’inoltra e s’abbassa e si ripianta,
e s’intoppo incontra o inferma parte
dal suo posto primier l’altra non parte.
22E se tanto pesato il piede e’ slunga,
col medesmo tener versa le braccia,
le ruota or quinci or quindi acciò non giunga
o sterpo o selce ad oltraggiar la faccia.
Così cieco suol far se si dilunga
quel che ʼl guidò per non lasciar sua traccia:
attiensi al muro, e brancolone ei vassi
procurando il sentier con brevi passi.
23Segue il Colombo sì per quell’oscuro
ch’un barlume confuso il guardo mira,
e intrepido avanzandosi e sicuro
l’ombra in tutto si schiara e si ritira.
Giunge poscia contento a l’aer puroGiunge a un giardino meraviglioso e di lì al palazzo (23,5-32,4)
e per l’aperto cielo il lume aggira,
stupido il gira vagheggiando in esso
con più lucidi raggi il sole impresso.
24Vede amene campagne, apriche piagge,
mormoranti ruscei, fioriti colli,
mormoranti ruscei che per selvagge
ombre spandon gli argenti ondosi e molli,
fioriti colli onde il licor si tragge
da gli api industriosi e non satolli,
esserciti di lor mira su i fiori
spiegar de l’ale brevi i sottili ori.
25Molti nel cavo d’un bell’olmo antico
forman le bionde cere e i dolci favi,
altri prendendo stan riposo amico,
compite le lor fabriche soavi,
altri ronzando intorno al re pudico
corrono irati contro a i fuchi ignavi
che guastan lor bell’opre, e pena greve
da i loro aculei il malfattor riceve.
26L’aure scherzan con gli arbori frondosi,
l’aure gemendo e gli arbori fischiando,
teneri fischi e gemiti amorosi
van però l’aure e gli arbori formando;
e i rossignuoli fra le fronde ascosi
stan canzoni dolcissime cantando,
e da certi antri cari in cui s’asconde
vezzosissima un’eco a lor risponde.
27Oh che diletto han gli occhi, oh che piacere
senton gli orecchi a que’ colori, al canto?
– Ritratte qui son le beate schiere –
tra sé favella il pro’ Colombo intanto.
Indi, per che bramoso è di vedere
cose novelle, il piè toglie a quel canto,
e la vista inviando assai lontano
sorger guarda un palagio in mezzo al piano.
28Vèr là si move, e ben sicuro falli
il camino una via diletta e grande,
e sono sponda a i maestosi calli
siepi di rose ond’alto odor si spande.
Esso va innanzi, e liquidi cristalli
vien ch’un fiume a l’albergo intorno mande,
e, per che ʼl ponte alzato e chiusa vede
la porta, ferma irrisoluto il piede.
29E poi che faticar non puote il passo,
l’occhio vago fatica, e innamorato.
D’otto faccie è il palagio, e di balasso
sembra, al verde color, che sia formato.
L’aurea beltà de le finestre io lasso,
taccio gli alti ornamenti ond’è fregiato,
l’altere logge annoverar non voglio
che star lo fan pien di sublime orgoglio.
30Mentre essamina il sito, il nobil ponte
vede venir soavemente in giuso,
e due donzelle amorosette e pronte
star su l’uscio ricchissimo dischiuso.
Quattro piccioli soli han queste in fronte
su cui gli ori filò celeste fuso,
d’oro è ʼl crin che, disciolto intorno al viso,
in duo biondi volumi erra diviso.
31E per che vede in un benigno aspetto
il Colombo mirarsi, il ponte sale,
e con modesto e generoso affetto
inchina la beltà più che mortale;
le due vergini allor, tutte diletto,
dicean: «Ben venga il peregrin fatale,
entri con noi, che di Cerfilda altera
vedrà ʼl sembiante e la virtù sincera».
32Caminan poscia, et ei le segue ardito
per scala d’alabastri, e in alto poggia,
e poi che vari gradi have salito
giunge a mirar capace e nobil loggia.
E da la loggia in breve spazio uscitoIncontro con Cerfilda, che narra la propria vicenda (32,5-46)
va ne la stanza ove Cerfilda alloggia,
e la trova fra vergini ben cento
spendere in gran riccami oro et argento.
33Cinzia non mai sì bella in ciel mostrarsi
poteo fra gli astri allor che l’aria imbruna,
né Citerea mai sì leggiadra apparse
dove le Grazie il vago Cipro aduna:
unì costei di lor le glorie sparse
che Ciprigna ha nel volto, in cor la Luna.
Se splendore immortal su ʼl volto scioglie
pudicizia divina in seno accoglie.
34Sorge, e l’ago gentil lasciando appese
al ricchissimo stame; a lui si move,
e l’incontra dicendo: «O spirto acceso
a far tra noi meravigliose prove,
venga propizio a te mai sempre reso
quell’altissimo Dio ch’a tutti è Giove.
Lieta io t’accolgo, ed alcun tempo è certo
ch’amico io farmi bramo il tuo bel merto».
35«Quale io mi sia» risponde «eccomi pronto
a te onorar, donna sublime e rara,
e ben per nulla ogni mio merto conto,
fatto vicino a tua virtù sì chiara;
pur or dal mar, che trattar soglio i’ smonto
sovra la terra tua feconda e cara,
e con la guida di duo scritti vegno
ad offrirmiti servo, ancor ch’indegno».
36Così dice il Colombo e la donzella
per mano il prende e in altra stanza il mena,
e, poi che sono assisi et egli et ella,
snoda costei la lingua aurea e serena,
e così torna a dir, modesta e bella
e d’affabil contegno in volto piena:
«Prima de l’altre cose espor ti voglio
ogni esser mio, come a tutti altri io soglio.
37Terra Ibernia è da l’onde attorniata
(tu ʼl sai, ch’ogni mar nostro hai corso ardito):
qui, di sangue regal concetta e nata,
vissi infin che tre lustri ebbi compito,
e m’insegnò la genitrice amata
l’arti d’onde si sforza il reo Cocito,
ch’essa d’incanti fu gran mastra, e solo
fe’ tremar con un cenno il cielo e ʼl suolo.
38Né pago in questo il suo desir, mi volse
mostrar varie scienze a lei ben note;
il corso de le stelle a spiegar tolse
a la tenera mente in varie note,
e gl’influssi scoprimmi, e mi disciolse
vari secreti de l’eterne rote,
e per che meglio io n’imparassi i sensi
varcar femmi de l’aria i campi immensi.
39Spesso biga volante a lei congiunta
calcai, né al nostro volo intoppo avenne,
e quando appresso al concavo fui giunta
di Cinzia, al carro suo fermò le penne,
e dimostrar mi volle a prima giunta
quanto fu lungo al ver chi prima tenne
ch’ivi la sfera del non visto foco
come quarto elemento abbia il suo loco.
40E parlando seguio: – Quanto errin quelle
menti che van dicendo essere i cieli
che si volgono intorno e non le stelle
per più lunga stagion non ti si celi,
esser fluvidi questi, e le lor belle
faci quai pesci in mare io vo’ che sveli.
Venere intenta osserva, ella pur suole
rotar or sopra, or sottoporsi al sole.
41Le comete – mi disse anco – non sono
sempre ne l’aria impressioni ignite:
spesso del ciel parti indensate sono
che pria fur rare, e non stan sempre unite -.
Ma che non insegnommi? Instrutta io sono
di quante ha la natura opre gradite.
Dimanda pur. Così con lei men vissi
sin che stanca del mondo alfin partissi.
42Ah che col suo morir morì ʼl mio bene,
e fui di libertà per cader quasi.
Unica erede entro le patrie arene
mesta ognor più col genitor rimasi.
Canuto egli e già vecchio, a dirmi viene
– Figlia, pria che più duri io provi i casi,
consorte a te vo’ dar, per che l’inferma
mie luci veggian darsi un caro germe.
43Quando dal tuo buon ventre un figlio i’ veda
lieto chiuderò gli occhi in sonno eterno -.
Et io, che non pensai che ciò succeda,
per ch’a verginità sacrai l’interno
mi scuso e piango, et a i lamenti in preda
mi do, ma più costante il padre scerno,
che poi che prego adoperar non giova
condurmi a ciò col minacciar si prova.
44Chino le luci allora e riverente
da lui mi parto, et a mie stanze io torno,
ove poi ch’io pervengo immantinente
tutte mi son le mie donzelle intorno,
e per che sì mi veggiono dolente
mi richiedon del mal che mi fa scorno.
A loro il narro, e così seguo: – I’ voglio,
fide, fuggir del mio destin l’orgoglio.
45E voi se l’amor mio punto vi cale
mi seguirete al volontario essiglio -.
D’un concorde voler pianser mio male,
e calcar l’orme mie preser consiglio.
Tosto con l’arti mie carro c’ha l’ale
fo comparir, per trarmi al reo periglio,
monto con le mie serve in quello e ʼl volo
fermai, doppo lungo errar, in questo suolo.
46Qui da chi m’ubbidisce erger mi fei
quest’ampio albergo omai due lustri io conto,
e qui trattando gli essercizi miei
a l’altrui beneficio il core ho pronto.
Quanti vennero a me tutti io potei
appagar, tu ci sei l’ultimo gionto;
tuo stato i’ so, né m’è celato il vero
del tuo sicuro e non mortal pensiero».
Cerfilda, sapendo del progetto di Colombo, gli mostra un arazzo su cui è raffigurato il mappamondo e gli predice il successo della sua impresa (47-60,6)
47Il Colombo a quei detti immoto fessi,
quindi così, modesto, a lei rispose:
«Gran cose narri, e sonmi in core impressi
già i semi altier di tue virtù famose,
e sento anco nel sen nascer fuor d’essi
riverenza e stupor, mirabil cose
ch’obbligato mi fanno al tuo valore,
obbligo che non trova altro maggiore.
48Confesso ch’un desio m’ingombra il petto
di scoprir nove terre al nostro mondo,
e tengo che sia ver quanto prometto
ma s’oppone al discorso il senso immondo».
«Io so quanto sin’or per dare effetto
(dic’ella) hai fatto al tuo pensier fecondo,
ma non sempre Fortuna aversa appare,
e mertan gran sudori opre sì rare.
49Or dove le mie vergini si stanno
riccamando torniam, che vo’ mostrarti
quel ben per cui di così lungo affanno
tu sei suggetto, e potrai lieto farti».
Così disse Cerfilda, indi sen vanno
per veder la bell’opra in quelle parti,
e sorgon le donzelle al venir loro
sospendendo a la tela il cibo d’oro.
50E Cerfilda commanda: «Al pavimento
questa ricca testura omai stendete».
Viene ubbidita, et al Colombo intento
dice: «Sazin qui gli occhi or l’alta sete:
questo del doppio mondo un argomento
può dirsi, io l’ho ritratto in ori e in sete
un anno è già, che, su ʼl mio carro tratta,
vidi al terra ignota come è fatta».
51Il Colombo risponde: «Io ben raviso
del mondo nostro in lei ciascuna parte,
che cercato sin’or tutto emmi aviso
aver quel che Dio sommo a noi comparte».
Tacque, e fermò su l’altro lato il viso,
e mira il suo gran mondo in sen de l’arte,
e contento nel cor tutto si trova
potendo a’ suo’ argomenti aggiunger prova.
52E mentre esso colà fisse le ciglia
tiene, e ʼl tutto considera e trascorre,
la donzella regal così ripiglia
il suo dotto parlare, e gli discorre:
«Tornata ch’io fui qui, la mia famiglia
venni ad opra sì cara intorno a porre,
non per vaghezza sol ma per che ʼl Cielo
scoprimmi il suo tenor senza alcun velo.
53Lessi su ne le stelle esser vicino
il tempo che scoprir dovea que’ siti,
indi, per altra via, del tuo divino
ingegno seppi i generosi inviti,
e sperando ch’un d’ lo tuo camino
approdar ti dovesse a i nostri liti
disegnai l’alta istoria, acciò che in essa
meglio la verità mirassi espressa».
54Così diceva, e poi che tacque, volse
il Colombo lo sguardo al suo bel volto,
e per renderle grazie amica sciolse
la lingua, e tal sermone ebbe a lei volto:
«Altissima donzella, il Ciel mi volse
bear quando m’offese il vento stolto:
felice me, che d’imparar m’è dato
da labbra così pure il mio gran fato!
55Ma sarà ver ch’un giorno a mie ragioni
alcun re generoso il cor rivolga?».
«Non ti smarrire (essa risponde) e poni
in Dio tua speme, ei fia ch’i preghi accolga,
e, come stabilisti, il legno esponi
al vento allor ch’a noi le spalle volga,
ch’in Castiglia può addurti, e tenta e spera
a la proposta tua fortuna intera.
56E se quivi null’opri, altrove passa
ad altri regi, e non quetar giamai
sin che non vien chi l’alta mente abbassa
a conoscer quel ben ch’offrendo vai.
Io qui mi rimarrò, di gioia cassa
infin ch’al tuo bel fin tu non sarai,
e ben con l’arti mie saprò sovente
in qual sito ti trovi e con qual gente.
57E s’uopo unqua sarà de la virtute
che mi dieron le stella appena nata,
tutta l’impiegherò per tua salute
e, se l’avrai, de la tua forte armata,
è ver che l’arti mie staransi mute
quando a l’ingegno tuo forza fia data
di superar la sorte e que’ perigli
per cui tua mente a conturbar si pigli.
58E ciò fia sol per che ʼl tuo ingegno altero
fra gl’infortuni il suo valore accresca:
animo che non provi il destin fero
entro ne l’ozio vilissimo s’invesca,
et è dover ch’un nobile pensiero
sempre nel volo invigorisca e cresca,
ché non si sale a glorioso grido
per fra tra i lussi entro i piaceri il nido.
59Or puoi, quando ti piaccia, al tuo vascello
far ritorno a solcar l’acque marine,
per che tutto soave un venticello
avien che ʼl volo a le tue vele inchine».
Qui la vergine saggia il varco bello
chiuse de le sue porpore divine,
e ʼl Colombo, da lei tolto congedo,
parla: «Al navilio mio dunque mi riedo,
60ma non parte da te, bench’io mi parta,
generosa Cerfilda, il cor divoto.
Il gran Re de le stelle a voi comparta
più ognor sue grazie in questo loco ignoto,
Castiglia me vedrà pria che si parta
in cielo il sol dal sagittario Cloto».
Così dicendo egli rivolse il tergoColombo torna alla nave, raggiunge la Spagna e si dirige a Granada, dove Ferdinando ha posto l’assedio alla città: viene introdotto al re e gli espone il suo progetto(60,7-81)
a la gran maga, indi al sublime albergo.
61E per l’istessa via che calcò innanzi
a i marinari suoi rivolge il piede,
e tanto avien che ʼl suo camino avanzi
che l’alta ripa in breve spazio ei vede.
Febo spingeva allor, per gir più innanzi,
verso il Meriggio il carro, ov’egli ha sede,
e i suoi quattro corsier pieni di rabbia
arida avean la sete in su le labbia.
62Scende il ligure saggio, a riva giunto,
sovra il concavo suo veloce pino,
e, raccolto da i suoi, viene in un punto
il remo a faticar l’umor marino.
Un chiaro venticel co’ remi giunto
toglie al buon legno il margine vicino,
e l’onda che propinqua al lido è posta
spumosa a lui gemendo or più s’accosta.
63Altra, ch’è più lontana e ʼl moto sente,
mormora dietro a la volante poppa,
altra, ch’innanzi sta, scissa repente,
repente si rigiunge e si raggroppa.
Corre sempre la prua velocemente
e frange quant’altre onde in cui s’intoppa,
e d’incostante argento intorno lascia
che gorgoglia e svanisce instabil fascia.
64Dopo lungo vogar vede appressarsi
de la Spagna felice il bel paese,
e pria, quasi in caligine, a mostrarsi
viene al guardo il terren tarraconese,
ma sì vide sereno e chiaro farsi
poi che ʼl vento più appresso il legno rese,
quindi giunto a l’asciutto in terra viene
e lassa il leve abete in su l’arene.
65«Non sciogliete di qua» dice ai piloti
«ch’al re vo’ gir ch’a la Castiglia impera,
né per ch’io tardi a ritornar si noti
che ritenga il mio piè stella severa».
Poscia prende un valletto, e i sentier noti
calca vèr Santafé l’istessa sera,
e frenando un corsier tanto lo punge
ch’a la meta prefissa egli sen giunge.
66Quivi il re alberga, e la regina ha seco,
gloriosa virago, e stanza intorno
l’oste valente, onde il furor suo cieco
rintuzzar crede al moro infame un giorno,
e qui le dà riposo infin che bieco
guardando il verno april fugga il suo scorno,
allor con ferra man di sdegno armata
vuol assalir la non fedel Granata.
67L’assedia intanto, e vetovaglia e genti
cerca impedire a le nemiche mura.
Tien ne l’oste Colombo i guardi intenti
e notizia de i grandi aver procura.
Così passa ivi i dì, sin che presenti
a lui campo miglior sorte matura,
or quinci or quindi scorre, in questa banda
or s’informa, ora in quella altrui dimanda.
68E quando è d’ombre folte il ciel ripieno
a l’albergo ne torna, e seco pensa,
e poi lungo pensar ferma nel seno
a chi fidar quella sua voglia immensa,
onde quando apre l’alba il dì sereno
si veste, e fra i guerrier l’ore dispensa,
sin che le piume abbandonar s’induca
di Medina Sidonia il nobil duca.
69A lui poi si presenta, e tutto spiega
con mirabil decoro il suo concetto.
Ascolta il buon campione, e l’alma piega
piena di meraviglia al costui detto.
Tutto fervore, il pio Colombo il prega
che de i re l’introduca al gran cospetto.
Egli così risponde: «Io pronto sono
condurti innanzi al coronato trono.
70Tu poi quel che t’insegna il tuo discorso
a loro esponi in procurar credenza».
«Signor (l’altro seguiva), io non in forse
di trovar fe’, s’io giungo a lor presenza.
Durimi pur benigno il tuo soccorso,
come tu mi prometti». Allora senza
più parlar segue il duca, il quale umano
lo mena ove risponde il re sovrano.
71Seco Isabella al manco lato assisa
sotto un ciel d’or contesto altera stassi:
raro dal fianco amato ella divisa
si vede, s’egli a l’opre è che sen passi.
Di giudicio matura, in varia guisa
a lui consorte e consigliera fassi,
e non meno di lui con saldo ingegno
su i vasti affari terminar del regno.
72Poi ch’un divoto inchino al duca ha fatto,
a i suoi signori, a sì parlare ei prese:
«Chi dal suo ingegno ad alte cose è tratto,
o sommi regi, et a sublimi imprese,
e da se stesso non può porre in atto
ciò che saggio discorse e bene intese
merta che chi può darlo aiuto dia
per che senza il suo fin l’opra non sia.
73Questo noto per fama uomo sagace,
de i mari domator, Tifi novello,
di cose a voi promettitor si face
ch’io con ragion mostri sublimi appello.
Inchinate la voglia al vanto audace
e degnate l’udito al pensier bello».
Sì dice il duca, e riverente poi
fa termine il silenzio a i detti suoi.
74Il catolico rege, il re Ferrando
benigno al pro Colombo il lume volse,
e gli accennò che ʼl suo pensier mirando
lieto spiegasse, ond’a parlare ei tolse:
«Serenissimi re, su l’età quando
è men saldo il discorso, il mar mi accolse,
e tanto l’ho ricerco al caldo, al gelo
che qual vedete hovvi imbiancato il pelo.
75Chi segue l’arte in desiderio sale
sempre più di saper novi misteri,
et io che seguii questa, a gli altri eguale,
tutto in preda mi diedi a gran pensieri.
Otto lustri son già che, ʼl mio fatale
destin propizio avendo, i mar più feri
e i più benigni ho cerchi (dico) e scorto
quante terre ha l’Occaso e ʼl Borea e l’Orto.
76Gente saggia ha trattato, uomini esperti,
greci, latini et indiani e mori,
e molti arcani o non intesi o incerti
con quei da l’ignoranza io trassi fuori,
ché ʼl supremo Fattor, bench’io nol merti,
l’alma m’ornò di non vulgar splendori,
sì che facile appresi e del mar l’arte
e quella de le stelle in ogni parte.
77L’altra poi che de’ numeri è signora
non mi fu ignota: il misurare intesi,
e a disegnar con queste mani ancora
la sfera (isole e monti e città) presi.
Fui servo di Sofia, dond’uom s’onora,
l’istorie tutte a ruminare intesi,
sì che ʼl Dio di cui parlo, onnipotente,
tratta a cose intentate hammi la mente.
78Creder mi fe’ ch’in grembo a l’Occaso
siedano isole nove, altri terreni,
e a tentar diemmi ardir, ben che lontano
d’unire al nostro mondo or tanti beni.
Talun che m’ode suol chiamarmi insano
o pur c’ho di menzogna i detti pieni,
e certo avien ch’a gran principi sia
spesso torto il pensier, rotta la via.
79Non per ciò manco ardente ebbi il desire,
anzi questo or mi tragge innanzi a voi:
un mondo v’offre il mio verace ardire,
o de l’ispano suol primieri eroi.
Datemi, prego, aita a discoprire
un immenso terren fia vostro poi,
io l’onor, voi l’impero avremo, e Cristo
farà d’alme infinite eccelso acquisto».
80Qui l’onor di Liguria a tacer prese,
la risposta attendendo, e tal l’udio:
«Sentito ho quanto, o peregrin cortese,
da te s’è detto e ʼl tuo fatal desio.
Ora a i ministri miei puoi far palese
ogni ragion che ʼl tuo intelletto ordio,
che con lor poscia io ripensando il tutto
ti farò far del mio volere instrutto».
81Così disse al Colombo, indi rivolto
al buon duca seguì: «Tu da mia parte
chiama chi nel mio regno esperto è molto
de le cose del mare e di quest’arte,
e con loro esso e co i ministri accolto
mostri del suo saper ciascuna parte».
«Farò, signor» l’altro risponde, e intanto
s’inchina e vanne, et ha ʼl Colombo a canto.