Dalla propria magione Dio vede le difficoltà di Colombo, che lo prega perché gli dia aiuto nel convincere Ferrando (1-11)
1Un globo è cristallin nascoso al senso
ove l’acque più pure accolte furo
sovra quel ciel che, d’artificio immenso,
stringe il divo zaffiro in groppi d’oro;
molto più su, con maggior cerchio accenso
scopre altr’orbe ammirando il suo tesoro,
e sparge di splendor seme beato
d’almi piropi alteramente ornato,
2ove ha in gloria, durante alta magione,
derivata da lui, quel che deriva
da se medesmo, il cui valor dispone
quanto in terra germoglia e in mar s’avviva,
quel che manda i castighi e i premi impone
a chi cerca tempeste o corre a riva,
l’immenso Re che sotto un giogo eterno
calca severo il ribellante inferno.
3Quivi imperando esso tra gli altri un giorno
de la sua maestà ne l’ampia sede
stava pietoso, e si mirava intorno
quanto per grazia in Paradiso uom vede,
e Destino e Fortuna ad onta e scorno
de l’idolatra avea suggetti al piede,
e la Natura, appresso a l’Arte immota,
dal supremo voler pendea divota.
4La misura del moto e ʼl moto stesso
era in mezzo di lor, ministro intento,
e sotto il sommo piè giacea depresso
il nembo e ʼl tuono, e con la nube il vento,
e, ʼl suo furor la tempesta dimesso,
non osava d’alzar l’occhio scontento,
stava pacata, et a destar procelle
in uso non ponea l’armi rubelle.
5Sospendendo egli allor di quelle pure
sostanze il gran governo e l’uso antico
piegar gli piacque a le terrestri cure,
come suol vie più spesso, il guardo amico,
perché là su nel suo voler sicure
son lunge et alme e spirti ad ogni intrico,
ove l’umanità vacilla inferma
se ʼl fragil suo tanta virtù non ferma.
6Discopre sol con un girar di ciglia
quel che a l’occhio terren sembra infinito,
e vede ne la fertile Castiglia
il pio Colombo al suo pensiero unito,
ma vede ancor ch’in van l’assunto piglia
quando non sia del suo favor fornito:
è senza questo ogni disire in vano,
l’Inferno ostando a quel pensier sovrano.
7Ode espor questi accenti il volgo immondo:
«Sciocco, che vuoi quel che non finse uomo mai,
vanti solcar per l’ocean profondo
e la terra trovar che tu non sai,
e i ministri del re, ch’un novo mondo
vi sia non pon capir, ridendo omai,
anzi color che di scienza al sole
s’affigon tengon queste e ciancie e fole».
8E che per ciò Ferrando, il re, si scusa
con lui se non imprende opra sì pia,
suo pretesto è la guerra, ond’egli ha chiusa
d’alto assedio Granata, a lui sì ria.
Vede che non per ciò l’alma ha confusa,
ch’ad esso offrir quel mondo ancor desia,
e ʼl sente acceso di beato zelo
così volger gli accenti e ʼl guardo al cielo:
9«O Dio, vedi pur tu qual fin procuri
quel buon pensier che già tanti anni io fissi,
tu, cui non son questi secreti oscuri,
sai se nel certo scopo il guardo affissi,
dunque spetra, signor, petti sì duri,
confondi omai col tuo splendor gli abissi,
e porti la mia destra al mondo occulto
de la tua fede inalteranda al culto.
10Né sdegnar che vil verme al grave peso
ponga le terga, anzi seguendo ancora
l’usato stil, d’amor vitale acceso,
di tanto pregio un dispregiato onora,
che se a buon fin per vil suggetto è reso
fatto sublime, è più mirando allora,
e tu solo vuoi ciò perché l’uom veda
tuo poter sommo e genuflesso il creda.
11Sei lume senza ecclisse, al cui splendore
s’abbaglia il sol: ché non ti scopri omai,
auree piovendo a questo re nel core
del tuo sommo voler le fiamme e i rai,
sì ch’esso tutto luce e tutto ardore
s’inchini a i detti onde i pensier levai,
e non sen vada più gonfio e giocondo
d’esser senza compagno il nostro mondo?».
Dio convoca il concilio divino, di cui sono elencati i senatori (12-31)
12Questo sentendo il sempiterno Padre
intenerissi, e chinò ʼl capo eretto,
segno che vuol ne le folt’ombre et adre
spinger del mondo un suo bel raggio eletto,
però del ciel le cittadine squadre
vuol ragunate entro al regal suo tetto,
e ne corron gli araldi a dire intorno
a i divini satrapi il loco e ʼl giorno.
13E perché più palese il gran pensiero
scorra di lui che sol lampeggia e tuona,
l’onnipotenza ad oricalco altero
le labra unisce, e spinge il fiato e suona.
Ogni valle, ogni speco, ogni sentiero
al rimbombo gentil dolce risuona,
né quel d’esser sonoro unqua finia,
né l’eco mai non replicar s’udia.
14Onde commossi i divi, a l’alta reggia
concorron già veloci e riverenti.
O qual bella adunanza ivi è che veggia
l’occhio d’anime pure e d’alte menti!
Prima che giunse et adagiossi in seggia
eguale a sé, di bei carbonchi ardenti,
fu chi ricca di grazia e di favore
fattura espose in terra il suo Fattore.
15Lampeggiavan due soli i casti lumi,
un altro cielo apria nel labro il riso,
et eran quei d’aureo splendor due fiumi
e questo era di grazie un paradiso;
ma la chioma sottil, ricca di lumi,
facea cadente alto ornamento al viso,
et a i sospir de i sempiterni amanti
dolce ondeggiava al terso fronte avanti.
16Né dirò che di stelle un serto aduna
quel merto in lei del qual si gode il fine,
né dirò (troppo è chiar) che l’alma luna
quasi in coturno al santo piè s’inchine;
dirò ben che le stelle han per fortuna
di tanta Berenice ornare il crine,
dirò ben che la luna ivi presume
col suo frate immortal pugnar di lume.
17Sovra il solio suo bel la madre e figlia
del gran Verbo incarnato ha posta appena
de gli alati divin l’ampia famiglia
che novo eroe l’alto voler ne mena:
pon ne la soglia il piè con liete ciglia
chi fu del sole nascente alba serena,
quel che disse di lui (gran precursore):
“La strada preparate, alme, al signore”.
18Con barba incolta e d’ornamento priva
maestà veneranda intorno spira,
ignudo il braccio e di color d’oliva,
arso in terra da Febo il guardo mira,
et asciutto e scarnato il piè sen giva
ad appressarsi ove ben degno aspira,
e quant’orme stampò, tanti anco fuori
pulularo smeraldi e spuntàr fiori.
19Seguia l’orme di lui, da’ suoi seguito
prencipi gloriosi, il sommo Piero,
e fier vigore a la vecchiezza unito
indefesso scopria nel gran sentiero.
Lasciò del Paradiso al divo invito
la porta ond’era il venerando usciero,
sostituendo al carco almo e divino,
sin che fesse ritorno, un Cherubino.
20Così veniva, e, d’anni onusto, avea
candido il pel che gli cadea dal mento,
rosso avea il labro e di rubin parea
e la barba parea filato argento.
Ne la destra nerbosa indi tenea
de lo scettro roman l’aureo ornamento,
ne la manca la rete ond’ei fu degno
pria di predar del Paradiso il regno.
21Taccia pure i suoi vanti et in disparte
si stia quella ch’usò l’empio Nerone,
ceda ancor l’altra, in cui sognàr le carte
stretto a Gnidia de l’arme il fier campione.
Gocciava ancora, e le sue gocce sparte
dan di stimarle perle altrui cagione,
ma la rete era d’oro, opra non finta,
e la pertica argentea ov’era avinta.
22Ne seguia al suo drappel distante
da innumerabil numero recinto
quel forte eroe che, del suo Cristo amante,
primo fu che di sangue andasse tinto.
Vestia porpora eterna, a lui sembiante
venìa lo stuol che lui seguir s’è spinto,
e quasi paggi ivano innanti eletti
innocenti garzoni e pargoletti.
23Et ei non qual fèr gli altri in seggia altera
passò, ricca di perle e di zaffiri,
ma, strania sede, in elevata schiera
di pietre assiso et adagiato il miri.
Gode calcar chi a la mondana sera l’
l’atterrò, per alzarlo a i sommi giri,
e godon sotto al glorioso erede
di Cristo esse calcate erger la fede.
24Or mentre egli si ferma, ecco venire,
quasi essercito immenso, i pro ch’al mondo
con le spade pacifiche ferire
poteron già l’eresiarca immondo,
e con questi si vanno anco ad unire
quei che del sacro ciel portaro il pondo,
e i confessori, e vanno innanzi a loro
un Angelo, un leon, l’aquila e ʼl toro.
25I sacerdoti, et i leviti e quelli
ch’in monastico loco i dì passaro,
quei che diero a la carne aspri flagelli
ne gli ermi, e solo a Dio la mente alzaro,
e innanzi, capitan, sen gìa con elli
Paolo, che fu di lor la stella e ʼl faro,
Paolo il primo eremita, e curvo e basso
al baston più non fida il fianco lasso.
26Ultima i seggi ad occupar sen venne
altera moltitudine di donne:
son quelle qui che le virginee penne
alzàr contro la carne alte colonne,
e sonvi seco quelle a cui convenne
vestir, morti i consorti, oscure gonne,
e l’altre ancor che al ferro et al martiro
il bianco petto e ʼl molle collo offrirò.
27Ma tra quante di lor pon darsi il vanto
di vivace splendor far chiaro il loco
tu, bella peccatrice, entro al tuo pianto
sorta sembri dal mar l’alba di poco.
Sede non vuoi, che al tuo signore a canto
Etna d’amor, spiri sospir di foco,
e, timida talor, talora ardita,
e rapisci il tuo amante e sei rapita.
28Sotto la gran Maria dal destro lato
stanno quell’alme e nobili e famose
cui diè vera la sorte e certo il fato
viver mentr’ella Cristo al mondo espose,
e da l’altro riposo a quelle è dato
che nel limbo attendeanlo assai gioiose;
era Adamo lor capo, indi sedeva
de la colpa felice origin Eva.
29E l’altra e l’una di lor con lieto aspetto
mirando stan di Betelem la diva,
non mesti no, che senza il lor difetto
ella a cotanto onor mai non saliva.
Tra questi Abramo, e ʼl suo figliuol diletto
il chiaro guardo infervorato apriva,
questi non più la vittima chiedea
né quegli più doglia potente avea.
30Il cultor de la vite anco tra’ primi
sito occupava a sue fatiche uguale,
e la fronte spingeva infra i sublimi
Giacobbe, cui piagò sì lungo strale,
e ʼl figlio non restava appresso a gl’imi
che a l’Egitto involò fama mortale,
e la sua possedea tra le lor segge
chi dal monte a gli Ebrei portò la legge.
Dio guardando alcuni seggi vuoti ricorda la caduta di Satana (32-43)
31Non lungi a questi il citarista ebreo
stava col dolce legno ond’egli valse
l’imperversato re da dolor reo
sottrar, qual volta il fier demon l’assalse,
né la fromba che ruppe al filisteo
l’immanissima fronte esso non calse;
qui pur la porta, e qual suo balteo eletto
sovra i fianchi robusti il corpo ha stretto.
32Sedean già tutti, e rimanean sol vòti
que’ seggi a cui non fu concesso ancora
sostener de gli spirti a Dio devoti
il peso, da lor salme usciti fuora.
I lumi alter su i cittadin suoi noti
augusto mise il sommo Padre allora,
e movendo tre volte il capo in giro
pur non s’ode tra lor picciol sospiro.
33Oh quale aspetto, oh qual di maggior luce
deità maestosa allor vibrava!
Sovra trono regal ch’immenso luce
con l’usato suo scettro ei si mirava,
e sopra altera base il vero duce
la ricca sede e ʼl gran sembiante alzava,
a cui salia, se ʼl concedea quel solo,
per nove ardenti gradi il divo stuolo.
34E dal lato diritto inginocchiata
stava donna regal con braccia in croce,
e questa era Pietà, che sempre il guata
e placa l’ira onde temuto ei noce.
Stava da l’altro poi, con destr’armata
di spada ignuda, vergine feroce
e in gravità, come conviensi a dea,
le lance ancor da la sinistra avea.
35Poscia ch’ebbe tre volte offerto il ciglio
a i santi eroi, fermò la testa e disse:
«O voi, ch’a me lo mio divin consiglio
indissolubilmente, anime, affisse,
sino ab eterno io ho generato il figlio,
non creato, non fatto, egual sen visse
in un tempo con me, ma senza tempo
nacque, che sol l’eternità fu ʼl tempo.
36E ne l’imaginabile, non vero
punto che ʼl generai (che punto dico?
In me pur non ha loco) il mio pensiero
volsi vèr lui, volsi lo sguardo amico,
quind’io dissi: – Facciam per gusto intero
del nostro verbo eternamente antico
e ministri e serventi, e chi devoto
a la sua monarchia stupisca immoto.
37Non è dover che solo ei regni in noi,
sol da se stesso e conosciuto e visto,
né però fatti siano i servi suoi
perché inopia dinoti in lui l’acquisto,
ma perché spander possa i raggi poi
a pro di lor, di cui l’avrò provisto,
e gli faccia perfetti amando et essi
amin lui sol per abbellir se stessi -.
38Pria creai de gli spirti ardenti e puri
le gerarchie mirabili e stupende:
affissandosi in lui potean sicuri
essi veder qual sua beltà lor rende.
Gli fei del voler loro anco sicuri,
atti a saper ciò ch’egli stesso intende,
quando per grazia il lor permettea meco,
che senza questo ogni altro lume è cieco.
39E di tutti più bel crear mi piacque
al mio figlio simil cherubbe ingrato,
Lucifero infedel, ch’appena nacque
che produsse in se stesso il rio peccato.
Tanto de la sua forma ei si compiacque,
in tal pensier ebbe il pensier levato,
ella il portò del suo furor su l’ale,
che tentò farsi al mio gran parto eguale.
40Ma voi, che nel conflitto amiche menti
la vittoria immortal di lui godeste,
rammentate sua pena: entro gli ardenti
abissi, unito a i suoi, tornare il feste,
ove tra pianto e lo stridor de i denti
averrà ch’in eterno empio vi reste,
così de’ seggi di quest’alta parte
vòta restò per suo voler gran parte.
41Onde perché ripieni anco a la luce
del mio germe divin godesser lieti,
l’uomo la mia potenza indi produce
e diegli in loco amen doni e divieti,
atto a crescer le spezie ivi il conduce,
abile ad esseguir gli alti decreti,
perché dopo alcun tempo in Ciel salisse
e i seggi vacui in nobil guisa empisse.
42Ah che ʼl fragile suo non poteo saldo
de l’invido Satan restare a i moti!
L’un meschino cadé, l’altro gìo baldo
smover credendo i nostri fati immoti,
ma io, pur di pietà l’animo caldo,
lo privai sì di quelle immense doti
et a morte il donai, ma con pensiero
ch’un dì godesse il mio sovrano impero.
Quindi profetizza la prossima scoperta dell’America, e mostra nel libro del Fato ciò che Colombo dovrà affrontare (44-52)
43Né potealo goder, se con la morte
del mio figlio umanato ei non s’apria;
spezzò, morendo, le tartaree porte,
et a voi suoi fedeli al Ciel fu via,
a voi, che innanzi a lui fu dato in sorte
de gli affanni mondani aver balia,
cui seguiron di poi questi altri tutti
che appo Maria stanmi ad udir ridutti.
44La terra angusta al suo morir gli accenti
de gli Apostoli suoi poteo sentire,
che ʼl Paraclito mio, fatti essi ardenti,
insegnò la salute a tutti offrire;
altri però veloci, altri fur lenti
in del vero Giesù l’orme seguire,
ma tra gli altri restò de l’ombre in fondo
quel che tosto fia detto il Novo Mondo.
45Sin qui, misera gente, a i culti inferni
del nemico de l’uom sen vive in preda,
et or vuol mia pietà, guerrieri eterni,
che la grazia del Figlio anch’ella veda,
onde (confusi i superati Averni)
il crocifisso mio confessi e creda,
e pure anch’essa in queste sedie eretta
goda in noi trina un’unità perfetta.
46Ciascun di voi perciò l’armi prepare
a favorir la stabilita impresa,
perché Plutone iniquo opre sì rare
cura sin’or di ritardar s’è presa,
ma ʼl futuro di ciò vo’ che mirare
potiate omai ne la mia luce accesa:
guardate in me, che in me veder v’è dato
di che trovare il dèe la sorte e ʼl fato».
47Tacque il gran Rege, e la sua grazia aperta
l’avenire in se stesso a lor rivela,
specchio egli par, se tanto un vetro merta,
ch’al guardo imagin varie offre e disvela,
e que’ divi immortai la grata offerta
ricevon lieti or che ʼl futur non cela:
veggion colà ne l’infinito Amore
chi de’ del vasto pondo erger l’onore.
48Veggion gl’intoppo onde il nemico umano
tenta sopir l’illustre alto desio,
ma veggion poscia il generoso ispano
non a tanto pensier donar l’oblio,
mercé di lei ch’al suo Signor soprano
acro imeneo per nobil laccio unio;
quindi nel mar con vari legni entrato
il giogo pone a l’oceano irato.
49Ma veggion poi che non ben sazio il fero
tenta, perché non segua il gran viaggio,
far contra il capitan sorger l’ibero
e minacciarlo e procurargli oltraggio,
et esso, ogni or rivolto il bel pensiero
al suo Fattor, tutto quetar ben saggio,
e Pluto iniquo anco a novella prova
come contro l’armata il furor mova.
50Frodi, insidie, tumulti, amori et odi,
fami, arsure, duelli, onte, disprezzi
veggion, legni scevrati in vari modi,
incanti e spirti a non soffrire avezzi,
percosse furiose, infami nodi,
di bonaccia talor lusinghe e vezzi,
di tempeste talor superbi orgogli,
isolette natanti, occulti scogli.
51E tra gli altri un guerrier mirano ancora
d’anni fanciullo e di fortezza Alcide
(né le sue gote Ebe gentile indora)
che fuga schiere e capitani ancide,
e retto dal uso braccio, onde s’onora,
lo scudo ne l’orror lampeggia e ride,
su cui bel campo d’oro è che germoglie
sei gigli, che d’azzurro apron le foglie.
52Veggon anco amicizie e veggion anco
guerre sanguigne, ora propizie or torte,
ma non veggionvi mai perduto o stanco,
sì pieno e di fermezza il duce forte.
Miran nel fin che vigoroso e franco
pianta quel legno onde morì la morte
stabile sì che mentre il mondo gira
mai crollar nol potrà potenza od ira.
Dio manda il Tempo in terra, costui vede che Colombo sta per partire alla volta della Francia, affretta dunque la Notte perché sorga e faciliti il compito dell’Angelo protettore (53-65,2)
53Poi che tutto han veduto, il gran Monarca
chiama a sé ʼl Tempo; ei, che lontan non giace,
sorge, e quel poco spazio umil sen varca
per ch’ubbidisca il suo Fattor verace,
ma di secoli tanti avendo carca
la salma, il debil tergo arcato ei face,
zoppo camina e lento, et ogni passo
sembra che lo precipiti sì è lasso.
54Dio gli favella: «Or vanne al mondo, e quivi
opra tue forze e ʼl mio voler seconda».
Tace, e l’altro lasciando i lochi divi
ne le terrene tenebre profonda.
Dio, che non pon de le tue grazie i rivi?
Quel che sì tardo fu, di moto abonda,
non corre, vola, anzi non vola, è fatto
del rapido balen certo un ritratto.
55E giunto là dove nel campo armato
vuol lo spagnuolo assediar Granata,
pedoni in questo mira, ode in quel lato
suoni di Marte e cavallier vi guata,
e vede a un venticel soave e grato
l’alta insegna regal quasi animata
or distendersi tutta or farsi ondosa,
ora a globo simil starsi pomposa.
56Scorge or qua sentinelle or là sedere
a gran fuoco d’intorno, armata guarda,
in altra part esser citar sue schiere
esperto duce in ampio luogo ei guarda,
ed a tergere intento il bombardiere
vede poco lontan l’aspra bombarda,
onde possa tonante in sua stagione
non sezzaio mostrarsi al paragone.
57Ma il ligustico eroe tutto dolente,
tutto pensoso, il buon Colombo ei mira,
che poi ch’al suo pensier seguir non sente
prospero effetto entro al suo cor s’adira,
e che dal campo regio il piè repente
vuol trarre, e ch’altre prove in pensier gira,
che già tolto ha congedo, e che si parte
per trovar se potrà più grata parte.
58Vuol tentar il re gallo, e se qui pone
in vano il piè, com’esso altrove ha fatto,
statuisce passarne al re bertone,
et offrir l’ampia impresa e ʼl certo patto.
Visto il Tempo ch’ei parte, e in sé dispone
altro pensier, vola veloce e ratto,
e perché indarno il suo camin non sia
al cimerio nemboso il volo invia.
59Giunge e, i vanni raccolti, al tetro speco
move il piè; vi ritrova in su la foce
in papaveri molli (oh lippo, oh cieco!)
giacersi l’Ozio, in un sembiante atroce,
e l’entrata impedendo, in guardo bieco
mirollo, e poscia il saetto con voce:
«Sorgi (disse) e mi cedi in tanto ch’io
porto a la dea de l’ombre il passo mio».
60Teme colui, ma non perciò si move,
né se volesse il può, sì pigro ei giace,
onde perché l’ingresso il Tempo trove
lunge per un piè tira indi il fallace;
così affretta il viaggio, e giunge dove
godesi il Sonno il suo riposo in pace:
sovra un sasso giacea, di moto privo,
cinto da i sogni al mormorar d’un rivo.
61Essi intorno volando in varie forme
simulacri diversi a lui fan chiari,
quale a giove imenso assai conforme
prima l’abbraccia, indi a vil nano è pari;
chi ʼn arbore, chi ʼn fiume, a lui che dorme
si rappresenta, e in altri modi e cari,
e talun di fanciulla avendo aspetto
tra due colli di latte apre il bel petto.
62Passa il dator de gli anni e non s’arresta
sin che a la Notte ei non si mira avante.
In arrivando lui, sorge ben presta
essa, che atra ha la fronte e ʼl crin stellante,
poi dice: «E qual mia sorte ora mia presta
che a me sen venga il mio stimato amante?
rompe l’uso natura?». A lei rispose
il Tempo, e ʼl ver di sua venuta espose:
63«Convien che tu t’accinga (il Signor nostro
così commanda) a dispiegar tuo velo,
sì che oscuro venuto il mondan chiostro
torni il tuo manto a ricamare il cielo.
Su su, non più dimora, il fosco inchiostro
scopra il tuo carro, e versi Cinzia il gelo».
Tacque, n’ella parlò, ma giunger fece
i gufi suoi de la risposta in vece.
64Quindi al timon de la quadriga oscura
gli pose, e su vi salse e alzossi in essa,
e de l’ebano suo da prima oscura
quella parte del ciel che gl’Indi appressa
e repente s’avanza, e ʼl lume fura
dove si stende, e di poggiar non cessa,
e perché Febo ancor non si nasconde
il va d’un urto a sepellir ne l’onde.
65Così vincendo ogni mortal richiama
a non lungo letargo, a breve morte.
Ma l’Angel pio, che custodisce et amaL’Angelo protettore esorta in sogno Isabella ad accettare le richieste di Colombo (65,3-74)
di Ferrando regal l’alma consorte,
mosso dal suo Fattor desta la brama
ch’essa d’eccelsa gloria il vanto or porte;
vuol ch’ella sia ch’induca il re marito
del pio Colombo ad esseguir l’invito.
66Onde lei, che dormia, lasciata in cura
a l’altro che ministro Angelo avea,
s’alza, perché vestir nova figura
al senso sottoposta allor volea,
e l’aria condensata, aria ben pura,
aspetto umano e giovinetto ei crea,
dagli lumi e colori, indi l’informa
di sé, ch’anima è no ma pure è forma.
67Tu, tu spirto immortal, tu di te stesso
descrivi il vago e venerando aspetto,
ch’io, fattura mortal, di far espresso
temo qual fosti a quella mente obietto;
pur se narrarne il ver non m’è concesso,
pittore esserne almen non sia disdetto,
altri poi ne deduca in suo pensiero
se ʼl finto è tal qual allor fosse il vero.
68Chi vide mai picciola nube e rara
in Oriente anzi che spunti il sole,
tale aurata di lui la chioma e cara
a le gote d’intorno avien che vole,
ricciuta altrove e spessa a fare impara
ora anello or catena or biscia or mole,
colà di laberinto have sembianza,
qua di congerie in foggia anco s’avanza.
69Ma se sì vago e luminoso è ʼl crine,
non men vago e lucente il lume ha loco.
Iri diegli l’azzurro e dal confine
del concavo di Cinzia ottenne il foco.
Prestogli del cristallo il globo al fine
il vetro, onde lucente appar non poco;
dolce lampi vibrando esso produce
di splendore un abisso, un mar di luce.
70Non la via che di latte il cielo accoglie,
non di giglio caduco umil candore,
non l’ostro onde la rosa orna le foglie,
non di vaga murice almo colore,
ma la fede e l’amor c’ha sante voglie
diero al volto di lui l’albo e ʼl rossore,
e ʼl riso stesso in quel bel labro e pio,
dolce avello e vitale, ei sepellio.
71Ultimo avea di preziosa vesta
(d’or non vo’ dir, ch’in paragon fia scuro)
coperto e ʼl busto e ʼl tergo, e sol si resta
nuda la tonda gamba e ʼl braccio puro,
e su ʼl tergo gentil vien ch’egli vesta
l’ali, de la Fenice esser le giuro,
s’è ver che la Fenice estendea l’ale
o se come vien detto ella è pur tale.
72In questa forma anzi che l’alba aprisse
al nascente mattin le porte aurate
ne la stanza regal, come prefisse,
l’Angelo alter portò le membra alate.
Spalancò le finestre e l’ombre scisse,
desta Isabella ebbe le luci alzate,
ma tosto le chinò, tanto era il lume
che dal volto vibrava il santo nume.
73Credello il sol ma sua credenza il divo
tosto fugò: «Pace sia teco,» ei dice
«alza i lumi gravati, assai men vivo
io farò di splendore, alza, felice:
Dio mi manda e ti parla; e perché privo
Ferrando or va di un mondo? A lui sol lice
d’esso acquistarlo, opra di quel ch’ardisce
sol di trovarlo, e sua virtute offrisce.
74Sì dice Dio. Sorgi, Isabella, e passa
al tuo consorte, e ʼl mio sermon gli esponi.
Si richiami l’eroe, ch’omai si lassa
dietro al tergo le vostre ampie magioni,
Su, suso or che l’Altissimo s’abbassa
credete, o fortunati, a sue ragioni,
porgete a lui di quel che chiede il pondo
né più incognito resti al mondo il mondo».
Isabella ne parla con Ferrando, viene inviato un messo a Colombo, che torna a corte e ferma gli accordi con Isabella (75-86)
75Qui l’Angelo divin fermò gli accenti
et in aria disciolse il corpo finto,
onde invisibil fatto infuse ardenti
desiri in lei di generoso istinto.
Stanno immobili alquanto i sentimenti,
poscia dal vero ogni stupor vien vinto,
e dal pomposo letto il fianco alzando
porta l’alta ambasciata al re Ferrando.
76A l’ozio de le piume avea ritolto
anch’ei tutto pensoso il corpo allora,
perché sogno inusato a lui rivolto
ebbe il volo leggiero anzi l’aurora:
gli parea globo immenso aver raccolto
ne la destra, e stupir de l’opra ancora,
e sentiva una voce: «O te felice
il futuro ne l’ombre or si predice».
77Al cui parlar gli occhi dischiuse, e chiese
la sua regale e consueta vesta.
Per messo intanto, e più stupissi, intese
come Isabella a lui venir s’appresta,
in controlla, e repente a parlar prese:
«Donna, dorme anco il mondo, e tu sei desta?».
Rispose: «È ciò ben degno», e poscia il velo
toglie al sermon che le commise il Cielo.
78E celeste virtù tanto l’ingombra
che tosto il piega, e Dio ringrazia e cole,
e ben tosto che ʼl mondo ancor la notte adombra
che si richiami il genovese ei vuole.
Va spedito corrier, tutte disgombra
l’ore atre, ombrose immantinente il sole,
più stende al corso il palafreno allora,
saetta ei par quasi i sentier divora.
79Scuote mobile sferza, e in ciascun lato
biscia senza veleno i fischi aventa,
ansa il destriero a men tardare usato,
più ʼl suo signor la dura briglia allenta,
e se stanca è la man, di sprone armato,
il piè su ʼl fianco il miserel tormenta;
brama ei l’albergo, e in lui veder da lunge
del desio l’ali al trito corso aggiunge.
80E ʼl provido corriero, al fianco appeso
tortuoso oricalco alza veloce,
et al labro il congiunge, ond’ei vien, reso
grave di spirti, a partorir la voce.
A mercenario albergo ecco disceso,
ascende ratto altro destrier feroce,
il qual col piè, così di grilli è pieno,
rodendo il suol zappa co’ denti il freno.
81Ma sentendo lo spron guizza leggiero
e si dilegua, e di chi ʼl batte imita
nel moto il velocissimo pensiero
c’ha di trovar chi ʼl suo gran rege invita.
per via di molti ei richiede, ond’abbia il vero
del suo viaggio e i contrasegni addita.
Altri tace, altri parla, e certa nova
del suo ratto viaggio al fin ne trova.
82Sì che pur tanto va che stanco il giunge
su la porta di Pino, e ʼl foglio porge,
e in nome del suo re poscia soggiunge
ciò ch’atto a far ch’esso ritorni ei scorge.
Questi, letta la carta, a lui congiunge
se stesso, e quegli al suo signor lo scorge.
Poi giunto ond’è si tolse, accolto viene
con quell’onor ch’a sua virtù conviene.
83Tratta seco Isabella, il re cortese
commette a lei di tal pensier la soma,
e, le ragion del saldo ingegno intese,
conclude il patto et ammiraglio il noma.
Donna immortal, la tua virtù palese
farà sin ch’ella viva Esperia e Roma;
son poco al tuo virile animo i marmi,
deh perché cigno ogg’io non posso alzarmi?
84Giria forse il tuo nome oltre le mete
ch’al pelago de’ pregi il Cielo espose,
et io m’involerei del crudo Lete
con le tue glorie a l’onde ingiuriose.
Ammiraglio è ʼl Colombo, a quelle liete
sponde gir dèe per sì gran tempo ascose,
capo di bell’armata, al cui volere
denno obbedir per l’ocean le schiere.
85E giunto là dove promette impero
a i catolici re durante e certo,
di quello acquisto anco rettor primiero
rimanga ogni or de la fatica in merto,
e ne’ suoi discendenti il grand’ibero
confermi il calle amicamente aperto.
Con questi gradi egli attendea che ʼl gelo
del fier verno omai fugasse il cielo.
86Si preparan gli abeti, e quei che denno
condottieri di squadre andar con lui.
Batte perciò l’incude il dio di Lenno,
là ne’ suoi chiostri affumicati e bui,
Qual d’essi, unendo a la prontezza il senno,
d’arme provisto è bella norma altrui,
e qual del corridor, qual d’altro arnese
l’alma avalora a le future imprese.