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Il Mondo Nuovo

di Guid’Ubaldo Benamati

Libro III

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 21.09.15 17:39

La Fama ha diffuso la notizia della partenza di Colombo, molti avventurieri sono giunti in Spagna (1-8,4)

1Corre intanto la Fama, e s’avalora,
né lascia ove non vada: Esperia in prima,
ultima cerca, indi a chiunque adora
Cristo si spinge, onde il seguito esprima.
È questa Fama un fiero mal talora,
un caro bene anco talor si stima,
di cui mai più veloce altro o crescente
non mirò mai, non ammirò la gente.

2Di natura corrotta i modi e gli usi,
più camina, più forza acquista e prende,
ma picciola in principio è che ricusi
farsi palese; a serpeggiare attende,
poscia, i cancelli del timor dischiusi,
e si scopre e s’avanza e si distende,
né posa mai, sin che la terra e l’onde
non lascia, e ʼl capo intra le nubi asconde.

3Narran che da la terra al mondo uscìo,
se non aborto almen parto mal nato,
quando di Camme il reo nipote ardio
fondar la torre, al suo Fattore ingrato.
Di Nembrotto sorella, il guardo aprio,
anzi ben mille guardi, il mostro alato,
l’orribil mostro, il mostro immenso, atroce
c’ha non men de le piume il piè veloce.

4E, superbo pavon, quant’ella ha penne
ha tante orecchie, e quante orecchie ha lingue
(meraviglia ch’ogni altra in sé contenne)
per cui ciascun linguaggio apre e distingue.
N’ebbe due con settanta in prima, e venne
spesso fra tante ad apparir scilingue,
e furo altre di queste or rozze or belle,
altre invecchiaro e fèrsi altre novelle.

5Costei prima gioiosa i suoi bisbigli
spargendo e corse e crebbe, e del seguito
il principio narrando a i chiari figli
era di Marte un generoso invito.
Varie cose dicea, d’onde consigli
essi a destare il lor pensiero ardito,
a far che su l’ibero il piè veloce
porti bardato il corridor feroce.

6Et a ciascun dicea che di Liguria
un uomo erasi offerto al rege ispano,
curando poco ogni marina ingiuria
un incognito mondo unir lontano,
mondo che di tesor non ha penuria,
mondo che per sua fossa ha l’oceano,
mondo che mai non sa vedere il verno,
mondo che sovra al fiore ha ʼl frutto eterno.

7Queste et altre la fama alte novelle
per le bocche spargea d’Europa antica,
onde in vario desio cose sì belle
fan che l’anima vaga il core intrica:
molti van dove questa è che gli appelle,
né lunghezza prezzar, né san fatica;
altri avaro desio sentesi al petto,
altri d’onor sol conosciuto affetto.

8Sorge ne l’umil gente umil pensiero,
nasce ne i veri eroi brama prestante,
mercenaria sen va quella a l’ibero,
e muovon questi avventurier le piante.
Ma già fatto partita il verno fieroA primavera Colombo decide di partire, prima passa in rassegna le truppe davanti al re (8,5-81)
del vento più gentil sorgea l’amante,
da i colori è seguita e da gli odori,
veste ha di fiori e son ricamo i fiori,

9onde il saggio ammiraglio a i re venuto
«Tempo» diss’ «è di mia fatica estrema;
la bonaccia mia chiama, onde il temuto
pelago scisso e si contorca e gema».
Et essi: «È ben ragion ch’omai l’astuto
tentator ne l’abisso alto ne frema,
però da’ mostra a noi davanti, avanti
ch’apra le vele a i Zefiri spiranti».

10Et ei tosto l’aviso a tutte manda
le destinate a lui seguir coorti
quando il sol matutino i raggi spanda
ognun sotto l’insegne il piè riporte,
e pronti ad esseguir quanto ei commanda
attendono il dì novo i guerrier forti.
Pur esce alfin del sole il primo lampo
e ingombra armato il nobil campo il campo.

11Rauco rimbombo e strepitoso e grave
fan percossi i tamburi in quella parte,
in questa l’oricalco in suon soave
ma generoso incita l’alme e Marte.
Sol s’attendono i re, sol quei non have
il sito ancor di tanta vista a parte;
giungono poscia, e in alto solio assisi
volgono a quei che son già mossi i visi.

12Musa, di’ tu sotto quai duci arditi
lieta sen gìo la soldatesca ibera,
o da’ forza al mio stil sì che t’imiti
e ne resti a i futuri istoria intera.
De’ pedoni belligeri e spediti
passa innanzi al Colombo, anzi ogni schiera,
e del picciolo fulmine gravati
portan lucidi ferri a l’un de’ lati.

13Primo che venga in mostra è ʼl rigoroso
Alonso di Pinzone; erge costui
l’audace fronte, e non sa far nascoso
il suo disprezzo, il suo gran fasto altrui.
Splende tutto d’acciar ricco e pomposo,
e son gravi e tremendi i passi sui;
così di tosco è, ʼl bruno sguardo acceso,
su ʼl libico terren cerasta offesa.

14De le genti di Palo egli si mena
ben trecento diretro uomini feri,
né men del conduttor di fasto han pieno
la fronte, e dispettosi i lor pensieri;
popoli che del mar l’onda e l’arena
nulla curando gli Aquilon severi,
corron temuti, e de le vele il volo,
carchi di prede, indi gli adduce al suolo.

15Dal cocco tinta e da l’argento ornata
s’erge l’insegna a vezzeggiar co’ venti,
se l’occhio la rimira in mezzo guata
star duo leoni a dura zuffa intenti,
e inorridir la lunga giuba aurata
scorgi, quasi i ruggiti anco ne senti,
argente han l’ugne, e di bel minio e vivo
è ʼl sangue che da lor sen cade in rivo.

16Superbo men, ma con non meno ardito
cor, segue a la sua schiera il minor frate;
Vincenzo è ʼl nome, et ha ʼl suo merto unito
de i Catalan le sorti genti armate.
Non dal numero primo egli è seguito,
venti calcano men le sue pedate,
ma dove il suo governo egli ha minore
forse pari è di forze, anzi maggiore.

17Che se steril di grani è Catalogna,
abondante è di spirti alti e sublimi,
né chi l’animo inciti a lor bisogna
che quando è ʼl tempo a contrastar son primi.
Anch’essi usi nel mare, ogni rampogna
sprezzan del vento, e nati in mar gli stimi
sì schivar di lui san la furia indegna
ma qual di tal drapel sarà l’insegna?

18L’insegna è verde, e fra quel verde e certo
par viva e che si mova a l’aure estive:
sorge una selva a piè d’un campo aperto
di piante varie, tenere e lascive,
da cui fugace e di suo stato incerto
esce un lepre ch’al suo disegna e scrive,
con l’orme il suo timor; seguelo un cane,
già par che gli s’aventi e che lo sbrane.

19Terza è la gente che tra Cinga e ʼl monte
di Monaco e Molina, e a l’Ebro in mezzo
e le rupi Brabantie erge la fronte,
terra a Cerere pia certo in disprezzo,
ma non perciò l’abitator ne l’onte
de la natura a sospirar s’è avezzo,
industre altronde ei di recar mai stanco
certo non è ciò che ristori il fianco.

20E lieti van sotto Rolando, e forse
più che non denno: esso in aspetto amico
cela crudo pensier, ben se n’accorse
il capitan, ch’indi il trovò nemico.
Pur chi, se non sol Dio, l’animo scorse
d’un che riso mostrando ordisce intrico?
Instabile, mendace, impaziente
era Rolando, e seduttor di gente.

21Ma, dico, in conosciuto a tutti è caro
così coprir sa col suo finto il vero.
Passa e percote il sol con raggio chiaro
di piume tremolante, alto il cimiero.
Suona ne l’armi, e non un ghigno amaro
inchina lui ch’è capitan primiero,
e quel cui la bandiera il ciel destina
ad essempio di lui passa e s’inchina.

22Candido è ʼl gonfalon, ch’in campo verde
dipinta a macchie una pantera avea;
il prato onde camina il pregio perde
sì bella appar l’ingiuriosa dea;
essa il capo crudel, per cui disperde
l’anima de le fere, alto tenea;
sembra attender se dèe tornare a l’opra
che fa che solo il busto a quelle scopra.

23I lindi Aragonesi ei dunque or mena,
quattrocento ne mena, e dietro a questi
seguon color che di Valenza amena
abitan le contrade alme e celesti,
Valenza, che di grazie adorna e piena
il primiero giardin certo il diresti,
Valenza, che di popoli lasciva
le delizie lusinga e l’ozio aviva.

24Ma ben che molli abitator produca,
non è che sempre a i lussi in preda sia,
che chi è molle talor vien che riluca
d’animo grande, il qual virtù poi cria.
Sotto stimato e poderoso duca
molti suoi figli al novo mondo invia:
son trecento e cinquanta, e ʼl duce amico
che lor regge prudente è Roderico.

25Roderico valente, a cui la fama
diede lupo vorace ancor garzone
per saziar de le cacce esso la brama
in solinga foresta un dì si pone,
e mentre da una fera i veltri chiama
spinge un lupo improviso aspro burrone,
forse affamato è ʼl lupo, onde si scaglia
per che nocente il cavalli ero assaglia.

26Et ei, che nessun ferro al lato avea,
repente a lui che gli è già sopra stende
ambe le mani ardite, e ne la rea
strozza, caso o saper, felice il prende;
stringe, e chi a lui trarre il vital credea,
di spirto vòto essanimato ei rende,
e su la terra a le sue prede avanti
stupor gelato il lascia a i riguardanti.

27D’allora in qua sempre portare ebb’uso
o su lo scudo o su ʼl cimier quel fatto,
or ne l’arme del re raccolto e chiuso
ne l’insegna spiegar farne il ritratto.
O come il false il pittor fabbro in suso
mette l’opra valente ei certo in atto;
la forza il vincitore, e mostra il vinto
la rabbia ancor che fa restarlo estinto.

28Vedi gonfie le vene, e i nerbi conte,
onde la viva morsa il collo stringe,
vedi piena d’ardir la chiara fronte
che di vario color s’orna e dipinge,
et inutili vedi omai più a l’onte
che le zanne nocenti il color finge;
gli occhi il lupo di bragia al guardo appresta,
già spiccian fuor da la terribil testa.

29Il cilestro color tinge l’insegna
ma de la zuffa ha color vario il campo.
Or chi ʼn mostra lo segue e ʼl terren segna?
ora chi ʼngombra e chi riempie il campo?
Velasco con sua schiera è che ne vegna,
un germe egli è d’onor, di Marte un lampo,
e di Murzii montani è quella schiera
a cui temuto e riverito impera.

30Le mani use a le marre, a i solchi amiche,
incallite a l’aratro et al bidente,
solite a sceglier lane, a le fatiche
di Bellona oggi chiama il re potente,
né già di sostenere elmi e loriche
par che si sdegni la silvestre gente.
Quaranta son sopra ducento i forti
che passar con Velasco il duce ha scorti.

31Né va meno stimato il suo vessillo
fendendo l’aure con invogli et onde,
de’ suoi foschi color l’ombra vestillo
e ben l’impresa a’ que color risponde.
Di Marzia rigorosa Amor ferillo,
Amor ch’immenso il suo tormento infonde,
amò Marzia Velasco un tempo, et essa
sprezzò ʼl suo amore e sol prezzo se stessa.

32Ond’egli, generoso, in tutto estinse,
diradicò quel suo mal nato amore,
però sovra l’insegna ampia dipinse
d’arida paglia un vacillante ardore,
et un vento da parte anco vi finse
ch’in lui spinge potente il suo furore,
e disperde la fiamma e rende spento
e confonde il suo debile alimento.

33Guzmano d’Olivare adduce in mostra
dietro a lui le sue genti; in quella terra
nate son che fruttifera si mostra
tra ʼl fiume Guadiana e Gibelterra.
Con questa region null’altra giostra
che la Spagna nel grembo accoglie e serra:
vini, grani, e con lor greggi e destrieri
ferace espone a i sofferenti iberi.

34Andalogia è nominata, e al gran passaggio
cinquecento Andalogi amica invia.
De l’umana stagion quasi su ʼl maggio
tutti costoro il nobil duce unia.
Non tempesta di mar, non d’aria oltraggio
far paurosi i forti cor potria:
Guzman gode in mirarli, et essi in lui,
e fortezza e fiducia offrono altrui.

35Sovra la gialla e marzial bandiera
porta l’alfiero in fra l’arene un fiume,
fiume ch’impetuoso in fronte altera
col mar s’affronta e contrastar presume;
ma de la sua iattanza altro non spera
alfin ch’essendo infranto alzar le spume,
e respinto, s’in altro ei non s’appaga,
torbido almen l’alte sue ripe allaga.

36Restan di fanteria due squadre ancora,
ma d’esse l’una a sé mostrar già move,
e sovra il gonfalon mirossi allora
scotitor de la terra, ondoso un Giove
ch’in un mar corucciato in viva prora
la tempesta crudel ferza e rimove,
e la prora animata ove s’asside
un delfino è che i flutti urta e divide.

37Or che popolo è questo? e di qual duce
per l’ocean fia che le leggi osservi?
Sareste è ʼl capitano, e lor conduce
dal Fiamingo terren compagni e servi.
Biondo, lungo e sottile il crin riluce
l’occhio un dolce splendor vien che conservi,
e candidi le membra, anco il candore
di sincero voler portano in core.

38D’anni matur ma di venusto aspetto
è ʼl conduttier de la felice gente.
Doglioso va, ch’alto pensier nel petto
sorge ben spesso, alto pensiero ardente.
Più da l’onor che da sue brame astretto,
lasciar convenne la moglier dolente,
e ʼl pensier che conturba il suo cor tanto
è ʼl ripensar de la meschina al pianto.

39E s’egli sì pensoso e sì turbato
move le piante a la fatal rassegna,
lieto Arunte sen vien da l’altro lato
che, nemico d’Amor, l’ozio disdegna.
D’armi dorate e luminose armato
su gente di Biscaglia invitto regna;
aurato ha ʼl crin, ma va di molle argento
(lanugine gentil) fiorito il mento.

40Diece più di Sareste in mostra ha tratto
uomini di Bellona arditi eredi,
quattrocento e settanta a regger atto
ei qui si mira, ultimo duce a piedi,
e quando l’ammiraglio innanzi è fatto
con dolce maestà chinarsi il vedi,
snello e leggier quindi il campion sen passa,
segue l’alfiero, e l’alta insegna abbassa.

41Poscia l’erge di novo, e in essa appare
ritratto Amore ad un troncone avinto.
Giace l’arco spezzato, e quasi pare
l’infelice legato in tutto estinto.
Folle Arunte, così volea vantare
d’avere il dio de le vittorie vinto,
ma vicino è ʼl castigo: a te s’aspetta
o Marzia marzial, l’alta vendetta.

42Già passati i pedoni, impazienti
stanno de i cavallieri i corridori;
sbuffan, spargon le nari intorno ardenti,
le spume e spumeggianti i vivi ardori,
et al suolo non sol ma calci a i venti
veggion darsi, agitando i lor signori,
e crescendo più sempre ire e pruriti
raddoppiar salti e replicar nitriti.

43Del svevo reame il magno erede
primo con destrier cento in mostra appare;
misero, di pallor tinger si vede
segno vero d’amor, le gote care:
un lustro è già che la regal sua sede
e ʼl dolce genitor poteo lasciare,
seguendo lei che disprezzando spesso
omicida de l’alme oltraggia il sesso.

44Marzia, Marzia, ch’errante armata andava
fu calamita, e lui da ferro accolto
trasse del regno suo, ma non osava
ei palese affisarsi in quel bel volto.
Seguilla, e dove il corridor portava
egli il suo corridore ebbe rivolto,
ella del re spagnuol fermossi al soldi,
fermossi ancor per lei servire Erpoldo.

45Erpoldo è ʼl di lui nome, e ne la guerra
di Granata produsse opre sì vaghe
che vista quale anima grande ei serra
vien che di sua virtù Ferrando appaghe,
e, ben che nol conosca, alto l’afferra
un desio che più errando egli non vaghe,
sì che di quella schiera il fe’ rettore,
né darle già potea capo migliore.

46Passa dunque primiero, e ʼl suo drapello
sembra armato di lancie un picciol bosco.
Ha sovra l’almo il cavallier l’augello
che ne i raggi del sol terge ogni fosco,
e su lo scudo, e rilucente e bello,
mira al vivo ritratto occhio non losco
un cor che tra le fiamme è che si stempre,
et un motto sovrasta e dice: Sempre.

47Ma ecco dopo lui quella che l’alme
dolcemente imprigiona irata e fera,
ecco colei che sa portar le palme
con li strali de gli occhi esperta arciera.
Par che dica nel guardo: Altro non calme
ch’esser d’aspro rigor maga e guerrera,
né Marzia io detta fui che per seguire
gli sdegni e l’armi, le battaglie e l’ire.

48Ne la vasta Bertagna al mondo espose
costei del forte Alcandro Orinda ardita,
che non mai con bei nastri il crin compose
ma con l’elmo la chioma ebbe sopita,
et appena il suo parto ella depose
ch’a gran pensiero il suo consorte invita
nel fiume che d’intorno i campi asperge
gelato: ben tre volte esso la immerge.

49Poscia di là la tragge, e’ vuol che s’usi
a i rigori del giel farsi più dura.
«Sian» dicevan tra lor «crescendo i fusi
a lei noiosi e feminil natura».
E mastina crudel quando confusi
traea vagiti, il suo dolor le fura,
ch’ella col latte forte a lei quieta
di dar cibo e sostanza unqua non vieta.

50E mentre ancor tra puerile affetto
crescea Marzia fanciulla, e l’elmo e ʼl brando
de’ parenti feroci accolto e stretto
con la rigida balia andò scherzando;
né l’innato desio fugò dal petto
poscia, la puerizia andata in bando,
che del materno usbergo il fianco carco
cercò di fama, e ritrovollo, il varco.

51E fatta del suo nome Anglia ripiena,
lasciolla, e cavalcò la terra errante,
sempre fama acquistando; alfin l’arena
spagnuola attinse, e vi fermò le piante,
e fatto il campo altier teatro e scena
per varie prove a quei duo re davante,
e visse aventuriera infino allora,
oggi di tanta squadra il re l’onora.

52Vuol che nel novo incognito paese
il suo chiaro valor cognito sia,
n’ella già ricusar dal re cortese
il favor meritato unqua potria.
Così avanti al Colombo il sentier prese,
dolce e crudele, e rigorosa e pia.
Arde ne le sue luci un sol gemello
e nutriscon le gote un giardin bello.

53Passa, dico, e ʼl destrier, quasi la soma
conosca che sul ʼl dorso a portar viene,
brilla superbo, e in dolce orror la coma
con vari movimenti erge e sostiene.
I novanta guerrier di cui si noma
duce, nel suo voler saggia mantiene,
né fan punto stimarsi abiette e vili
sotto impero femmineo arme virili.

54Passa, e nel suo passar dietro si tira
a migliaia i sospiri, a mille i guardi,
ma d’ogni altro vie più che l’occhio gira
Erpoldo, il degno amante, è che la guardi,
e mite e furioso ama e s’adira
mentre affissansi in lei gli altri gagliardi.
Ha su lo scudo un basilisco insano
e tien col rostro scritto: Anco lontano.

55E memore del latte ond’ella crebbe
su ʼl cimiero una cagna have feconda.
Giunta a la meta ove fermar si debbe,
Policandro il suo stuol non vien ch’asconda,
Policandro, che pur per lei si bebbe
d’amore amaro, o sia ʼl letargo o l’onda;
sprezzato anch’esso e conosciuto, more
sotto il fulmine altier del suo rigore.

56E ben mostran lo scudo e l’elmo forte
del suo fiero dolor segnale aperto.
L’elmo per uso cimiero alza la morte
lo scudo, un core in sacrificio offerto,
e ben che ʼl suo pensier le gote smorte
faccino a chi lo brami in tutto certo,
intorno a l’ara ove lampeggia il foco
meglio il palesa, e dice il motto: È poco.

57Da cento cavallieri egli seguito
con quei più si ritira e cede il campo,
onde Asterio si move, Asterio ardito
che pur spesso provò d’amore il vampo,
ma la lunga esperienza il seno unito
cauto schernì sì periglioso inciampo,
e per ciò su ʼl cimier portar presume
grande augel che raccolto have le piume.

58E sovra il forte scudo alza dipinta
nave ch’a basse vele il porto leva,
Basta dice lo scritto. A gloria accinta
con lui vien che sua Clade il destrier mova,
né qual l’altre con lance oltre s’è spinta,
scoppi tonanti a lei portar sol giova.
Cento e diece guerrier conduce, e cento
n’ha ʼl conduttier ch’è lui seguir non lento.

59E Baldassar di Zanica il campione
che de gli affetti il domator s’appella,
sol nel lume di Marte il guardo espone,
solo a i raggi d’onor se stesso abbella.
L’elevato cimier pur testimone
del suo desio, con muto dir favella:
una palma è ʼl cimiere, e scossa in onde
terror diletto a i riguardanti infonde.

60Ma lo scudo più chiaro apre e dimostra
dove sue brame han terminato il volo:
un sole in ciel seren quivi si mostra
nel Sagittario, e dice il motto: È solo.
Quegli che son lui seguitando in mostra,
calcan come i trascorsi armati il suolo,
e di sgombrano il campo acciò che possa
seguir schiera ch’estrema èssi già mossa.

61Un giovinetto innanzi a lor si vede,
a lor che cavallier son di ventura,
che di grandezza ogni suggetto eccede
ch’a tutti di beltate il pregio fura,
biondo crin, rosea gota, occhio che fiede
a vibrar dolce et amorosa arsura
veggonsi in esso, e là passar suol l’ore
da Marte fier non mai disgiunto Amore.

62Del color de la fiamma elmo et usbergo
ei veste adito, e in lor si specchia il sole,
e come il duce onde le carte or vergo
le portò chi d’Ettorre anco si dole,
Pelìde io dico, il qual di questi il tergo
seguio di Troia intorno a l’ampia mole,
e che la terza volta il fece esangue
al suo caro Patroclo offrendo il sangue.

63Or del caro garzon ch’a gli altri è duce
qual fia ʼl nome e la patria e qual la pianta?
Lo scudo che sei gigli aureo produce,
azzurri gigli, il suo bel ceppo vanta,
esso il quarto Ranuccio uscì a la luce
da quella stirpe onde la fama è tanta,
del Farnese retaggio in tutto lieto
qua l’appresenta il suo diletto Orvieto.

64Ranuccio che dipoi potente e forte
de la Chiesa di Dio le squadre resse;
del passaggio il bel grido a questa corte
il trasse, e più compagni a l’opra elesse.
Giunto non già la cieca, ingrata sorte,
me ʼl merto sovra gli altri alto l’eresse,
che seguir capita vèr l’altro polo
tutti gli aventurier voller lui solo.

65Né ben che del suo april godesse il verde
ricusò ʼl pondo o si stimò non atto,
ah che germe gentil giamai non perde
la bontà di quel tronco ond’egli è tratto:
generosa virtù sempre rinverde,
agno non mai nobil leone è fatto.
Mosso dunque Ranuccio a gli altri è via
e pronto innanzi al capitan venìa.

66Sovra negro destrier che l’aure erranti
ebber de le cavalle al Tago in riva
preme la sella, e giunto al duce innanti
bella materia a i riguardanti offriva.
Raggira il corridor gli occhi fiammanti,
esce di là rigida fiamma e viva,
s’erge su i piè dinanzi, indi s’abbassa,
e con erta cervice oltra sen passa.

67Poscia la crolla impetuoso e freme,
s’erge di novo e spinge i calci al vento,
e su ʼl terren che ripercote e preme
versa dal morso d’or spume d’argento;
dove le prime fur, le piante estreme
corrono strepitando in un momento,
onde ne la prestezza un lampo ei pare
e ne le scosse un terremoto appare.

68Tra gli eroi i più nomai Arpindo viene
che da l’amata patria il nome toglie,
e da quella propagine si tiene
uscir che Grecia ivi portò le spoglie,
di Tidide, che là fermò sua spene
poi ch’a Pergamo vide ultime doglie,
né lagnar Diomede oggi si puote
che si chiami di lui questi nipote.

69Brunorio evvi, e su l’Adige il produsse
Erardo illustre, e sovra il Brembo nato
Anniballe va seco: ambo condusse
vaghezza di veder ciel novo e grato.
Francesco, che a Ferrara un sol rilusse,
segue a costor pomposamente armato,
e porta ne lo scudo e grave e bello
sotto stellato ciel sacrato avello.

70Laurente, che su ʼl Tebro alzar la sorte
scorse i depressi et adimar gli eretti,
qui pur venne, e sprezzator di morte
l’insubre Sadoardo è fra gli eletti,
e intrepidi non meno è che sen porte
l’onor seguito in fra i miglior duo petti,
Timbrico et Arideo, d’un corpo stesso
nati guerrieri al Bachiglione appresso.

71V’ha la Parma Corebo, havvi Tristano
Scotto la Trebbia, havvi il Panaro Alcoro,
havvi Egistro la Dora, havvi Lisbano
il Mincio, e ʼl bel Metauro havvi Pandoro.
Ma te dove tralascia or la mia mano,
pregio non vil de l’ammirato alloro?
Val d’Arno tu lasciasti, o buon Sireno,
e quelle Muse a cui lattasti il seno.

72Non egual dunque ivi mercasti onore
di quel che possa unqua sperar fra l’armi?
Ah che forse in veder ch’inope more
oggi Parnaso, abbandonasti i carmi,
colpa sol, ma la taccio; o cieco errore,
ergi Europa superba i bronzi e i marmi
e disperder poi lascia i sacri ingegni,
e de i marmi e de i bronzi assai più degni.

73A voi d’astuzia omai cambio gentile
men vengo; egual cagion ma in vario clima
Arisba tragge a sé mostrar virile
fa che femina Elpandro or qui s’estima:
dir fassi ella Meonte, e ʼl crin sottile
ha reciso, et Elpandro è detto Elpima,
e con chioma lasciva in vago aspetto
vera donna rassembra il giovinetto.

74Di nemico potere ambi l’insulto
temendo, mutan nome e cangian sesso.
Su ʼl Tronto Elpandro, omai venuto adulto,
vide sotto il tiranno il padre stesso,
videlo ucciso, e non tenere occulto
che tragger vuol dal caro mondo anch’esso,
né ʼl coltello aspettando il mesto figlio
donna si finse et armò d’elmo il ciglio.

75E per che più sicur dal mostro infame
resti, qui venne, e fessi aventuriera,
e può destare a l’amorose brame
più d’un cor de gli eroe che vanno in schiera.
E de la bella Arisba il molle stame
a filar cominciò parca severa
colà dove sopposta a i geli estrani
rigida region sovrasta i Dani.

76Era detta costei di sue contrade
un sol, così leggiadra ergea la fronte,
s’allevò ne le cacce, e d’erte strade
segnati, circondò la valle e ʼl monte,
suo letto fe’ la terra e le rugiade
non temé, né di vento ingiurie ed onte,
bevve l’acqua assetata, ancor che fosse
torbida, che la terra al labbro mosse.

77Corre di suo valor, di suo sembiante
il nobil grido, onde del re s’infiamma
di lei lascivo il figlio, e sempre errante
have il pensier come temprar sua fiamma.
Un giorno là dove portar le piante
suole Arisba, seguendo or cerva or damma,
fatto anch’e’ cacciator giunge e la vede
che move a l’opra inveterata il piede.

78S’accompagna con lei, vago si mostra
sol di veder come con l’arco vaglia,
et essa a le sue lodi il volto inostra,
onorato pudor vien che l’assaglia.
Giungono alfin dove selvaggia chiostra
l’mante invita a singolar battaglia,
a battaglia amorosa, e lei palesa
con sfacciato parlar sua voglia accesa.

79Si sdegna ella e ʼl garrisce, ei, che la tenta,
a lei si scaglia e vuol mostrarsi atleta,
ma la nobile vergine è non lenta
ne lo schermirsi, e i sozzi baci vieta,
e per trarsi d’impaccio indi s’aventa
furiosa, terribile, inquieta
con le man ne la gola al folle, e stringe
e dal corpo crudel l’alma ne spinge.

80Poscia, per che sen fugga, e non aspetti
ch’i serventi di lui chiedan vendetta,
e le gemme e i rubini e gli ori eletti
prende del morto, e le sue piante affretta.
Passa in varie contrade, e i crin diletti
recide, e si finge uom, Meonte è detta,
compra l’arme e ʼl destriero, e soffre il pondo
e con gli altri a cercar s’accinge un mondo.

81Marzia, tu che superba Amor non curi,
tu che ʼl sesso maschil d’amar disprezzi,
per costei proverrai quanto s’infuri
Cupido, e quali ordisca odi e ribrezzi,
e saranno a tuo mal certo più duri,
che sia ad altri il rigore, i baci e i vezzi.
Ma tempo attendi, io seguitar fra tanto
deggio fedel de la mia Musa il canto.

Ferrando consegna lo scettro del comando a Colombo, e una spada a Ranuccio Farnese, capo degli avventurieri (82-88,2)

82Or così omai tutte le squadre avendo
fatta pomposa e general rassegna,
commanda il re su ʼl trono anco sedendo
che ʼl canuto ammiraglio a lui sen vegna.
Vuol quivi ancor quel che, guerrier tremendo,
l’opre di gloria a i venturieri insegna,
Ranuccio io parlo, il mercator di palme,
il terror de la guerra, il re de l’alme.

83Vanno, e ʼl Colombo al destro lato è messo
come richiede il crin d’argento e ʼl grado,
e lo stuol de gli arcier disgiunto e fesso,
che fa corona, a lor dischiude il guado,
e riverenti a i duo gran regi appresso
fansi, e ferma il lor piè l’estremo grado.
Cento eran questi, e la Murice ha dati
gli ostri al velluto, onde sen giano ornati.

84Ferrando a l’almirante un scettro allora
porge, ch’avince in or più gemme altere;
«Questo» favella «onde ogni re s’onora
io ti consegno, e ʼn sua virtù le schiere.
Presti quel Dio che ʼl Vaticano adora
fortunato l’evento al gran pensiere,
e l’oceano il passo a nove terre
a novi regni or più non chiuda e serre».

85Poi, volto al fier Ranuccio, «E tu» seguio
«de la mia man, nobil garzon, ricevi
questo buon ferro, e fa di sangue un rio,
che s’ei lo scettro, il brando usar tu devi».
L’uno e l’altro di lor non è restio
prender quel don, per ch’a più onor si levi,
e promette mostrar segno perfetto
che non fu invano a tanta soma eletto.

86E la grande Isabella, allora che tace
ciascun di questi, adorno elmo splendente
da sublime donzella addur si face,
così a Ranuccio indi parlar si sente:
«E da me questo, o giovinetto audace,
ricevi, e con lui copri il crin lucente;
portollo Orlando, e Ferauto il tenne,
per via mal nota in mio poter pervenne».

87Ei genuflesso un sì fort’elmo accoglie,
e sente il cor non ben capir nel seno.
Drago ha ʼl cimier che, di scagliose spoglie
vestito, sparge alato atro veleno.
Il labbro appena a ringraziar discioglie
che convien porre a i mossi accenti il freno;
lasciano i regi il solio, e ʼl piè distende
ove superba aurea quadriga attende.

88Questa in grembo gli accoglie, indi seguita
da gli arcieri e da i paggi il campo sgombra.
E l’almirante a la partenza invitaL’armata salpa e giunge alle Canarie (88,3-100)
le schiere; ecco la polve il cielo adombra,
il mar le attende, e i legni il vento incita,
già ʼl proprio pin ciascun guerriero ingombra,
spinge la ripa il marinaro ardito,
volan le vele e si discosta il lito.

89E Dio partendo il capitano appella,
seguon l’essempio i suoi guerrier divoti,
e verso l’ocean l’armata bella
s’avanza per solcar sentieri ignoti,
Ecco incontro venirne amiche a quella
quelle che ributtar cento piloti,
le colonne famose, i chiari segni
che pose Alcide a i marinari e a i legni.

90Magnanimo sprezzando il gran divieto
mira il Colombo Abila e Calpe e passa,
e in pelago infinito audace e lieto
s’ingolfa, et ogni terra addietro lassa.
L’ocean che ʼl tirinzio almo decreto
sente sprezzar da la sua parte bassa
sorge, e vortici d’onde a i legni oppone,
stride, e la spuma intorno a lor compone.

91Ma non per ciò ***
piega a sinistra, e chi temea rincora.
Sette volte da l’Orto il biondo arciero
prima che veggan terra il cielo indora,
e l’ottavo mattin su l’emisfero
vider sorgendo a riportar l’aurora
de l’Isole Canarie uscir la prima,
anzi a cui tomba Ulisse aver si stima.

92E più fansi vicin men alta appare;
lascianla a tergo, e va crescendo il vento.
Veggion due nove aurore alzarsi in mare
e ʼl tutto osserva il gran Colombo intento,
e per che la fortuna ivi destare
sue furie vuol, non si dimostra ei lento,
ma d’isola scorgendo erma riviera
prender vuol porto, e ben sicur lo spera.

93Fortunata due volte isola è questa,
che ben ch’inabitata oggi è famosa,
e sarà sin che ʼl mondo a regger resta
quel veloce cursor che mai non posa.
Qui a la gloria cristiana Armida infesta
tenne in vita lasciva e vergognosa
de gli Estensi regali il pregio saldo,
lo stupor de la Fama, il gran Rinaldo.

94*** favella a lui, che tiene
tra i piloti maggior primiero il grado:
«Scirone, udisti il vento? Egli sen viene
ad impedir del nostro calle il guado,
però prendere il porto omai conviene».
«Nel tuo pensier» colui risponde «io vado,
signor, lascia a me ʼl peso», e qui commanda
a i marinar: «Piegate a questa banda».

95Volgono essi i timoni, e le gran rupi,
le due rupi superbe e torreggianti
appressano fra poco, e ʼn que’ dirupi
entran sicuri tutti i naviganti.
Altri l’ancore getta, altri è ch’occupi
le mani fra le gomene pesantiS | pessanti,
altri abbassa le vele, altri distende
nel solingo terren trabacche e tende.

96Così lepre che i campi iva pascendo
senza temer di cacciator l’insulto
s’ode vario rumor vien tosto ergendo
l’orecchie, e guarda, e teme ogni virgulto,
e se poi vede il veltro uscir tremendo
fugge il suo pasco e cerca un loco occulto,
né mai lascia il timor sin che ridotta
non l’ha ne le sue tane amica grotta.

97Sono appena fermati ivi gli abeti
che ʼl vento gonfia e incanutisce il mare,
mira ʼn essi vicin, ma però lieti
come feroce or l’oceano appare,
mugge, indomito tauro, e «Quai decreti
(par dire infuriando) or mi vuol dare
il fato? Il mio gran regno ah dunque audace
potrà solcar vela mortale in pace?».

98E ben par che ciò dica ei mentre s’ange,
e verso a que’ duo scogli è più turbato:
spinge, fulmini suoi, l’onde e le frange
ora in questo ch’opponsi, ora in quel lato,
e qual contra di cani a rea falange
cinghial ferito e feramente irato,
poi che far la vendetta in van presume
versa torbidamente e bave e spume.

99Atleti orrendi e poderosi flutti
quasi parean mentre s’ergeano al cielo,
cingean l’un l’altro, et a sforzarsi indutti
destaro alfine in chi mirava un gelo.
or l’un cade sommerso, or gli altri tutti
precipitando ergean di spruzzi un velo,
oscuro velo, e di gran conca in foggia
talora è ʼl mar, talor si drizza e poggia.

100Poggia liquido monte, indi si curva,
arco che ruinoso al mar sen torna,
l’onda ch’era colà spinge e ricurva,
poscia al tumido suo fiacca le corna,
et a serpe sembiante, or lunga or curva,
corre, insulta le sponde e non soggiorna,
retrograda si cela e vergognosa,
così pugnanoS | pugnando i venti e ʼl mar non posa.