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Gerusalemme distrutta

di Giovan Battista Marino

Canto VII

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 26.03.15 12:23

Descrizione della reggia divina e di Dio (1-13)

1Queste cose vedea da l’alte cime
de l’Olimpo stellante il re del mondo,
dond’ei scorge non solo il ciel sublime,
la spaziosa terra e ’l mar profondo,
ma de le cave più riposte et ime
ove il sol mai non entra il cieco fondo,
e i secreti pensieri e i chiusi affetti
che nel centro del cor celano i petti.

2Sovra la sfera al cui rotar si rota
ogni altra sfera mobile e superna,
sfera è di luce in ciel, che sempre immota
passion mai non ha ma pace eterna.
Regione è colà solinga e vòta,
se non quanto sol Dio l’empie e governa,
e quanto scarchi di terrene salme
han per sua grazia il seggio Angioli et alme.

3Folle, che tento? e qual mai vola o sale
sovra meta d’ingegno ingegno umano?
Spirto immenso invisibile immortale,
foco puro del ciel, Febo sovrano,
aura di tuo favor mi regga l’ale
sì che io non caggia e non le spieghi in vano.
Tu mi sostieni; a tanta via non use,
oltra Pindo poggiar non san le Muse.

4Gli ampi spazi de l’aria ascende e varca
sovra l’uso mortal fabro ingegnoso;
fuor de gli usci del mondo audace barca
passa i confin dell’oceano ondoso.
Ma quel ciel d’ogni ciel, del gran Monarca
palagio inacessibile et ascoso,
trascende i sensi e gl’intelletti eccede,
sol vi giunge a gran pena occhio di fede.

5Nel mezzo sta, né spazio ingombra o sito,
in soglio eccelso, anzi in se stesso assiso,
quel un, quel buon, quel ver, quel infinito
onde s’imparadisa il Paradiso;
quel non so che distinto e pure unito,
uno e trin, non confuso e non diviso,
che, non mosso e non fatto, e move e cria
quel che fu, quel che è sempre e quel che fia.

6L’eternità gli è seggio, a crollo o danni
non soggetto d’età: saldi diamanti
sono i gradi e le basi, il re de gl’Anni
fermo gli giace e catenato avanti.
Pendon dal carro suo piegati i vanni,
i Secoli volubili e volanti;
Egli con giusto scettro e dritta legge
frena e sprona le stelle, e ’l tutto regge.

7Riverente ministra e fida ancella,
donna che tutto può, sotto gli siede,
e i fulmini gli posa e le quadrella,
e l’armi tutte obedienti al piede.
Altra è seco compagna, anzi gemella,
virtù che tutto ancor vede e provede:
cent’ali, cento orecchie e vigilanti
ha costei sempre desta, occhi altretanti.

8Giovanetta amorosa il vasto lembo
e la prodiga man l’apre e discioglie,
e larga pioggia e prezioso nembo
di grazie e di virtù ne tragge e toglie.
Annosa vecchia avidamente in grembo
di vivi semi il ricco dono accoglie
e, madre universal, poi ne feconda
le campagne, le selve e l’aria e l’onda.

9Dentro gli abissi d’una luce densa
stassi il gran Padre, in sé beato e pieno;
da la fontana di tesori immensa
e da l’immenso incomprensibil seno,
oceano di gloria egli dispensa,
torrente di piacer che non vien meno.
Mill’alme ebre d’amor specchiansi in lui
e, di sé specchio a sé, fa specchio altrui.

10In se stesso si specchia et in se stesso
volto il sempre fecondo alto intelletto
un altro sé produce, e questo espresso
è di sé, questo in un parto e concetto;
unico, eterno, in tutto eguale ad esso,
divina imago, anzi divin subietto,
originata e non creata prole,
Dio di Dio vero e unico sol di sole.

11Mentre se stesso intende e la sembianza
di sé con tutto sé vagheggia e mira,
l’alma e l’amor ch’ogn’altro amor avanza
l’amato figlio in lui reflette e gira.
Da la gemina fiamma egual sostanza
ineffabilmente allor si spira,
spirto Dio, divin nodo, eterno amore,
santo don, santo messo e santo ardore.

12Come un’alma è membranza e voglia e mente,
come un’onda è fontana e rivo e fiume,
come di sole un globo solo ardente
ha vigore e calore insieme e lume,
così di tre virtù mirabilmente
fassi un sol groppo, e di tre numi un nume;
di tre persone un Gerion verace,
unica fiamma in triplicata face.

13In tre rami un sol tronco, una natura
triplicata union chiude e comprende,
e d’un solo voler, solo una cura
sì come un esser sol deriva e pende.
Ma tanta face i chiari ingegni oscura:
meglio s’adora assai che non s’intende;
sì profondo mistero e sì sublime
più che stil roco umil silenzio esprime.

Dio arringa il consiglio celeste, dice che le interferenze di Satana al viaggio dell’armata romana verso la Palestina devono terminare (14-24)

14Questo sommo Rettor le basse cose
spiando di là su del mondo nostro,
poiché l’insidie e le malizie ascose
tutte mirò del fulminato mostro,
tosto a l’alta armonia silenzio impose,
e fe’ di tutto il suo lucente chiostro
da gli araldi del ciel venir chiamati
gli eserciti de’ santi e de gli alati.

15Unissi il gran senato e fuor del trono
dond’apre il Sole eterno eterno il giorno,
uscìr prima tre lampi, e poscia un tuono
sé sfavillò, di doppia fiamma adorno.
Da quel lume abbagliate e da quel suono
quasi vinte e confuse intorno intorno,
umilemente l’aquile immortali
chinàr le luci e si schermìr con l’ali.

16«Udite, o cieli, e voi fermate, o sfere,
fermate o cori i vostri balli e i canti,
e voi d’eroi celesti udite, o schiere,
principi gloriosi e trionfanti;
odan gl’uomini in terra, odan le fere
del Creator gli oracoli tonanti,
e ’l mio decreto stabilito e fisso
co’ suoi rei cittadini oda l’abisso.

17Conto v’è troppo il troppo folle ardire
del gigante del Ciel, che tanto salse
quando per vano di regnar desire
del forte d’Aquilon la rocca assalse.
Tòrmi lo scettro e sovra me salire
tentò, ma contra i miei pugnar non valse:
cadde e, percosso dal fulmineo telo,
purgò per sempre d’ogni macchia il Cielo.

18Non sazio ancor il perfido, l’iniquo,
l’aver tratte mill’alme a i negri regni,
vedete come ancor per vezzo antiquo
contender meco e contrattar s’ingegni.
Là nel mar di Giudea per calle obliquo
mirate erranti i combattuti legni,
ch’absorti già dal tempestoso flutto
quando nol vietassi io sariano in tutto.

19Presago egli ha più segni et indovino
che presso è di Sion l’ultimo die,
il minacciato danno omai vicino
tenta impedir per mille astute vie;
però del mio guerrier campo latino
svelto ha, sotto sembianze amiche e pie,
fior di scelti campioni, e là gli ha scorti
ove restin sepolti anzi che morti;

20e con l’opre si sforza e col consiglio,
poveri di speranze e di governo,
di lor proprio voler nel gran periglio
seco tirargli al precipizio eterno.
Ma nol farà, che al mostruoso artiglio
vo’ che del mar sian tolti e de l’inferno,
né potrà spirito scaltro o guerrier forte
l’ostinata città sottrarre a morte.

21Pensa lo stuolo ebreo quella che ’l fiede
piaga mortal, di mortal man percossa,
e per basse cagioni avvisa e crede
guerra sì cruda incontro essergli mossa;
forsenna o non sa, cieco non vede
che de l’alta mia destra è sferza e scossa?
Quasi io non sappia ancor con l’armi ultrici
punir de’ miei inimici i miei nimici.

22Troppo, ahi troppo è per l’onde ito agitato
quel chiaro stuol di cavalieri eletti,
e tempo è ben che ’l mar fiero e turbato
s’acqueti, e l’alta impresa omai s’affretti.
Più non convien che ’l popolo indurato
a penitenza intempestiva aspetti,
né che scampo al suo mal trovi, o refugio
la profana magion. Che dunque indugio?

23Già non è villa omai, non è cittade
in piè rimasa ad Isael sogetta;
sola fra l’altre pur ancor non cade
l’alta sua reggia, e ’l crollo ultimo aspetta.
In questa, in questa voi latine spade
memorabil farete aspra vendetta
di quel sangue divin ch’a l’empia e cruda
venduta fu dal traditor di Giuda».

24Disse, e non è ’l suo dir sì come suole
formarsi il nostro, un suon d’aria vestito,
ma senz’uopo di lingua o di parole
mostra in se stesso ogni pensier scolpito.
Disse, e sì chiaro folgorò che ’l sole,
il sol pur or da l’oceano uscito,
fora appo quella luce ardente e pura
sì come a lato al sol la notte oscura.

Davide vede nelle pagine del libro provvidenziale i misfatti degli Ebrei (25-32)

25Tutto intente a quel dir porser l’orecchio
l’anime de l’Empireo abitatrici;
e quelle de lo stuol canuto e vecchio,
de la patria già lor fide tutrici,
visto nel chiaro e non fallace specchio
le sue ruine orribili infelici,
se non ch’alma del Ciel pianger non pote,
rigato avrian di lagrime le gote.

26Cinto fra gli altri di purpurea veste
il re pastore, il buon poeta ebreo,
quei ch’atterrò pien di valor celeste
in val di Terebinto il filisteo,
la nobil cetra, onde le furie infeste
de l’agitato re placar poteo,
lassò di man cadersi a quell’oggetto,
smarrito il volto e conturbato il petto.

27Allor del libro eterno il gran Tonante
le chiuse carte e sigillate aperse,
ove in viva pittura a gli occhi avante
de le cose il catalogo gli offerse,
sì che distintamente e in un istante
presenti i corsi secoli vi scerse,
e la cagion riposte e non intese
del gran flagello ebreo vide e comprese.

28Vede il Signor sì pio verso il perverso
popolo ingrato, incredulo lignaggio,
che de l’Egitto, al fin per lui sommerso,
libero il toglie al rigido servaggio.
Mandagli allor che più sen va disperso
campione e conduttier fedele e saggio;
per dargli in pietra il suo voler scolpito
fa scarpello a l’intaglio il proprio dito.

29Per aprirgli a la fuga asciutto il passo
vede far l’acque a l’acque argini e sponde;
vede apparir, quand’è smarrito e lasso,
nubi e colonne al suo camin seconde;
a la sua sete intenerito il sasso
scaturir fresche in larga copia l’onde;
al suo digiun somministrar cadenti
la vivanda del ciel puri alimenti.

30Ma vede indi i favor pagar d’oltraggi
quando, poiché d’Egitto uscito fue,
s’eresse là, tra bosci ermi e selvaggi,
idolo abominando un aureo bue.
Vede i fidi di Dio servi messaggi
crudelmente svenar con le man sue,
sì come ancor di mille nobil alme
fan fede in terra il sangue, in Ciel le palme.

31Vede che tutte avea pur queste offese
posto in oblio chi volentier l’oblia,
ma a tanto eccesso in tanto colmo ascese
la sua crudel malvagità natia
che l’eterna progenie, allor che prese
spoglia terrestre in umil forma e pia,
osò dannar, con voglie empie e malvage,
a brutta morte, a dispietata strage.

32Né però sua follia cessò né cessa,
ma d’un in altro error cresce e sormonta:
uccide ancor con quella rabbia stessa
Iacopo il giusto, et onta aggiunge ad onta.
Legge in oblio, religione ha messa
tutta in non cale, e sol la mano ha pronta
a l’oro, al sangue, e, vaneggiante ognora,
Venere e Bacco infami numi adora.

Davide prega la Vergine perché interceda presso Dio: chiede che i luoghi di culto cristiani non vengano distrutti (33-43)

33Ciò ne’ fogli di Dio, ch’aprir non lice
fuor ch’all’Agnel, né rivelare al mondo,
con la cupida mente esploratrice
letto il secreto avea senso profondo,
quando curvato e chin su là felice
terra de’ vivi il musico facondo,
là dove a destra in trono eguale al figlio
la gran Madre sedea, rivolse il ciglio.

34Oh che raggi, oh che lampi, oh quanta e quale
luce e bellezza ha in sé l’alta reina,
se quando lei, benché qua giù mortale,
il gran saggio d’Atene ebbe vicina
volse tanta bellezza senz’altra eguale
adorar come dea non che divina.
Or colà su ne la beata corte
qual esser dèe, c’ha sotto i piè la morte?

35Ella diadema illustre, e non già d’oro
ma di stelle gemmate avea ne’ crini;
copria di schietto sole aureo lavoro
suoi membri incorruttibili divini,
sotto il lembo le fean de’ vanni loro
quasi nube lucente i Serafini;
e vinta di candor la luna errante
d’ambe le corna sue scanno a le piante.

36A lei si volse e «Sosterrai che pèra
da peregrino incendio incenerita
de l’antica Giudea la donna altera,
già santa, or peccatrice non pentita?
Che non l’impetri almen con tua preghiera
pentimento e perdon, se non aita.
Tu, fonte di pietà, schermo de’ mali,
protetrice del mondo e de’ mortali.

37Quel sacro dunque e riverito tempio,
che pur tempio è di Dio, verrà che caggia?
Quel già del mio modello antico esempio
coprirà cener vile, erba selvaggia?
Ahi chi sarà ch’al sovrastante scempio
se non sol tu l’alta magion sottragga?
Te sol pregh’io, te che non pur soccorri
ma talor pronta il pregator precorri.

38Tu, colomba gentil, pura angioletta
ch’innamorasti Amor di tua bellezza,
genitrice di Dio, figlia diletta,
i suoi rigori intenerisci e spezza.
E ciò lieve a te fia, fra mille eletta
mitigatrice sol di sua fierezza,
che l’avesti bambin sott’umil fieno
legato in braccio e prigionier nel seno.

39Già svolger non tent’io l’ordine eterno
da’ suoi prescritti e stabiliti fini:
io stornar l’alte leggi? io del superno
mio Re crollar gl’immobili destini?
Prima il nulla m’assorba, anzi l’Inferno
ch’il mio dal suo desio torca e declini,
né sol che il suo voler voler potrei,
né potendo voler poter vorrei.

40Ma s’a punir quegli ostinati ingegni
l’ira giusta divina è già matura,
et è già fisso in Ciel che i tetti indegni
e depredi e divori ingorda arsura,
piacciati ritener que’ santi sdegni,
e da l’inique e scelerate mura
l’alta di Dio vendicatrice mano
torcer per breve spazio almen lontano.

41Sai quante alme rubelle e contumaci
che smarrito or del Ciel hanno il camino
lascieran le meschite e fian seguaci
del gentile idolatra e del latino,
indi per vie più dritte e più veraci,
scorte da spirto angelico e divino,
e sparse del lavacro almo di Piero
adoreran lo sconosciuto vero?

42Diva, se ’n Ciel de la carne e de la terra
dolce si serba ancor qualche membranza,
questo sol chieggio, e so ch’in me non erra
de l’affetto terren l’antica usanza,
quel ch’oggi irata man strugge et atterra
del tuo gran parto, e suo fu nido e stanza
***
***

43Forse non lungi è la sperata emenda;
rallenta tu l’inevitabil arco,
bella del Ciel, non aspettar che scenda
l’irreparabil colpo ond’egli è carco,
e se ’l vago ovunque il braccio stenda,
largo è ne’ premi e ne’ castighi parco,
tu che con gl’occhi santi il pungi e leghi
porgili, prego, i miei sospiri e preghi».

La Vergine prega Gesù, Dio decide di non punire altri che gli ebrei, seguaci di Satana (44-63)

44In cotai note il gran cantor disciolse
suo vivo zelo; udille, e pietà n’ebbe
la Vergin donna, e mentre i detti accolse
quasi fiamma per fiamma incendio crebbe.
Indi al suo dolce amor dolce si volse,
e porgendoli quelle ov’ei già bebbe
urne di latte, il suo divin sembiante
rivagheggiò, rivagheggiata amante.

45Splende vie più de la più chiara lampa
il suo velo impassibile e lucente.
Del fianco aperto la spietata stampa
spira di vivo ardor fiamma innocente.
Ogni palma, ogni pianta accesa avvampa
d’amor, di gloria e di dolcezza ardente.
Cangiato han le sue piaghe illustri e belle
il sangue in oro e le sue stille in stelle.

46Né la sua fronte a gli Angioli sì cara
vive la vita e ne trae cibo eterno;
questa sol è ch’intorbida e rischiara
la tempesta e ’l seren, l’estate e ’l verno;
dal suo ciglio felice il sole impara
de la face immortal l’alto governo;
dal dolce de sant’occhi ardente raggio
prendon le stelle, e ’l ciel l’oro e ’l zaffiro.

47Le fila sue di non so che conteste
ha quel ricco che ’l copre abito santo;
paion di sol, se ’l sol, che dal celeste
Sole ha sol lo splendor, splende cotanto;
luminosa una nebbia egli ha per veste,
nubilosa una luce egli ha per manto:
riluce sì che la sua luce il vela,
e ne’ suoi propri rai se stesso cela.

48«Figlio, figlio non odi? A i dolci accenti
del tuo caro fedel volgiti e mira,
come mi stringe e con che voglie ardenti
per la patria salute a me sospira.
Son le tue piaghe a doppio amor possenti
del gran Padre adirato a volger l’ira,
pur ch’ei s’affisi nel suo dolce pegno,
e la man porrà l’armi e ’l cor lo sdegno.

49Per questa istessa nazion, per questi
ciechi alla luce tua, sordi alla voce
per cui mercé chiegg’io, mercé chiedesti
fra l’ingiurie maggior de la tua croce,
tanto sol, tanto i vanni hanno men presti
la tua sentenza rapida e veloce,
che la Giudea, ch’or d’ogni lume è priva,
te riconosca e si converta e viva.

50Se nol val per se stesso il popol rio,
empia la grazia tua l’altrui difetto;
d’intercessor sì nobile e sì pio
vagliali il priego e vagliali l’affetto.
Vagliali almeno, o figlio, il pregar mio,
vaglianli queste poppe e questo petto;
con umil core in supplice favella
madre il ti chieggio e te ne prego ancella».

51Queste preghiere in sì dolci atti espose
l’imperatrice de’ celesti giri,
e ’n guise colà su così pietose,
come foran qua giù pianti e sospiri,
ben ne le luci angeliche amorose
vede scolpiti i fervidi desiri,
e con diletto in lui fisa e rivolta,
la supplicante il supplicato ascolta.

52Sì come a lo spirar d’Euro o di Coro
carbone in fiamma e si ravviva e ’ncende,
o come al sol specchio d’acciaio o d’oro
mentre raggi gli dà, lampi gli rende,
così doppiaro et alternàr fra loro
di lusinghe d’amor care vicende,
et a la vaga sua rise il diletto
con riflessi scambievoli d’affetto.

53De la bella oratrice et archi e faci
fur gli occhi, e fu la voce un arco e un dardo,
onde di fiamme tenere e vivaci
ferillo il priego e saetollo il guardo.
Con guardi anch’egli tremoli e loquaci
le rispose tacendo: io amo, io ardo.
Poscia a gli ardori, ond’ei dolce languia,
con dolcissime note aprì la via:

54«Madre, Vergine madre, è ben dura
selce quel cor che tu non rompi o pieghi;
ma qual più dolce a me dovuta cura
ch’ascoltar pii lamenti e giusti prieghi?
o qual, bench’impossibile a natura,
fia cosa in terra o in ciel ch’a te si nieghi?
Chiedi pur ch’arda il ghiaccio e ’l foco geli,
che nascan nuovi mondi e nuovi cieli.

55È comun questo scettro e questo impero,
quanto dar ti potei, tutto ti diedi;
comun anco è ’l voler, tu ’l sai, ch’il vero
de’ più cupi pensier nel cor mi vedi.
Da te, c’hai già di me l’arbitrio intero,
chieder degg’io ciò che da me tu chiedi;
tu non chiedi, anzi doni al Ciel le palme,
a Dio la gloria e la salute a l’alme.

56Non è incenso d’Arabia e non è rosa
porta altrui sì soave et odorata,
che di candido cor croce pietosa
al mio gran genitor non sia più grata.
Tu, di cui, tranne Dio, non fu mai cosa
più pura in Ciel, tu santa anzi che nata,
né prego se non mondo offrir gli sai,
né puoi da lui non ottener già mai.

57E dritto è ben che se tu don gli festi
d’alma sì ricca, ei ricompensi il dono.
Se già mortal nel sen tu m’accogliesti,
ch’io t’accoglia immortale or nel mio trono;
se ’l procelloso mar meco corresti
che tu sia meco or che nel porto io sono,
e ristoro e trionfo a pena, a guerra
succeda, e goda in Ciel chi pianse in terra.

58Pregoti sol che ramentar tu voglia
quando a sera il mio dì là giù correa,
quanto oltraggiò la già mortal mia spoglia
la scelerata e perfida Giudea;
con qual empio rigor d’ogni mia doglia
schernitrice crudel gioco prendea.
Gli strazi e l’onte uopo non è narrarte,
che meco fosti e de’ tormenti a parte.

59Ben de la terra mia già cara tanto
se doler mi sapessi io mi dorrei.
Già me ne dolsi e ne versai gran pianto,
rimorir per camparla anco torrei;
ma troppo han de le leggi il culto santo
contaminato i miscredenti ebrei,
e sferzan or in or l’eterna spade
che, ben che tardi, è ben dover che cada».

60Oltre seguir volea, ma le materne
commosse rimirò viscere amate,
e di stemprarsi le sue fibre interne
tutte di tenerezza e di pietate.
Le cinque allor dolcissime caverne,
cicatrici d’amor sante e beate,
del piè, del petto e de le mani aperse
e folgorante al Genitor l’offerse.

61Ma l’interno desio l’eterno figlio
non distinse in parole e non l’espresse:
già preveduto dal paterno ciglio,
qual gli nacque nel cor pira che nascesse,
«Pace, pace e pietà» scritto a vermiglio
in quei vivi caratteri gli lesse.
E ne gli occhi non men libri del core,
lesse a lettere di foco «Amore, amore».

62Sorrise il sommo Padre, e ’l suo sorriso
rasserenò di nuova luce il polo;
sorrise a quel sorriso il Paradiso,
e rise seco il suo felice stuolo.
«Vinto son,» disse «amor m’ha sol conquiso;
amor ha tron, o a’ miei furori il volo;
e che non puote in me sforza amorosa
servo umil, dolce figli e cara sposa?

63Viva l’iniqua terra, e ’l suo flagello
stiasi quanto a voi piace omai sospeso.
Non sia però che l’Angel mio rubello
tant’oltre il suo ardimento abbia disteso,
che ’l deluso da lui nobil drapello
ne resti a morte ingiustamente offeso.
Torni egli adunque al suo tartareo fondo,
e chi sgombronne il Ciel ne sgombri il mondo».

Il concerto celeste loda la risoluzione di Dio (64-83)

64Volto, ciò detto, ove immortali i cori
de le sante fenici un rogo incende,
scieglie fra tutti gli ordini canori
spirto che fermo in lui lo sguardo intende.
Fra’ primi e fra’ più rapidi splendori
de l’universo Ciel questi risplende,
e più vicino al Sol che ’l sole alluma
di purissima fiamma i vanni impiuma.

65Quasi teatro luminoso e grande
al trono intorno, ove il gran Re s’adora,
popolo innumerabile si spande
che di Lui sol si pasce e s’inamora.
Cerchiano il seggio suo nove ghirlande,
che non caduco april d’angeli infiora;
veste ciascun di questi abito lieve,
qual di sol, qual di fiamma e qual di neve.

66De le sante del Ciel turbe canore
l’arnese è tutto stran tutto diverso,
e ne l’armi e ne l’ali altri ha colore
purpureo, altri l’ha verde, altri l’ha perso;
altri quel di Meandro al bel candore,
altri l’indico augel di vario asperso,
altri d’Arabia l’unico si mostra,
altri l’altro ch’al sol s’ingemma e inostra.

67Qui cento Orfei, cento Arioni e cento
Ninfe, e mille Sirene e Muse mille
di dolce infaticabile concento
s’odon l’aure ferir sempre tranquille,
qual con lira d’avorio e qual d’argento
accesi di santissime faville;
qual sona cetra d’oro e qual d’elettro
movon tutti cantando il divin plettro.

68Vari offici a costor l’eterna legge
impose, e varie cure a volger diede:
quei rimette il morso a i mostri, e questi regge
i regni e le città guarda e provede;
alcun ve n’ha che de l’umana gregge
difensore e custode in guardia siede;
alcun studia a nudrir ne gli elementi
e le vite sensate e le crescenti;

69chi dentro a quei confin che lor natura
prescrisse a freno tien l’onde rubelle;
chi serra in ceppi i venti e ’n tomba oscura
le tempeste imprigiona e le procelle;
chi di nettare e latte aver suol cura
di alimentar le sitibonde stelle;
chi sostiene i riposi e chi le rote
de le luci vacanti e de l’immote.

70Altri, dotato da’ possenti raggi
del sovrano Motor di lena eterna,
i regolati e sferici viaggi
de la volubil machina governa,
e con misure musiche i passaggi
varia, e le pause a l’armonia superna;
così portando i curvi globi a tondo
tempra i registri a gli organi del mondo.

71Parte il furor de l’infernal tiranno
frena, che ’l nostro mal sempre desia,
et ogni laccio ordito et ogni inganno
altrui teso da l’empio osserva e spia.
Parte di lor son messaggeri e vanno
di qua, di là dove il Fattor gl’invia,
e vie più che ’l balen veloci e presti
fan poi ritorno, et è Michel fra questi.

72L’alto splendor del suo celeste volto
d’una porpora angelica fiammeggia;
parte diffuso e parte in treccia accolto
scintillante dal crin l’oro lampeggia.
Su per l’ignudo piè l’abito sciolto
mosso ognor da divina aura gli ondeggia,
e l’armi veste adamantine e belle
tutte chiodate di lucenti stelle.

73D’oro ha lo scudo, ov’è di vario smalto
l’angel fellon effigiato e finto,
l’empia congiura e ’l temerario assalto,
la gran contesa e l’aversario vinto.
Fiamma, fumo, venen mirasi d’alto
spirar l’orribil drago in giù respinto,
e sparso di squallor, livido e giallo,
impallidir nel pallido metallo.

74Del mirabil Taù l’insegna altera
sciorre il campion di Dio quivi si vede;
aurea è la lancia sua, qual fu la vera
che del mostro superbo il tergo fiede.
Intorno a gli orli ove l’iniqua fera
volge, quasi spirante, in fuga il piede
vedesi scritto con celesti intagli:
Chi fia già mai ch’al gran Fattor s’agguagli?

75Questi è dal Re del Ciel fra mille eletto
delle sue leggi essecutore e messo.
Gli apre, e qual sole in iri, il suo concetto
lume a lume aggiungendo imprime in esso.
Prende impression l’alto intelletto,
e di ratto essequir l’ordin commesso,
come a lucido lampo onda tranquilla
o come specchio a raggio, arde e sfavilla.

76Quasi groppi di cigni i santi Amori
apriro all’ora in mille rote i vanni,
lieti che fren ritrovi a i suoi furori
l’inventor de le frodi e de gl’inganni.
Di fior celesti e di celesti odori
gli aurei palchi rigaro e gli aurei scanni,
e fèr sonar del lor devoto zelo,
se pur son antri in Ciel, gli antri del Cielo.

77L’eburnea cetra, e tutta d’auree stelle
gemmata, il re canoro in man ritoglie,
che perni ha di topazio, e sette belle
fila d’argento in giogo d’oro accoglie,
indi a le corde de la voce ancelle
maritando gli accenti il canto scioglie.
Stannolo ad ascoltar da tutti i lati
l’anime elette e gli angeli beati.

78«Re santo, santo Dio tre volte santo,
giusto, e giustizia e sapienza, e saggio,
te de le stelle matutino il canto,
te sempre lodi il sole in suo viaggio.
Chi fia ch’in te misuri il quale, il quanto?
Sol di cui l’alto sol è un’ombra, un raggio,
sol di luce infinita, immenso vaso
ch’Orto non hai, che non conosci Occaso,

79te benedica il Ciel, tremi l’Inferno
bontà possente e maestà pietosa
fonte ma senza fonte, autor superno,
prima cagion de le cagioni ascosa,
senza principio e senza fine, eterno,
principio e fin d’ogni creata cosa,
padre a te stesso e di te stesso erede,
da cui move ogni forma et a cui riede;

80Tu la terra formasti e Tu traesti
da gli abissi di nulla i fregi suoi,
Tu l’auree stelle e questi cerchi stessi
tetti a’ mortali e pavimenti a noi,
Tu l’alma a i vivi e tu la vita desti
a l’alme, e l’alme e gli angioli son tuoi:
tutta opra è di tua man, celeste fabro,
anzi, un accento sol del tuo gran labro.

81Fabro del tutto al tutto ti comparti,
e, se non solo il male, il tutto fai.
Loco non muti e mai di te non parti,
né ’l ciel ti cape, e ’n Cielo e ’n terra stai;
il tutto è in te, tu solo in varie parti
se’ il tutto e sei nel tutto e ’l tutto sai.
Quel che far non si può del tutto puoi,
e ’l tuo fare e ’l potente è quel vuoi.

82Da te tutto mantiensi e tutto fassi,
ma mentre tutto fai siedi e riposi;
riposi e siedi e pur di far non lassi,
e senz’ozio però sono i riposi;
ma il riposo è in te stesso e teco stassi
né fia chi fuor di te vivi o riposi.
Tu sei, tu vivi, anzi virtù infinita
sei vivendo et, essendo, essere e vita».

83Questa canzon, ma in più soavi modi,
udìr là su le fortunate squadre
comporre, e del gran Rege espor le lodi
il vecchio d’Israel musico padre.
Angel non è ch’allor non stenda e snodi
per le piaggie del Ciel l’ali leggiadre,
e che non prenda ad emular concorde
la melodia de l’ascoltate corde.

Michele rimprovera gli spiriti inferi e placa la tempesta (84-91)

84Ma già spiega le piume e già le scuote
Michel per lo stellato ampio zafiro;
già de le lievi adamantine rote
fende col piè l’infaticabil giro.
Giunto a le vie de l’aria aperte e vòte,
i negri spirti al suo apparir spariro:
visto aprirsi del ciel l’alta fenestra
l’ira non aspetàr di quella destra.

85Questo fu lo splendor, questo fu il lampo
che con fulmine tratto il ciel divise,
quando fingendo desperar di scampo
Idraù spaventato in mar si mise.
Mira ei l’ondoso e nubiloso campo
conturbato e confuso in tante guise,
allor destro su l’ali egli si libra,
i fugaci minaccia e l’asta vibra:

86«O piovuta dal ciel turba profana,
gente perversa e di perdono indegna,
pur superbite? e qual superbia insana
a cozzar col destino anco v’insegna?
Qual pro vi fia con resistenza vana
opporsi a lui ch’onnipotente regna
se poter, che n’abbiate, i suoi decreti
non fia giamai che circoscriva o vieti?

87Voi, voi malvaggi, voi le giuste mete
che la legge di Dio prescrisse a l’onde
varcar ardite? e contro il Ciel potete
congiurar, sollevar l’acque profonde?
E gli Euri, gli Austri ancor disciolti avete,
che ’l sommo Re ne’ suoi tesori asconde?
Io vi farò … ma in altro tempo il serbo;
plachisi prima il mar fiero e superbo.

88Tornate or là dove ben degno aveste
nido a le fiamme immoralmente affissi;
dileguatevi nubbi, e voi tempeste
su su ratto fuggite a i vostri abissi».
Tosto a gli imperi del guerrier celeste
la piovosa caligine partissi,
e poiché i nembi e turbini cessaro,
sorse il sol, rise il cielo lucido e chiaro.

89Zefiro, il venticel leggiero e sciolto,
spirto fecondo e genitor de’ fiori,
che rabuffato il crin, orrido il volto
pose dianzi spavento a la sua Clori,
posto il furor precipitoso e stolto
ritorna a i primi scherzi, a i primi amori,
onde già ne divien la ninfa bella,
gravida il sen della stagion novella.

90Fuggendo al chiuso suo lascia Aquilone
tranquillo il flutto, il dì sereno e puro.
Gonfia la torta tromba allor Tritone,
e la greggia rappella a l’antro oscuro.
Posa l’armi e ’l rigor l’empio Orione,
pon giù l’ira e l’orgoglio il freddo Arturo.
Torna la calma, onde il nocchiero accorto
prende de’ danni suoi speme e conforto.

91Trova le sparse navi il divin messo
che perduta nel mar non è pur una,
egli stesso le move et egli stesso
le sostien, le soleva e le raguna.
Naviga il forte stuol, ma piange spesso
del buon Fiorigi la crudel fortuna.
Lieve intanto colà d’onde egli venne
il celeste corrier batte le penne.