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Gerusalemme distrutta

di Giovan Battista Marino

Invettiva contra il vizio nefando

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 27.09.15 15:26

Invettiva contra il vizio nefando, canzone del Marino

 

Te chiamo in testimonio, o de’ mortali
e di quanto qua giù nasce tra noi
produtrice benigna e prima madre;
tu d’elementi pria caduchi e frali
composto l’uom, perché potesse poi
d’ampia succession felice padre,
con vicende leggiadre
eternarsi in altrui, vaso formasti
distinto et atto a ricettar quel seme,
che copulati insieme
stillar deveanirà dolci incendi e casti.
Ma del precetto tuo l’ordin secondo
prevaricò contaminato il mondo.

 

Vide il secolo allor guasto e corrotto
in modo abominevole giacersi
congiunti insieme una natura, un sesso,
e con empi imenei raccolse sotto
giogo strano e difforme uomin perversi,
l’un marito de l’altro un letto stesso.
A l’orribile eccesso
tremò natura, indietro il sol fuggio,
pianser dipinti di color vermiglio
e con le penne il ciglio
gli angeli si valero inanti a Dio;
lo stesso autor di sì nefande cose
trasse l’uomo a compirle e poi s’ascose.

 

Girò torva le luci al gran misfatto,
e tanto ardire a castigar s’accinse
la punitrice de’ mortali errori,
ne la destra divina orrida in atto
mille folgori e mille accolse e strinse,
e scaturì sovra i vietati amori
torrenti di furori,
di fumo e zolfo turbini e procelle
sparse, e versò ne l’essecrabil loco
pruine alte di fuoco,
grandinò lampi e saettò fiammelle.
Così ne l’inumano uman lignaggio
vendicò l’altrui fallo e ’l proprio oltraggio.

 

Chi che val non intero e non perfetto
di mistura viril trastullo obliquo,
che grida foco e chier vendetta e sangue,
trastulli in cui del non commun diletto
sotto il crudel violatore iniquo
geme, e si dole il violato esangue.
Beltà che tosto langue,
fior cui manca in un punto il vago e ’l verde,
amor dove altri arando empio bifolco
vil campo e steril solco
in non ferace arena il seme perde,
e distruggendo in quanto a sé natura
dove amor non si trova, amor procura.

 

E v’ha pur tal che a le proterve voglie
et a l’avide altrui frenate brame
volontario se stesso espone e piega,
e ’n guisa, ohimè, di meretrice e moglie,
d’opra fetida e rea ministra insieme,
infemenito a l’amator si lega,
e mentre viver nega
sì come nacque, e maschio esser ricusa
cangiarsi pur con novo modo orrendo
in femina volendo,
né pure uomo riman ma di confusa
matura ufficio in sé doppio ritiene
e di due qualità mostro diviene.

 

S’egli è ver che d’amor come di luce
primi fonti son gli occhi, e da lor nasce
quel soave desir che ’n noi si cria,
e sol del dolce raggio, il qual produce
l’amato aspetto, si nodrica e pasce
verace amante e nulla più desia,
qual esser può che sia
dolcezza ove si nega il guardo e ’l riso?
Ove quel ben che t’innamora e piace,
quasi avaro e fugace
ti volge il tergo e ti nasconde il viso,
atta da scolorar la faccia al giorno,
da far l’infamia stessa arder di scorno.

 

Ma da sì sozzo oggetto e sì profano,
di vista indegno, oltr’ogni creder brutto,
ben la fronte a ragion torcer conviensi.
E se tanto l’aborre il guardo umano
che farà quel che da le stelle il tutto
vede e osserva, e non soggiace a i sensi?
Forsennato, e non pensi
che ’l tuo custode allor spirto ti mira?
Spirto puro innocente, occhio gentile,
che cosa immonda e vile
mirar non sa senza vergogna et ira:
dritto ben fia, che pien di giusto zelo
la tua cura abbandoni e torni in cielo,

 

deh, poi che sì de la licenza il freno
a l’umana lascivia il senso ha sciolto
ch’oltre il lecito e ’l dritto erra e trascorre.
Quanto è più dolce e più giocondo almeno,
petto a petto congiunto e volto a volto,
bella donna che t’ami in braccio accorre,
bocca a bocca comporre,
e con cambio reciproco d’amore
amar beltà che a le tue voglie ingorde
rispondente e concorde
spirto unisce con spirto e cor con core,
e de la gioia egual che teco prende
quanto a punto le dai, tanto ti rende.

 

Chi pria le leggi immacolate e sante
del Monarca immortal ruppe e disciolse,
e nerbo al mondo e vituperio accrebbe
quando del sesso suo perfido amante
in uso reo l’armi d’amor rivolse,
e di tradir natura orror non ebbe,
fera dirsi non debbe,
benché in atto ferino il Cielo offese.
Gli ordini a lor prescritti entro le selve
serbano ancor le belve,
né di fiamma sì brutta han l’alme accese:
fera non fu, ma furia empia d’Averno
il trasgressor del gran decreto eterno.

 

Macchiasti tu de l’innocenza antica
il semplice candor, sozza inventrice
sol di vizio e d’error novella etade.
Quindi a l’altrui libidine impudica
l’empia delizia, d’ogni mal nudrice,
strade insolite aperse e non usate.
Leggi, e voi non v’armate?
Fiamme, e voi non ardete? Incendio e peste,
e non piovi e non struggi? E tu guerriera
spada d’Astrea severa,
non uccidi e non sveni, ira celeste
tanto rigida più quanto più lenta,
né la tua destra ancor fulmini avventa?

 

Chiunque in grembo a giovinetta amata
talor si stringe e ’n compagnia s’accoppia,
quegli il piacer veracemente abbraccia.
Ella, come colei che a questo è nata,
emula nel diletto i nodi addoppia,
e di piacerti sol par che le piaccia,
teco lieta s’allaccia
se la baci, e ribacia, arde e si strugge;
fertile poi di dolce prole e bella
in lei si rinovella,
né temer puoi che qual balen che fugge,
o come a mezzo april torbida bruma
il suo tesor t’involi invida piuma.

 

Ma tu pur temerario il ciel disprezzi,
e ’n quel albergo forse ove pendenti
stanno immagini sante e sacre cere
vergognose lusinghe, infami vezzi
trattar non temi? e trar presumi e tenti
d’illecita union laido piacere?
O mostruose e fiere
voglie più che infernali, ebbro appetito,
non desio ma furore, e te, che sai
ciò che soffri e che fai
di mal sì grave essecutore ardito,
non assorbe l’abisso? e quelle indegne
fiamme d’amor, fiamma del Ciel non spegne?

 

Canzon, meco rimanti,
non t’oda il vento e non ti veda il sole,
che di sì scelerato atto e nefando
anco i biasmi cantando
si vergognan le Muse a far parole,
la man trema e l’ingegno, e manca l’arte,
arrossiscon gli inchiostri, ardon le carte.