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La strage de gli innocenti

di Giovan Battista Marino

Libro II – Consiglio de’ satrapi

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 28.03.15 11:21

ARGOMENTO
Al consiglio adunato il re palesa
ciò ch’a lui di temer porge sospetto;
Urizeo, ch’a buon fin la mente ha intesa,
tenta l’ira crudel trarli dal petto;
Burucco, ch’a la strage ha l’alma accesa,
a contrario pensier scopre l’effetto.
Giuseppe, che sognando il male intende,
da Giudea ne l’Egitto il camin prende.

Erode presiede il consiglio radunato ed espone il proprio dubbio e i propri timori (1-17)

1Aveano al carro d’or ch’il dì n’apporta
rimesso il fren le mattutine ancelle,
e ’n su la soglia de l’aurata porta
giunto era il sole, e fea sparir le stelle,
e la sua vaga messaggiera e scorta,
fugando i sogni e queste nubi e quelle,
per le piagge spargea lucide ombrose
de la terra e del ciel rugiade e rose,

2et ecco intanto i senatori uniti
fur da le guardie in ampia sala ammessi,
dove al vivo trapunti e coloriti
serici simulacri erano espressi.
Avevano in sé di Marianne orditi
gl’infausti amori e i tragici successi,
spoglie di babilonica testura
regi superbi a le superbe mura.

3De la sala pomposa il bel lavoro
poco curanti e i bei contesti panni,
al re sen giro, et ingombràr costoro
del senato real gli aurati scanni.
Di mano in man, secondo i gradi loro
e del sangue e de’ titoli e de gli anni,
quai più lontani a lui, quai più vicini
satrapi, farisei, scribi, rabini.

4Sul trono principal, del regio arnese
pompa maggiore e meraviglia prima,
lo qual del re pacifico e cortese
edificio mirabile si stima,
immantenente il fier tiranno acese,
gli altri intorno sedenti et egli in cima.
Il sedil ch’egli preme eletto e fino
forma ha di core, e ’l core è di rubino.

5Il pavimento ov’ei posa le piante
tutto di drappi d’or rigido splende;
di varie gemme lucida e stellante
ombrella imperial sovra gli pende;
ha di ben terso e candido elefante
sei gradi intorno, onde s’ascende e scende;
stanno due per ciascun de’ sei scaglioni
quasi custodi a’ fianchi aurei leoni.

6Quivi s’asside, e ’l fosco ciglio essangue
volge tre volte a l’adunato stuolo.
Poi gli occhi al ciel solleva, ebri di sangue,
indi gli affigge immobilmente al suolo,
in atto tal che ’n un minaccia e langue,
e porta espresso entro lo sdegno il duolo.
Non piange no, però che l’ira alquanto
come il vento la pioggia affrena il pianto.

7Scote lo scettro, e ’l seggio, ove dimora,
tempestandol col piè, par ch’abbia in ira.
L’aureo diadema onde le tempie onora,
si trae di testa, e sospiroso il mira.
La bianca barba et ispida talora
dal folto mento a pel a pel si tira.
Al fin tra’ lidi de l’enfiate labbia
rompe l’onde del duolo e de la rabbia:

8«Principi, e qual novello alto spavento
turba i riposi a le mie notti oscure?
quai fantasmi, quai larve io veggio, io sento?
quai mi rodono il cor pungenti cure?
O nostro stato uman non mai contento!
O regie signorie non mai sicure!
Dunque nemica insidiosa frode
può ne la reggia sua tradire Erode?

9Versomi in gran pensier ch’entro i confini
di Bettelem l’usurpator temuto
del nostro regno, infra’ Giudei bambini
già tant’anni predetto, or sia venuto.
Vidi regi stranieri e peregrini
ricco recargli oriental tributo;
poi senza più tornar, rotta la fede,
per altro calle acceleraro il piede.

10E vi giur’io per questo scettro e questo
capo real, ch’a me, non so s’io fossi
là presso l’alba addormentato o desto,
Giusippo innanzi, il mio fratel, mostrossi;
con quest’occhi il vid’io languido e mesto,
i noti accenti al cui tenor mi scossi,
quest’orecchie ascoltaro: oh quai m’espose
de’ miei rischi presenti oscure cose!

11Potei già de l’Arabia e de l’Egitto
fiaccar l’orgoglio e ’n disusati modi
del falso Atemion d’Arbella invitto
rintuzzar l’armi e superar le frodi;
Antigono lasciar rotto e sconfitto,
uccider Pappo, e ’l mar vincer di Rodi,
schermir Pacoro, e vendicar potei
contro il perfido Ircano i torti miei;

12et or popolo inerme e con paterno
zelo armato da me sempre e nodrito,
un fanciul, non so quale, al mio governo
me vivo ancor fia d’acclamare ardito?
et io dormo? io taccio? e ’l proprio scherno,
re sprezzato, sostengo, e re tradito?
e per vana pietà ch’ad altrui porto
contro me stesso incrudelisco a torto?

13Strider per tutto intorno a queste mura
i nemici vagiti udir già parmi;
ahi vagiti non son, né m’assicura
l’altrui tenera età. Sento sfidarmi,
strepiti son di guerra e di congiura,
son minaccie di morte, accenti d’armi,
trombe guerriere onde vil turba ardita
la mia pace conturba e la mia vita.

14Con silenzio però duro e mortale
tante voci ammutir farò ben io.
Voglio in un mar di sangue universale
l’àncora stabilir del regno mio.
Sia l’innocente o reo, poco mi cale,
sia giustizia o rigor nulla cur’io,
purché col sangue e con le stragi e l’onte
la corona real mi fermi in fronte.

15So che la mia ruina, ancor lattante
va già crescendo entro la face occulta;
già pargoleggia e già vagisce infante,
ma farò sì che non favelli adulta.
Veggio l’insidia rea che ribellante
già mi vien contro, e tacita m’insulta;
ma venga pur quanto si voglia in fretta
che precorsa sarà da la vendetta.

16Ore non trarrò mai liete e tranquille
tanto che sparso in larga piazza ondeggi
lago di sangue, e di sanguigne stille
ritinta questa porpora rosseggi,
e la salute mia quasi per mille
occhi, per mille piaghe al fin vagheggi
scritta a vermiglio, dentro ’l sangue asperso
l’altrui perfidia e ’l mio timor sommerso.

17Ditemi or voi, che qui raccolti insieme,
o miei fedeli, al commun rischio invoco:
avrò fors’io le sovrastanti estreme
fiamme del regno mio da curar poco?
O deggio pur, pria che più cresca, il seme
primo ammorzar del già serpente foco,
e, schivando il mio mal con gli’altrui lutti,
per ucciderne un solo uccider tutti?».

Il sacerdote Urizeo lo consiglia a moderarsi (18-38)

18Tace ciò detto, et al suo dir succede
tra’ circostanti un fremito confuso,
qual fa talor il mar se Borea il fiede
tra cavi scogli impriggionato e chiuso,
o qual se carche d’odorate prede
ronzando in cima a i fior, com’han per uso,
l’api mormoradrici in sul nov’anno
a i lor dolci covili in schiera vanno.

19Di quel parlar fra gli altri suoi più cari
Urizeo sacerdote il fine attese,
uom che per varie terre e vari mari
molto errò, molto vide e molto apprese;
poi, già canuto, in que’ secreti affari
per fé, per senno, a i primi gradi ascese,
e gran bosco di barba irsuto e folto
gli adombra il petto e gli avviluppa il volto.

20Porta egli il mel ne la favella et have
in bocca gli ami e ne la lingua i dardi;
volto composto in placid’atto e grave,
fronte benigna, occhi modesti e tardi.
Sciolse in candido stil voce soave,
et a gli accenti accompagnando i guardi
fuor de le labra in bel sermon sonoro
versò fiumi di latte e vena d’oro:

21«Troppo (diss’egli), o sire, alto periglio
in quel che chiedi a consigliarti io veggio:
se da te fia discorde il mio consiglio
cadrotti in ira, e ciò né vo’ né deggio;
s’al tuo fermo voler poscia m’appiglio,
contro ’l dritto e ’l dever (fia forse il peggio)
sarò a la patria, a Dio nemico espresso,
traditore al mio re, crudo a me stesso.

22Pur non terrò ciò che sovviemmi ascoso:
i’ provai già ne l’età mia più fresca
ch’immaturo capriccio e frettoloso
raro adivien ch’a lieto fine riesca.
Né dèe, tratto da l’impeto crucioso,
altri cosa esseguir che poi rincresca,
perché ’n uom saggio grave error si stima
pentirsi poscia e non pensarlo in prima.

23Fia dunque il tuo miglior, di quel sì fero
desir che lieve e rapido trascorre,
con ritegno soave e dolce impero
di ragion consigliata il fren raccorre,
ché s’a giogo di legge il collo altero
non ha libero principe a sopporre,
dritto è però che chi la diè l’osservi,
ond’essempio dal re prendano i servi.

24Che giova a gran signor popoli e regni
sotto scettro felice aver soggetti,
et esser poi de gli appetiti indegni
servo infelice e de’ vulgari affetti?
Sfrenati amori, irregolari sdegni
son colpe sì ne’ generosi petti,
ma crudeltà de l’altrui sangue ardente
al Monarca del Ciel troppo è spiacente.

25E se ’n ogni alma ancor vile e villana,
che l’obliquo sentier segua de’ sensi,
biasmo esser suol di questa rabbia insana
aver gli spirti oltre misura accensi,
oh quanto meno in anima sovrana
cotale affetto, e ’n regio cor conviensi!
Oh quanto ei dèe de l’empie voglie il freno
a crudel precipizio allentar meno!

26Ché sì come là su lucida e pura
sempre è del ciel la region sublime,
né mai basso vapor né nebbia oscura
vela il suo chiaro o ’l suo sereno imprime,
e come Olimpo in parte alta e secura
sovra i folgori e i nembi erge le cime,
così petto real e nobil mente
mai turbo o tuon di vil furor non sente.

27Fu per spavento altrui più d’una legge
con asprezza e rigor dettata e fatta,
che poi nel essequir da chi ben regge
con molle mano e placida si tratta.
Convien chi buon destrier frena e corregge
ch’accenni di servir, più che non batta;
e qualor Giove i fulmini disserra
molti atterrisce sì, ma pochi atterra.

28Tolga il ciel ch’al mio re d’opra sì brutta
l’essecrabile eccesso io persuada,
che la dolce mia patria orfana e tutta
del suo pregio maggior sfiorata cada,
che sì nobil città vòta e destrutta
abbia a restar da cittadina spada,
povera signoria, vil scettro indegno,
duce senza guerrier, re senza regno.

29Quel che si vede è chiaramente aperto,
quel che si teme è dubbiamente oscuro.
Or vorrai tu, già in tante prove esperto,
trar di danno presente util futuro,
e per vano timor d’un rischio incerto
procacciar, poco cauto, un mal sicuro,
un mal ch’apportator d’affanni estremi
sarà forse maggior del mal che temi?

30Temi la guerra insospettito e vuoi
che tanta gioventù sterpata mòra?
Chi sa se nato è già fra questi tuoi
come il nemico, il difensore ancora?
Dimmi, dimmi per Dio, chi fia che poi
s’armi in tua guardia e ti difenda allora,
se germogliante a la stagione acerba
un essercito intero or mieti in erba?

31Che dirà poi la fama, ohimè, la fama
che del falso e del ver divulga il grido?
Dirà che per sanguigna avida brama
ti fingesti rubello un popol fido;
popolo che te solo onora et ama,
ch’a te lontano ancor del patrio nido
infra i tumulti de la regia sede
serbò mai sempre ubidienza e fede.

32Né quel, come tu fai, creder fraterno
simulacro vogl’io, ch’aver ti parve
notturno innanzi: o fur da gioco e scherno
falsi sogni, ombre vane, finte larve,
o, quant’io credo, il tentator d’Averno,
con così fatta illusion t’apparve,
però che ’l Re del Ciel, sì come io lessi,
angeli e non fantasmi usa per messi.

33E poi di questo re che temi tanto,
scritto che ’l regno esser quaggiù terreno
non deve no, ma spiritale e santo
d’amor, di grazia e di dolcezza pieno,
re che vestito di mendico manto
di tesori immortali ha colmo il seno.
Temer dunque non dèi che porti guerra
se per dar pace al mondo è sceso in terra.

34Mansueto, pacifico, innocente
verrà, deposti i fulmini celesti.
S’armar volesse il suo braccio possente
a’ danni tuoi, deh qual difesa avresti?
o come da l’essercito lucente
de gli alati guerrier campar potresti?
chi può fuggir? come celarsi o dove
da lui, che tutto vede e tutto move?

35O che falso è del tutto o ch’è verace
quest’antico pronostico del regno:
se vano e’ fia, perché turbar la pace
e de’ tuoi suscitar l’odio e lo sdegno?
Ben per me stimar vo’ che sia fallace,
però ch’assai sovente astuto ingegno
sparge tai voci ad arte, invido e rio,
per irritar nel re gli uomini e Dio.

36Se ne le stelle è poi scolpito e scritto,
se fermo è in Ciel che ’l gran bambin sia nato,
studio umano che vale? a che l’afflitto
popolo affliggi? a che t’opponi al fato?
Publichi indarno il dispietato editto,
premi, furia se sai, minaccia irato:
viverà, crescerà, sott’alcun velo
terrallo ascoso a tuo mal grado il Cielo.

37Fuggi, signor, di re crudele e folle
titolo infame, e con real clemenza
quel fervido valor ch’avampa e bolle
tempri maturo senno, alta prudenza.
Sospendi l’ire, e mansueto e molle
usa giusto rigor, non violenza.
Cerchisi il reo più tosto e di ciascuno
la pena universal porti quell’uno».

38Più oltre assai di sue ragioni il corso
stendea forse in parlando il vecchio accorto,
ma vide il re del suo fedel discorso
quasi sprezzante il dir facondo e scorto,
crollare il capo, e più di tigre e d’orso
volger lo sguardo dispettoso e torto;
e ’n fronte gli mirò scritto, e nel ciglio:
«animo risoluto odia il consiglio».

Il cortigiano Barucco consiglia invece il re a estirpare il male dal regno con una strage (39-60)

39Barucco era un baron, d’astio e di sdegno
roco mormorador, nodrito in corte,
scaltro, doppio, fellon che ’l rege e ’l regno
per invidia e per altro odiava forte;
precipitoso e fervido d’ingegno,
vago di strage e cupido di morte,
che pietà non conosce e che non cura
tenerezza di sangue o di natura.

40Questi, calvo la testa e raso il mento,
era ancor di vigor fresco e vivace,
ma ’l negro pel d’intempestivo argento
seminato gli avea l’età mendace.
Poiché l’adulator gran pezza attento
stette a quel ragionar saggio e verace,
nel superbo tiranno i lumi affisse,
sorse, inchinollo, indi s’assise e disse:

41«Signor, sudasti e guerreggiasti, e quanto
la destra tua, vittoriosa e forte,
nel nemico feroce e ribellante
sanguinose stampò piaghe di morte,
tant’ella ha bocche lordatrici e tante
s’aperse a gloria eterna eterne porte,
onde puoi dir c’hai con illustri affanni
vinti in un punto i tuoi nemici e gli anni.

42Quinci, con pace altrui, creder mi giova
che non senza cagion temi e paventi.
L’invidia che ’n altrui spesso si cova
esser può che gran cose ardisca e tenti,
e che tratti congiure e che sommova
ad armeggiar tumultuarie genti;
però che ’l ciel ne la reale altezza
duo nemici congiunse: Odio e Grandezza.

43Popolo rozzo, indomito e selvaggio,
gente vaga di risse e di rivolte,
vulgo incostante e presto ad ogni oltraggio
reggi, signor, che calcitrò più volte.
Aviso fia di re discreto e saggio
frenar quest’ire impetuose e stolte,
i rischi riparar de le sciagure
e i danni antiveder de le future.

44Spegnesi di leggier breve favilla
pria che ’n fiamma maggior s’avanzi et erga;
facil è riversar picciola stilla
anzi che d’acque il legno empia e sommerga;
fresca piaga saldar quand’altri aprilla
vidi, e vidi piegar tenera verga;
ch’al fin se l’una invecchia e l’altra indura
vana è la forza è poi, vana la cura.

45Opra fia di te degna e di quel senno
che sotto l’elmo incanutì pugnando,
e fatto formidabile col cenno
seppe trattar pria che lo scettro il brando,
far contrasto a i princìpi, i quai si denno
sempre curar, ma molto più regnando.
Convien ch’attento vegghi e che ben guardi
a quel che poi vietar non potrai tardi.

46Dice chi più non sa che ’n petto regio
somma loda è pietà; ciò non negh’io:
al fido, al buon l’usar pietate è fregio,
indegno è di pietà l’infido, il rio;
oltre che poscia onor non ha né pregio
quando ancor non sia giusto uom che sia pio.
Son giustizia e pietà compagne equali
de la virtù real sostegni e basi.

47Più ti dirò: sai ben che in sua radice
ancor non fermo in tutto è questo impero;
tenero e fresco è il tuo dominio, e lice
sempre a signor novello esser severo.
Anzi, a terrore altrui non si disdice
farsi a torto talor crudele e fiero:
la ragion del dever cede a lo sdegno,
o cede almeno a la ragion del regno.

48Qualor di regno trattasi e d’onore
ragionevol partito è l’insolenza,
e ne’ casi importanti assai migliore
è la temerità che la prudenza.
Ma prudenza par questa, et è timore,
codardigia che volto ha di temenza,
non se, non dopo ’l fatto, alcun pensiero
aver dèe loco ove ne va l’impero.

49Quand’altro ben da così fatto scempio
non segua et altro effetto e’ non sortisca,
per la memoria almen di quest’essempio
non fia più mai chi di tradirti ardisca.
E se di tanti pur solo quell’empio
verrà che campi, e che sue trami ordisca,
tutti da strage tal già sbigottiti
non avrà chi ’l secondi o chi l’aiti.

50Ma poniam pur ch’alcun non fia giamai
ch’a la corona tua machini inganno,
da la fama a temer però non hai
titolo di protervo e di tiranno,
anzi, di giusto e d’incorrotto, avrai
loda immortal da gli uomini che sanno,
ché, se severo e formidabil sei
con gl’innocenti, or che farai con rei?

51Aggiungi poi che ’l Re del Ciel custode
sempre è de’ regi e protettor de’ grandi;
son carissimi a Dio però ch’ei gode
in terra aver chi ’n vece sua comandi.
Or se da lui favoreggiato Erode
con insoliti segni e memorandi
più d’un aviso n’ebbe e più d’un messo,
questo mi tacerò, tel sai tu stesso.

52La nova in ciel misteriosa stella,
stella non fu che quivi a caso ardesse,
ma fu lingua di Dio, che ’n sua favella
– Guardati, o re giudeo -, parve dicesse.
E gl’indovini eroi scorti da quella,
che con voci tra noi chiare et espresse
cercando gian del re de’ palestini,
che altro fur che messaggier divini?

53Ch’altri semplice plebe e sempre vaga
di novità volga a suo senno e giri
stranio non è; ma che sagace e maga
gente, e gente real dietro si tiri,
sì ch’ella qual fatidica e presaga
china l’adori e stupida l’ammiri,
altrui lasciando i propri regni in cura
per via sì lunga e per stagion sì dura?

54Questo è ben da temer. Punir l’aguato
con supplicio commun, quand’altri il celi,
gl’interessi affidar del regio stato,
son giustissime leggi e non crudeli.
Se certo è pur che ’l traditor sia nato,
e non è chi l’accusi o chi ’l riveli,
dunque tutti son rei, dunque dir puoi
disleale e rubel cisacun de’ tuoi.

55Altri, cui molle il cor molce, lusinga
l’amor paterno e la pietà de’ figli;
ch’ama gli ozi domestici, depinga
lievi l’ingiurie e facili i perigli.
Ciò che non è, pur come sia, s’infinga
a suo senno, e piacer parli e consigli,
o che molto timor de’ danni sui
o che poco pensiero ha degli altrui.

56Me, cui l’età non già ma la fatica
fatto anzi tempo ha biancheggiar la chioma,
che fra gente congiunta e fra nemica
fui già teco in Arabia e teco in Roma,
morso non riterrà sì ch’io non dica
ch’a gran re gran sospetto è grave soma.
Tanto mi detta il ver, non tesso inganno,
né più miro al mio pro ch’a l’altrui danno.

57Io col mondo e col ciel qui mi protesto
giudici e testimoni, il rege e voi,
ch’a i ripari del mal vuolsi esser presto
mozzar le lunghe e non dolersi poi.
Sire, star che ti val pensoso e mesto,
se l’arbitrio hai del tutto? e che non puoi?
La cosa a quel ch’espresso omai si vede
indugio non sostien, pietà non chiede.

58Talor fisico esperto in braccio essangue
fa volontaria e picciola ferita,
né poche risparmiar stille di sangue
suol perché ’l corpo e ’l cor si serbi in vita.
Spesso accorto chirurgo ad uom che langue
porge in atto crudel pietosa aita,
incide, incende e ne l’infermo loco
pon per maggior salute il ferro e ’l foco.

59Sommergansi nel mar merci e tesori
purché campi la nave e giunga a riva;
tronchisi i membri ignobili e minori
sol che ’l capo real si salvi e viva,
resti la pianta ebrea di frondi e fiori
e d’inutili germi ignuda e priva
perché ’l ceppo maggior del regio stelo
dritto s’inalzi e senza intoppi al cielo.

60Pèra pur l’innocente e pèra il reo,
s’a l’innocenza in grembo il mal s’annida.
In sacrificio al regnator ebreo
tra mille giusti un misfattor s’uccida.
Versi spada real sangue plebeo,
caggian nemici e non nemici,» ei grida,
«vita servil con gran ragion si pregia
per sottrarre a gran rischio anima regia».

Erode emana un mentito editto in cui chiede a tutte le madri di recarsi a corte (61-67)

61Così dic’egli, e con vie men turbato
ciglio a’ suoi detti il re perverso applaude,
fermo in sua fera voglia e lusingato
da dolce suon d’adulatrice laude.
Sorge, e dà tosto a i principi commiato,
machinator di scelerata fraude,
e corre, in guisa pur di rigid’angue,
inferocito, inviperito al sangue.

62Tace, e più ognor lo stimola e tormenta
mordace cura e fervido pensiero,
e lo sferza la Furia e lo spaventa
tema di morte e gelosia d’impero.
Che non fa, che non osa e che non tenta
un orgoglioso tiranno, un cor severo?
Presume sì che temerario e stolto
vorria poter ciò che poter gli è tolto.

63Già di Sion la notte empia sorgea
gravida d’armi e di mortali ecclissi,
né tanto orribil mai la terra ebrea
la vide uscir da’ tenebrosi abissi,
quanto si stende il ciel de la Giudea
di tartarea caligine coprirsi.
Sì fosco il mondo appar che par che debbia
disfarsi in ombra e convertirsi in nebbia.

64Intanto il re d’indugio impaziente
da l’empia crudeltà spinto e commosso,
Menade sembra, allor ch’orribilmente
rota se stessa al suon del cavo bosso.
Da timori solleciti si sente
tutto agitato il cor, tutto percosso,
ma in vista è tal che da ciascun veduto
dèe, vie più che temere, esser temuto.

65Chiama i ministri e del furor suo stolto
l’impeto è tal che favellar mal pote,
e, quasi fiume in sé medesmo avolto
ch’entro il rapido gorgo i sassi arrote,
soffoga i detti e ’l suon non ben disciolto
rompe, e con quel fragor frange le note
con cui de l’ime viscere disserra
prigioniero vapor concava terra.

66Vuol che di quante madri il cerchio aduna
di Bettelemme, entro la regia soglia
con qualunque bambin gli accenti in cuna
oltra l’anno secondo ancor non scioglia,
l’altro mattin, senza restarne alcuna,
tutto il numero sparso in un s’accoglia.
Così comanda, e ’l suo decreto esposto
la buccina real divulga tosto.

67Tace il fellon l’ordita froda e vieta
che ’l trattato crudel si scopra altrui,
e sotto altro color di cagion lieta
vela l’insidie e i fieri inganni sui.
Nulla le donne san de la secreta
macchina ch’apprestata è lor da lui:
l’editto altre conforta, altre sgomenta,
parte pensa ubidir, parte paventa.

La Pietà invoca la clemenza di Dio (68-78,4)

68«Santa Pietà, s’estinta in ciel non sei,
poi che di terra in ciel schiva fuggisti,
mira i fasti quaggiù, mira i trofei
de la nemica tua flebili e tristi.
Perché non scendi omai? gl’oltraggi ebrei
son da te non curati o pur non visti?
Vedi che schermo o scampo, onde non pèra
d’Israelle il buon seme, altro non spera».

69Così vicin a rimaner Racchele
orba de’ figli, in suon dolente e pio
querelando sen giva, e le querele
giunte lassù, la dea benigna udio,
e vaga d’impedir l’opra crudele
si stese a piè del tribunal di Dio;
tolse il freno a la voce, e sciolse intanto
la vela al sospirar, la vena al pianto:

70«Occhi il tutto miranti, occhi divini,
sète forsi (dicea) rivolti altrove?
o de gl’innocentissimi bambini
v’è presente lo strazio, e non si muove?
Vedete, umani cori, anzi ferini
a quali infamie inusitate e nove
trae, mercé sol de l’empio infernal angue,
nata di fame d’or, sete di sangue?

71Padre già più non sei d’ira e vendetta
qual fosti un tempo, essecutor zelante?
dunque perché vuoi pur la tua saetta
scoccar severo e fulminar tonante?
forse del puro agnel l’ostia diletta
a la salute altrui non è bastante?
non è di vivo umor stille ch’ei versi
largo prezzo a comprar mille universi?

72Così tosto ti sdegni? è ver che sante
sono e giuste quell’ire onde sfavilli,
ma qual angelo è puro a te davante?
o qual colonna in ciel che non vacili?
Già non m’oppongo al tuo voler costante,
perché sì calde a te lacrime io stilli;
sai che tanto m’è bel quanto a te piace,
e che sol di tua voglia io fo mia pace.

73Sovenir pur ti dèe con quanto affetto
già di Sion gli abitatori amasti,
sacerdozio real, popolo eletto,
città ch’appellar tua spesso degnasti.
Esser d’ogni sua porta e d’ogni tetto
custode eterno e difensor giurasti:
giuramenti d’amor, patti di zelo,
or può le leggi sue rompere il Cielo?

74Cheggioti sol, s’alcun giusto conforto
fia dever ch’addolcisca i miei dolori,
che la spada vèr me non vibri a torto
la liberatrice de gli umani errori.
Qual dritto vuol che resti ucciso e morto
il buon lignaggio ebreo da’ suoi furori,
e che, pur come reo, dannato vegna
chi non sa che sia colpa a pena indegna?

75Se piegar di costei non so pregando
l’implacabile sdegno e ’l fero orgoglio,
pieghino te, cui sol mercé dimando,
queste supliche amare ond’io mi doglio.
Vagliammi questi gemiti ch’io spando,
giovinmi queste lacrime ch’io scioglio;
sovra l’incendio de’ vicini mali
piovano i fonti tuoi l’acque immortali.

76Deh, se nulla in te può forza di prece
che ’l tutto vince e l’impossibil pote,
che talor piover fiamme e talor fece
fermar del sol le fugitive rote,
e se ’l preso flagel depor ti lece
al tenor de l’altrui supplici note,
volgiti a questi miei fervidi preghi
né voler ch’a Pietà pietà si neghi.

77Apri il grembo a le grazie, aprilo e movi
quel braccio omai che l’universo folce,
viva la donna del Giordano e provi
fra tanti amari suoi stilla di dolce.
Su l’incendio crudel diffondi e piovi
con la man ch’ogni duol ristora e molce
da le non vòte mai fonti superne
l’acque immortali e le rugiade eterne».

78Pietà così dicea. Gli alati Orfei
doppiaro il canto e su le lire aurate
«Pietà, pietà de’ pargoletti ebrei»,
pietà sonoro e risonàr pietate.
Girò le luci il gran Motore in leiDio espone il proprio progetto (78,5-92)
dal seggio ove, fra l’anime beate,
siede unità distinta e triade unita,
corda di tre cordon, man di tre dita.

79Ne la sua fronte, a gli Angeli sì cara,
vive la Vita, e ne trae cibo eterno.
Questa sol è che ’ntorbida e rischiara
la tempesta e ’l seren, la state e ’l verno.
Dal suo ciglio felice il sole impara
de la face immortal l’alto governo;
dal dolce de’ sant’occhi ardente giro
prendon le stelle e ’l ciel l’oro e il zaffiro.

80Le fila sue di non so che conteste
ha quel ricco che ’l copre abito santo;
paion di sol se ’l sol, che dal celeste
Sole ha sol lo splendor, splende cotanto.
Luminosa una nebbia egli ha per veste,
nubilosa una luce egli ha per manto.
Riluce sì che la sua luce il vela,
e ne’ suoi propri rai se stesso cela.

81Da sé solo compreso, in sé s’asconde,
tutto e parte a se stesso, e centro e sfera,
immortal sì, ma non ha vita altronde,
non ha morte o natal, sempre qual era.
E mentre si communica e diffonde,
tutto cria, tutto move, al tutto impera;
il tutto abbraccia e pur sé sol contiene,
sommo bel, piacer sommo e sommo bene.

82Nova pietà ch’ogni rigor gli ha tolto
par che nel cor del Creator si stampi.
Par ch’i dolci occhi in lei fiso e rivolto
di doppio amor più vivamente avvampi.
Arse di zelo et inondò dal volto
un abisso di fiamme, un mar di lampi,
onde tutto rigaro il sacro loco
torrenti di splendor, fiumi di foco.

83Tremaro i poli a la sua voce, e l’asse
che sostien la gran machina si torse.
De le sfere sovrane e de le basse
tacque il vario concento, e ’l ciel non corse.
Tigri con Gange in dietro il piè ritrasse,
curvossi Atlante e vacillaron l’Orse;
e da l’alta immortal bocca di Dio
irrevocabilmente il fato uscìo.

84«O benedetta» Ei disse «o sola avezza
torcere il corso al mio divin furore,
de l’eterne mie cure alta dolcezza,
sacro trastullo e mio celeste amore,
gloria mia, mio tesoro e tenerezza
de le viscere mie, trafitto il core
m’ha il tuo pregar; sono i tuoi prieghi ardenti,
ferrati di pietà, strali pungenti».

85Ma come tanta gloria intende e spia,
non che lingua l’esprima, oscuro ingegno?
Meglio quel ch’ei non è, che qual ei sia
narrar può rozza penna e stile indegno.
«O» diss’Egli, e baciollo «o cara mia,
o cara, o dolce, o prezioso pegno,
come rigido teco esser potrei
se tu mio parto, anzi me stesso sei?

86Per te figlia, dal nulla il tutto io tolsi,
l’aria distesi, il foco in alto affissi,
nel gran vaso de l’acque il mar raccolsi,
et al tuo corso il termine prescrissi,
i fonti e i laghi strinsi, i fiumi sciolsi,
l’ampia terra fondai sovra gli abissi,
e i fermissimi cardini del mondo
de la volta del ciel supposi al pondo;

87per te la luna e ’l sole, e per te solo
le stelle ornai di luce, ornai di moto,
fei tre giri del ciel stabile il polo,
criai mobili e lievi Africo e Noto,
lo striscio a gli angui, a gli augeletti il volo
diedi, a le fere il corso, a i pesci il nuoto;
di fior d’erbe e di piante il suol dipinsi,
e ’n quattro spazi il vago anno distinsi.

88De le fatture mie fui poscia vago
formar la somma, e sì fu l’uomo espresso,
del teatro del mondo illustre imago,
anzi del mondo è mio teatro ei stesso,
ché ’n lui sol mi trastullo, in lui m’appago,
e la sembianza mia vagheggio in esso,
nobil fabrica e bella in cui si scerne
la cima e ’l fior de le bellezze eterne.

89Ma dapoi che ’l meschino a perder venne,
colpa sai ben di cui, grazia cotanta,
così tosto al riparo, onde convenne
la tua mano allargar pietosa e santa,
chi morir non potea, mortal divenne,
e dispoglia terrestre ancor s’ammanta,
finch’ei venga a fornir laggiù quell’opra
che commessa da me gli fu qua sopra.

90Fermo è quassù che ’l sangue egli versando,
schiera ancor d’innocenti il sangue versi,
perché la Chiesa mia ch’ei va fondando
di fregi abondi e di tesor diversi;
né questa, poi c’ha la bilancia e ’l brando,
meco mai d’alcun torto abbia a dolersi.
Figlia, ciò non poss’io, né voler voglio,
ben sedar deggio in parte il tuo cordoglio.

91Io vo’ ch’a queste mie vittime prime
ad onta altrui l’oltraggio in gloria torni,
il duolo in gioia e di splendor sublime
ogni lor piaga al par del sol s’adorni,
Vo’ che se cruda man tronca et opprime
lo stame in terra a i lor teneri giorni
in Ciel Parca immortale a la lor vita
torca di bianco fil linea di vita.

92E farò sì che ’l re del mondo oscuro
resti, e seco il tiranno empio, schernito
tanto che sia quel tempo a pien maturo
ch’a lo scampo commun fu stabilito.
Cercheran del gran parto, egli securo
fuggirà, ben difeso e custodito,
fuga non di timor ma ben di scherno,
per vincer morte et ingannar l’Inferno».

Dio manda una visione a Giuseppe, lo esorta a fuggire (93-114)

93Disse, e fu fatto. Una pennata luce
de la beata angelica famiglia
vede il pensier di Dio che fuor traluce
dal cenno sol de le serene ciglia,
e dal mondo ch’eterno arde e riluce,
verso il fosco e caduco camin piglia,
e co’ remi de l’ali in un momento
naviga l’aria e va solcando il vento.

94Leggiadra spoglia in breve spazio ammassa
d’aure leggiere e di color diversi.
Poi dal colmo del Ciel colando lassa
precipitosamente in giù cadersi.
Pria de la sfera immobile trapassa
i fuochi, e i lampi fiammeggianti e tersi,
indi de i corpi lubrici e correnti
gli obliqui balli e i lievi giri e i lenti.

95Viensene là dove ’l più basso cielo
di bianca neve i suoi cristalli adorna,
né de l’umido cerchio il freddo gelo
sente, e sen va fra l’argentate corna.
Giunge ove ’l foco il ruggiadoso velo
asciuga de la dea che l’ombre aggiorna,
né l’offendon però gli ardor vicini
o le fulgide penne o gli aurei crini.

96Porta gli omeri ignudi; abile vesta
gli scende in giù sotto il sinistro fianco,
d’un velo sottilissimo contesta
d’azzurro e d’oro e fra purpureo e bianco;
fendesi in due la lieve falda, e questa
succinta e breve in sul ginocchio manco,
mentre vola ondeggiando e si dilata
morde con dente d’or fibbia gemmata.

97Spunta dal vago tergo in su i confini
gemina piuma e colorata e grande.
Sazio d’amomo il crespo oro de’ crini
trecciatura leggiadra a l’aura spande.
Di piropo immortali e di rubini
fascian l’eburnea fronte ampie ghirlande.
Chiude il bel piè, che mena alte carole,
tra gemme che son stelle oro ch’è sole.

98Già la notte sparia, benché sepolta
stesse sotterra ancor la maggior lampa,
ma la fiamma celeste a volo sciolta
fatta in ciel vicesole arde et avampa,
e ventilando i vanni in sé raccolta
lungo il solco di luce in aria stampa.
Ingannato il pastor lascia le piume
al tremolar del matutino lume.

99Valle colà ne l’Etiopia nera
cui corona di rupi alte circonda,
ove per entro in sul merigge assera,
dilata i rami e incontr’al sol s’infronda;
qui con sua pigra e neghittosa schiera,
il re de’ Sogni ha la maggion profonda,
e qui fra cupe e solitarie grotte
suol ricovro tranquillo aver la notte.

100Stan su gli usci, un d’avorio et un di corno,
l’Oblio stordito e l’Ozio agiato e lento;
stavvi il Silenzio, e fa la scolta intorno,
cheto e col dito su fra ’l naso al mento,
quasi accennando al mutolo soggiorno
che non scota le fronde o fera o vento.
Vedi non ch’altro in que’ riposti orrori
giacer languide l’erbe e chini i fiori.

101Taccion per entro il bosco ombroso e cieco
l’aure, né tuona il ciel, né canta augello,
né garrisce pastor, né rispond’Eco,
né can latra giamai, né bela agnello,
se non ch’a piè del taciturno speco,
tra sasso e sasso mormora un ruscello,
lo cui rauco susurro a chi là giace
rende il sonno più dolce e più tenace.

102Dentro l’opaco sen de l’antro ombroso,
romito abitator d’ombre secrete,
steso in un letto d’ebeno frondoso
prende il placido dio posa e quiete.
Di papaveri molli ha il capo ombroso,
ne la sinistra il ramo intinto in Lete,
su l’altra appoggia la gravosa testa,
e di pelli di tasso è la sua vesta.

103A pena ciglio stupido e pesante
e la fronte sostien, languida e lassa,
e traboccare accenna e vacillante,
le tempie alternamente alza et abbassa.
Vicina al pigro dio mensa fumante,
che nappi e coppe in larga copia ammassa,
gl’invia da cibi e vini eletti e rari
nube d’odori a lusingar le nari.

104Là drizza ratto da gli empirei scanni
l’angelo il volo, e vide a schiere a schiere
mille intorno vagar con bruni vanni
simulacri fallaci, ombre leggiere.
Non è però ch’occhio celeste inganni
illusion d’imagini non vere,
anzi tosto a que’ rai che gli feriro,
Morfeo, Itatone e Tantaso fuggiro.

105Tra ’l negro stuol di quelle larve alate
vola bianca e lucente una donzella,
che di spoglia diafana velate
porta le membra a meraviglia bella.
Ali ha d’argento, e qual pavon fregiate
d’occhi diversi, e Vision s’appella;
scorta dal vero e de’ profeti amica,
del Re celeste ambasciadrice amica.

106Di cristallo la fronte ha tersa e pura,
dove scritte son tutte e lineate
quante produce o può produr natura
forme giamai creabili o create.
Dio di sua man le scrisse, e la scrittura
è d’inchiostro di luce a lettre aurate.
Qui spesso a i cari suoi ciò ch’altrui cela
quasi in candido foglio apre e rivela.

107Qui ’l peregrin ebreo l’alto mistero
de la scala del ciel vide e comprese.
Qui de l’Egitto il santo prigioniero
de le spiche adorate il senso intese.
Qui del popol diletto il gran guerriero
mirò le fiamme in verde spina accese.
E qui lesser del Ciel mille secreti
i veraci di Dio sacri poeti.

108Qui l’amato discepolo, ripieno
di quel che ’n carte espresse alto furore,
essule in Patmo e prima a Cristo in seno,
gli occhi chiudendo aprì l’ingegno e ’l core.
Qui rapito dal carcere terreno
il dottor de le genti al ciel d’amore
vide, a i sensi mortali in tutto ascose
non mai vedute e non sentite cose.

109Con questa il divin nunzio in aria ascende
indi sovra la terra e sovra il mare,
dritto vèr Bettelem l’ali distende
et a Giuseppe addormentato appare.
L’alba che sfavillante in ciel risplende,
quell’auree impression mostra più chiare,
con tutto quel che nel mirabil viso
scarpel celeste ha novamente inciso.

110Ama l’alba costei, brama l’aurora,
e più ch’altra stagion la mattutina,
perché meno aggravata e più in quell’ora
l’anima de la carne è peregrina.
Ella volgendo al santo vecchio allora
la traslucida faccia e cristallina,
d’ogni specie segnato il bel diamante
del libro spirital gli offerse avante.

111Fermò Giuseppe entro le note impresse,
che l’Angel gli additò, l’interno sguardo,
e distinto di Dio l’ordin vi lesse,
zelante ch’al suo scampo ei sia sì tardo.
«Ah fuggi, fuggi;» era scolpito in esse,
«già non è sogno il tuo, sogno bugiardo:
oracolo è di Dio vero e fedele,
fuggi la terra avara e ’l re crudele.

112Troppo pur tu fra tante insidie e tante
giaci lento e securo. Or sorgi, e pria
che del gran pegno le vestigia sante
rintracci Erode, o chi per lui ne spia,
tronca gl’induggi, e col celeste infante
dritto verso Canopo or or t’invia.
Là, fin ch’abbi del Ciel novo messaggio,
porrai termine e meta al tuo viaggio.

113Ben del tuo grande allievo il gran cugino
nato d’Elisabetta anco in secura
parte condur lontano, e dal vicino
e sterminato campar del Ciel fia cura.
Ei chiuso in selva il Precursor divino,
benché in tenera etate e non matura,
guarderà da l’insidie; ivi coverto
gli fia l’antro città, casa il deserto.

114Va pur, né d’aversari empi e felloni
timor t’affreni o di tiranno rio.
Tra le fere, tra l’armi e tra ladroni
salvo n’andrai per tutto, è teco Dio».
Qui ’l sonno e ’l sogno a l’atre lor magioni
ratto volàr, qui Vision svanio,
e qui l’Angel lasciollo e sparve, e sparse
luce che l’abbagliò, fiamma che l’arse.

La sacra famiglia prende la via dell’Egitto, scortata dagli angeli (115-146)

115Destasi, e sbigottito e stupefatto
parla a la vergin sua sposa e compagna,
che informata dal Ciel di tutto il fatto
non si turba, non teme e non si lagna.
Corre il vecchio a la culla e quindi tratto
lo dio bambin, per tenerezza il bagna
tutto di pianto, e con paterno affetto
sel reca in braccio e se lo stringe al petto,

116e ’l bacia, e dice: «E dove andrenne, o figlio,
o di padre in pietà, figlio in amore?
Fuggir n’è forza il già vicin periglio,
o di quest’alma afflitta anima e core.
Deh, come intempestivo è quest’essiglio,
o del tronco di Iesse unico fiore.
Co’ piedi in fasce e con non salde piante
gir ti convien peregrinando errante.

117Fuggiam, pur verrò teco, al corpo infermo
darà spirto e vigor celeste aita.
Promette il Ciel per calle alpestre et ermo
al nostro tapinar la via spedita.
Padre e Signor, Tu gli sia guida e schermo,
guarda tu mille vite in una vita;
fa’ tu ch’a buon camin drizzino il passo
fral bambin, debil donne e vecchio lasso».

118Così mentre parlava il balio santo
già tutto accinto a maturar la fuga,
già gli scorrea senza ritegno il pianto
per la guancia senil di ruga in ruga.
Il pietoso fanciul l’abbraccia in tanto,
e di sua man le lacrime gli asciuga,
e compiangendo a le miserie umane
lava del vecchierel le bianche lane.

119Egli che l’aria ancor tra chiara e bruna
vede, e che tutti ingombra oblio profondo,
de gli arnesi migliori un fascio aduna
e ne commette ad umil bestia il pondo.
Dove in un cesto a guisa pur di cuna,
pon la salute universal del mondo.
«Deh, perdona» dicea «se d’ostro o d’oro
non t’accoglie, Signor, nobil lavoro.

120Prema pur re superbo, empio tiranno
le ricche moli e gli ornamenti illustri,
te difenda dal gel povero panno,
opera vil di rozze mani industri.
Se mal aggiata qui fede ti fanno
aride paglie e calami palustri,
so che lassù trionfi e che ti sono
reggia il ciel, manto il sole, i troni trono

121So che sprezzi ogni fasto, e che non hai
più preggiato tesor ch’un puro affetto,
e t’è sovr’ogni pompa in grado assai
l’amor d’un core e l’umiltà d’un petto».
Così ragiona, e ben acconcio omai
tra le ruvide piume il pargoletto,
la soma annoda e con la diva a piedi
segue pian piano i poverelli arredi.

122Struggi la terra tua dolce natia,
tiranno io non dirò, mostro d’Averno,
pasci pur la tua rabbia iniqua e ria
di civil sangue e di dolor materno,
ecco in tanto da te per destra via
sen va sicuro il redentor eterno,
e giunge là dov’egli mira e sente
da l’alte cateratte il Nil cadente.

123Il Nilo assordator de’ suoi vicini,
inondator de le feraci arene,
che porta quasi un mar che ’n mar ruini
d’orgoglio e di furor sett’urne piene,
ch’a parir d’Asia e d’Africa i confini
da sconosciuta origine sen viene,
e mentre al mondo i termini prescrive
pon due nomi diversi a le sue rive.

124Vede l’alte piramidi famose,
quasi monti de l’arte e quasi altere,
per le stelle assalir, scale sassose
farsi colonne al ciel, basi a le sfere,
e ricoprir sotto le spalle ombrose
le piagge tutte e le colline intere,
vietando ognor con la lor vasta mole
a le selve la luce, e ’l passo al sole.

125E vede il Faro per gran tratto intorno
l’acque segnar di luminosa face;
e de la Sfinge il simulacro adorno
de lo scarpel miracolo verace;
e ’l laberinto illustre, ampio soggiorno
c’ha di ben sette reggie il sen capace;
e ’l gran muro fabril che sì da lunge
Pelusio ad Eliopoli congiunge.

126E, quasi parto del superbo fiume,
Meride il lago immenso indi discerne,
e le scole e i musei del chiaro lume
che la Grecia illustrò, memorie eterne;
e di cedro e di pece e di bitume
e d’umani cadaveri caverne,
preziose conserve, onde vien poi
de la mummia salubre il dono a noi.

127De l’eterna progenie il lume e ’l caldo
ch’ovunque va soavemente irraggia,
quasi del vero Sol verace araldo
vide e sentì la paretonia piaggia.
Nacque zaffir, topazio, ostro e smeraldo
per la contrada inospita e selvaggia.
L’orso, il tigre e il leon conobber Dio,
et a lambirlo il cocodrilo uscio.

128Con stupor di natura, il manto vile
spogliossi il verno e la canicie antica;
sue pompe in lui la cortesia d’aprile
tutte versò con larga mano amica,
et arricchì d’un abito gentile
la terra ignuda e la stagion mendica,
le spine ornò d’intempestivi onori,
e maritò con le pruine i fiori.

129Anime lievi di vezzose aurette
e con musici fiati allettatrici,
tra laureti e palmeti amorosette
sussurrando scotean l’ali felici.
Con molli seggi d’odorate erbette
lusingaro il fattor valli e pendici;
piegaro il crin per riverenza i monti,
e mormorando il salutaro i fonti.

130Fuor del chiuso la testa il Nilo trasse
per baciar l’orme virginali e sante;
s’inchinàr l’onde et a le membra lasse
alimento e ristoro offrìr le piante.
Ogni erba e fiore, ovunque il piè posasse,
con gli odori odorava il suo Levante.
Belle gare movean de gli arboscelli,
per benedirlo, e gli Angeli e gli augelli.

131Mille, e di mille fiamme intanto accesi,
sparse con varie danze in varie torme,
Amoretti canori in aria stesi
de’ santi peregrin fecondan l’orme.
Quai son del volto ad asciugar intesi
l’umor notturno al fanciullin che dorme,
quai dal rigor de le gelate brume
a schermirlo con manti e con le piume.

132Spirto guerrier fra l’altre eteree scorte
cura ha dal Ciel d’assicurar la strada,
e di lucido scudo il petto forte
et armato la man d’ardente spada,
quasi forier, per le vie dubbie e torte
l’umil coppia precorre ovunque vada,
simile a quello, al volto et a la vesta
che l’un vide sognando e l’altra desta.

133Qual di se stesso e genitore e figlio
move l’Angel, ch’al par del sole e solo,
di foco il capo e di piropo il ciglio,
con ali d’ostro e di zaffiro a volo.
Ammirando il diadema aureo e vermiglio
del pomposo suo re l’alato stuolo
lieto il corteggia, e con canora laude
al miracol d’Arabia intorno applaude.

134Cotal sen va fra cori eterni e santi
il campione immortal. Tutto confuso
mira Giuseppe i lumi, ascolta i canti,
stringe le ciglia, aguzza il guardo in suso.
Ma, vinto al folgorar di raggi tanti
e tali accenti a sostener non uso,
chiude, cadendo attonito e smarrito,
de la vista i meati e de l’udito.

135Ma divina virtù l’egra pupilla
rinforza e ’l debil senso al santo vecchio,
et a l’occhio che manca e che vacilla
l’oggetto affrena et a l’infermo orecchio.
Sorge, e ’n contro al balen ch’arde e sfavilla
con la tremula man si fa solecchio,
e del corpo senil l’antico incarco
sul nodoso bastone incurva in arco.

136Poiché ’l vigore ha racquistato in guisa
che ’n su le piante i gravi membri appoggia,
gli occhi leva pian piano, indi gli affisa
verso il balcon de la stellata loggia,
e da festive lacrime recisa
apre il varco a la voce in questa foggia:
«O del celeste essercito pennuto
fulgentissime squadre, io vi saluto.

137Vi saluto e v’inchino, e se le luci
stupide alzar presumo a sì gran raggi
tutto è sol mercé vostra, empirei duci,
del gran Re de le stelle alti messaggi.
Tu, possente drappel, reggi e conduci
lo stanco piè per boschi ermi e selvaggi;
tu per rigide vie d’aspre montagne
ne guida e guarda», e così parla e piagne.

138Allor per quanto stende infra’ duo mari
l’ampio confin, dal manco braccio al dritto,
le statue eccelse, i celebrati e chiari
idoli suoi precipitò l’Egitto.
Cadder di Tebe e Menfi i sozzi altari,
di Faria e d’Asna e quei del greco invitto;
giacquero Osiri et Isi e tacque Anubi,
fiaccati in pezzi e dileguati in nubi.

139Qual suol ne la stagion tacita e nera,
vigilante a l’insidie et a le prede
di ladroni fuggir turba leggera
s’improviso splendor gli occhi le fiede,
o qual d’augei notturni infame schiera,
se rosseggiar ne l’Oriente vede
i principi del dì che fa ritorno,
teme il sole e la luce, e cede al giorno,

140tal d’ogni nume perfido e profano
l’ombre di forza e di baldanza vòte
sparver dinanzi al vero, ond’altri in vano
n’attese il suon de le bugiarde note.
Pien di spavento e di stupor dal piano
le reliquie raccolse il sacerdote,
e de’ suoi dèi, ch’alto tremoto infranse,
le ruine e i silenzi indarno pianse.

141Quindi de’ riti antichi a mancar venne
la superstizion vana e fallace,
e ne’ petti credenti il seggio tenne
di ferma e stabil fé culto verace.
Dietro al fulgor de le celesti penne
sen gìa la cara al Ciel coppia seguace,
e già da l’altrui froda empia e villana
libera in tutto, in tutto era lontana.

142Non è però per sì solinghe strade
che ’l cor pur non le scota alta paura;
non Tebe la magnifica cittade
ricca di cento porte e d’alte mura,
non Ermopoli ancor da l’altrui spade
stima a i sospetti suoi patria sicura,
quindi Siene aprica a dietro lassa,
e nel centro d’Egitto a Menfi passa.

143Qui, finché ’l Ciel ch’al patrio nido il tolse
altro volgesse, il vecchiarel mendico
trasse il figlio e la sposa, e qui l’accolse
povero tetto di cortese amico.
Qui poi sagace artefice rivolse
la man rugosa a l’essercizio antico,
e qui lasciò del suo scarpello industre
detto scultor più d’un intaglio illustre.

144Fabro era esperto e nel lavor fabrile
possedea nobil arte, alto disegno,
o prendesse a trattar con pronto stile
l’argento e l’oro, o pur l’avorio e ’l legno.
Oltre che poi de l’animo senile
la miseria sforzava il pigro ingegno,
però ch’assai sovente altrui consiglia
necessità, di cui l’industria è figlia.

145D’ebeno e cedro e d’altri legni egregi
ampie tavole scelse, e varie in esse
formando e vaghe imaginette e fregi
de’ Tolomei la lunga serie espresse.
La lampa del nocchier, l’urne de’ regi
e del gran Nilo la feconda messe,
e per mercar con la fatica il vitto
tutti gli onor v’effigiò d’Egitto.

146Da quest’opre talor famose e conte
d’una in altra città vulgate e sparte,
mercenario sudor de la sua fronte
solea d’oro ritirar non poca parte.
Di fortuna a schernir gli scherni e l’onte
questo studio gli valse, usò quest’arte
procacciando a se stesso alcun sostegno,
a la dolce consorte, al caro pegno.