ARGOMENTO
Da sublime palagio Erode mira
de la strage crudel l’orrida scena.
Lo stuol, ch’infellonito il ferro gira,
altri sbrana, altri pesta et altri svena.
Trafitta nel figliuol, piange e sospira
e dimostra ogni madre amara pena.
Lasciata il re crudel l’eccelsa reggia
su gl’innocenti uccisi empio passeggia.
Il poeta si augura di saper usare la penna come il Cavalier d’Arpino usò il pennello per dipingere la strage (1-2)
1Deh, perché la mia lingua e lo mio stile
non punge al par de le crudeli spade,
perché potesse in ogni cor gentile
mille piaghe stampar d’alta pietade?
o perché la mia penna oscura e vile,
ch’a ritrar tant’orror vien meno e cade,
del gran martirio ebreo l’istoria amara,
Arpin, del tuo pennello or non impara?
2Quella tua nobil man che senso e vita
dar seppe a l’ombre et animar le tele,
onde la schiera lacera e ferita
ancor sente dolor, sparge querele,
e quasi a nova strage ancora irrita
l’empio tiranno e ’l feritor crudele,
or a i miei inchiostri i suoi color comparta
sì ch’emula al tuo lin fia la mia carta.
All’alba Erode si asside in un trono sopraelevato e ordina la strage (3-12)
3Sorse l’aurora e d’Israelle i figli
volse onorar di lacrime pietose,
insanguinò le violette e i gigli,
impallidì le porpore e le rose.
Cinto di lampi torbidi e vermigli
sotto il vel de la notte il dì s’ascose.
Pareva il sol con volto afflitto e smorto
giunto a l’Occaso, e pur sorgea da l’Orto.
4Fuggite, o madri, e i dolci pegni amati
portate in braccio a più sicuri nidi!
Ecco a lor danno e vostro, ecco ch’armati
mille ne vengon già fieri omicidi.
Ecco i lor ferri in alto, ecco vibranti
fendon l’aure, odo i pianti, odo gli stridi,
veggio i vostri sembianti almi e leggiadri
volti in pianto, in orror, fuggite o madri.
5Fabrica in Bettelem ch’alta s’appoggia
sovra cento colonne in mezzo siede,
spaziosa e capace, e quasi a foggia
fatta di tempio sferico si vede.
Che sala fosse anticamente o loggia
del re de’ Cananei certo si crede,
di quel gran re che la città reina
primiero edificò di Palestina.
6Non volse il fier tiranno a cielo aperto
la tragedia mirar crudele e mesta,
ma quel portico scelse al sol coverto
opportuno teatro a l’empia festa.
Quivi su d’un balcon sublime et erto
a riguardar l’uccision funesta,
e de le morti altrui le varie guise
giudice e spettator lieto s’assise.
7Pensò fors’egli in cotal modo ascose
tener sue frodi a la pietà celeste,
ma non l’ascose a voi, schiere pietose,
Angeli che ’l miraste e ne piangeste,
e le piaghe stillanti e sanguinose
di propria mano ad asciugar correste,
intenti ad arricchir di sì begli ostri
il lucido candor de’ manti vostri.
8Qui, come prima il novo dì s’aperse,
venner citate, e quasi in chiuso agone,
caterve innumerabili diverse
si raccolser di madre e di matrone.
Tosto ch’entraro e ’n vista lor s’offerse
strano apparecchio d’armi e di persone,
tra pensiero e stupor dubbie e sospese,
repentino terror tutte sorprese.
9Aveano al bando ubidienti in schiera
tratto di figli un numero infinito,
de’ quai ben atto ancora alcun non era
a scior la lingua perfetta o piè spedito.
Forma quei non intesa e non intera
la parola tra voce e tra vagito,
questi con passo dubbio e vacillante,
accennando cader, move le piante.
10Or come tra carnefici rinchiuse
le sventurate donne si trovaro,
tutte ammutiro, e ’n lor pensier deluse
quasi calcati fior si scoloraro.
I fanciulli che timidi e confuse
le videro languir, le stride alzaro.
Qual fuggia tra le mamme e qual nel grembo,
chi col vel si copriva e chi col lembo.
11Stavasi in alto soglio Erode intanto,
coronato di gemme e ’l petto e ’l tergo;
sotto il fin ostro del reale ammanto
guernito avea di luminoso usbergo.
Ma vago pur del fanciullesco pianto
più si compiacque in quel funesto albergo,
ferro e sangue il crudele aver d’intorno
che di porpora e d’or vestirsi adorno.
12Come predace augel che d’alto mira
stuol d’incaute colombe, i foschi cigli
là drizza, arrota l’armi, aguzza l’ira
del curvo rostro e de’ pungenti artigli,
così torvo e traverso il guardo gira
a le pallide madri, a i mesti figli.
Indi al suo banditor cenna dal palco
che dia voce al concavo oricalco.
La masnada compie la strage (14-79)
13Quei dal tergo onde pende in mano il toglie,
pon su gli orli le labra, e mentre il tocca
nel petto pria quant’ha di spirto accoglie,
quinci il manda a le fauci, indi a la bocca;
gonfia e sgonfia le gote, aduna e scioglie
l’aure del fiato, e ’l suon ne scoppia e scocca.
Squarcia l’aria il gran bombo e ’l ciel percote,
e risponde tonando Eco a le note.
14Udito il segno de la regia tromba
ecco alzar mille man mille armi orrende.
Già sopra i capi il ferro piomba,
già fuor di mille piaghe il sangue scende.
Del pianto feminil l’atrio rimbomba,
al grido pueril l’aria si fende.
Là tinti d’ira e qui di morte i visi,
fremono gli uccisor, gemon gli uccisi.
15Quanti a l’ultimo spirito spiraro
ch’a i primi sospiri aprian l’uscita?
quanti morte acerbissima provaro,
che conosciuta a pena avean la vita?
quanti del limbo pria l’ombre miraro
che del mondo la luce alma e gradita?
a quanti fu con disusato modo
tronco il fil vital sul far del nodo?
16O qual era a veder fuggir tremanti
per la reggia crudel fanciulli e donne!
Tali furo i lamenti e i gridi tanti
che non pur l’ampia cupola tremonne,
ma molli al sangue, intenerite a i pianti
contan che statue intorno anco e colonne
pianger fur viste, e da pietà commosse
al suon de le durissime percosse.
17Miracoli dirò. Fama è che molti
già di senso e di vita e d’alma privi,
dal ferro micidial torsero i volti,
forse del gran timor tornati vivi.
Con le materne lacrime disciolti
correan de’ figli i sanguinosi rivi,
onde parea che pallido et essangue
fuggisse anch’egli impaurito il sangue.
18Trema il gran tetto al suon di tante spade;
ahi tetto infame, ahi scelerata mole,
come il copre e ’l sostien? forse non cade
per non tinger di sangue i raggi al sole.
Tu, sol, ché non torci or per pietade
l’usata via se ciò veder ti dole?
perché non celi almeno i chiari rai
se sospirar, se lacrimar non sai?
19Le spade che pur or terse e lucenti
con lunghe bisce balenar fur viste,
or con orribil tratto, il ciel fendenti,
veggionsi rosseggiar di sangue miste.
Ascolta Erode i queruli lamenti,
vede le morti spaventose e triste,
e quasi assiso a dilettosa scena
si fa gioco e piacer de l’altrui pena.
20Non così suole a lo splendor de l’oro
talor riconfortarsi animo avaro,
come de’ ferri onde perian coloro
l’infausto lampo a la sua vista è caro;
né men gli apporta a l’anima ristoro
il ramarico acerbo e ’l pianto amaro,
che soglia altrui tra’ fiori e gli arboscelli
canto di ninfe e melodia d’augelli.
21Giovinetta gentil, prodigo in cui
pose ogni grazia Amor, s’ode in disparte
patteggiar con ministro e pregar lui
con le man giunte e con le treccie sparte:
«Me, me ferisci, e campami costui,
ch’è de l’anima mia la miglior parte».
Promette il disleal, promette e ride,
poi rompe il patto e ’n vista sua l’uccide.
22Trionfa il feritor sovra il ferito,
e poi che l’ha ferito anco il minaccia,
geme e vagisce l’un, l’altro il vagito
col ferro in bocca e ’l gemito gli caccia.
Quei svelto a forza e con furor rapito
da le braccia materne apre le braccia,
e la semplice bocca a chi l’impiaga
sporge, e rende al crudel bacio per piaga.
23Qual giovenca talor se da pesante
maglio o mazza percossa avvien che caggia,
il torel non spoppato a lei davante
d’angosciosi muggiti empie la piaggia;
o come rossignuol tra verdi piante
cui de l’amata sua stirpe selvaggia
abbia avaro villan votato il nido
ferisce il ciel di doloroso strido,
24tal divenne colei, così la punse
punta d’acuto duolo, e venne meno.
Sul caduto figlio cadde e congiunse
mano a man, volto a volto e seno a seno.
Stillò dal cor licor pietoso et unse
le piaghe acerbe ond’era sparso e pieno.
Sciolse ella gli occhi, egli le vene, e quanto
egli di sangue, ella versò di pianto.
25In altro lato, ahi ferità!, si mira
pugnar la madre e ’l manigoldo insieme;
l’una tiene il fanciul e l’altro il tira,
l’una nel piè, l’altro nel braccio preme;
di pietà ferve quella e questi d’ira,
quei rugge e latra e questa langue e geme.
Et è la spoglia al fin di quel contrasto
la spoglia di un bambin lacero e guasto.
26«Perché, perché» dicea colei nel pianto
«quel che nacque di me da me dividi?
io l’ho con tanta cura e studio tanto
allevato e nodrito, e tu l’uccidi?
parte de la mia carne è questo manto
da natura contesto, e tu ne ridi?
ch’io ami quel che del mio ventre è nato,
lassa, e forse tua ingiuria o mio peccato?
27Uccidi almen col caro suo germoglio,
sola non la lasciar, la genitrice.
Sfoga pur nel mio sangue il fero orgoglio
ch’assai n’ha più di lui questa infelice.
Due morti almeno accoppia, altro non voglio;
conceder tanto a crudo cor ben lice.
S’egli ha colpa è mia colpa, egli errò meco,
or mi vaglia a mercé ch’io mora seco.
28Crudel, che cerchi? e perché, pur cercando
nemico o reo, chi non t’offese offendi?
ma tu perché più indugi? e ’n fino a quando?
come il folgor temuto in man non prendi?
Vienne, ma vien, Signor, l’asta vibrando,
redentor già promesso, omai deh scendi.
Veggiati e tema il dispietato mostro
l’avido spargitor del sangue nostro».
29Così languia la sconsolata, e ’n questa
il mal difeso corpo, onde languia,
cade sbranato, e parte in man le resta,
sì fu troppo crudel, per esser pia.
Sul cadavere danza e fa gran festa
colui c’ha forma umana, alma d’arpia,
né sente altro dolor se non ch’egli abbia
troppo picciole membra a tanta rabbia.
30Al repentino inaspettato insulto,
stupide l’altre e sbigottite stanno;
già d’or in or del tradimento occulto
miran gli effetti e la cagion non sanno.
Né meno a sé ch’a i figli, in quel tumulto,
temon la morte, anzi timor non hanno,
perché ciascuna per minor martire
con la sua vita in braccio ama morire.
31Tanto in una di lor l’affanno acerbo
pose d’ira e d’ardir che tra’ crudeli
ferri si spinse, e disse: «O re superbo,
e perché questo a i servi suoi fedeli?
Ma vendetta a vederne ancor mi serbo
se gli altrui giusti pianti odono i Cieli,
se ’l gran Rettor de’ fulmini sovrano
mira con occhio dritto i torti umani».
32Giovane donna onestamente bella
pargoletto tremante in piè reggea,
quasi ignuda e maestra, et egli et ella
somigliavano Amore e Citerea;
ma né questi dapoi parve né quella,
né ’l più bel dio, né la più bella dea,
che non avria di Marte empio sergente
lasciato ucciso l’un, l’altra morente.
33Vestia quel masnadier giuppa contesta
di sottil maglia a guisa di corazza;
l’avanzo ignudo avea di ferro in testa
rugginoso cappello, in mano un’azza;
fra quelle miserabili con questa
larga s’apriva e spaziosa piazza,
Quasi cinghial, le sete aspre e pungenti
sporgea dal grugno, e fuor del grugno i denti.
34Pianse la sventurata, ei non udilla
e di man le rapì l’amato Amore,
orfanetto pupillo, anzi pupilla
de gli occhi, occhio de l’alma, alma del core.
Mentre con piè non fermo egli vacilla,
l’orme segnando con incerto errore,
è preciso al meschino in un istante
il camin de la vita e de le piante.
35L’impiaga e svena, e fa che d’ogni vena
non ancor ben formata, il sangue piova.
Snida dal dolce albergo, anzi scatena
da l’amara prigion l’anima nova.
Ma ne’ membri minuti ancora a pena
loco a la piaga il piagator ritrova,
ché maggiore è il pugnal del picciol busto
e minore è del colpo il corpo angusto.
36La madre il prende e se l’accoglie al petto,
peso che già le piacque et or l’aggrava,
e i freddi spirti e ’l volto pallidetto
con lacrime di cor riscalda e lava.
Ella sì nel sembiante e ne l’aspetto
a l’estinto fanciullo egual sembrava
che distinguer da lui mal si potea
se non forse però ch’ella piangea.
37Una ve n’ha che del bel fianco ignudo,
misera, e del bel petto e del bel volto,
come può meglio al caro suo fa scudo,
né soffrir sa che le sia morto o tolto.
Ma le sta sovra uom minaccioso e crudo
che l’aureo crin s’ha intorno al braccio avolto,
e del crespo e fin or le bionde pompe
a scossa a scossa le divelle e rompe.
38Ella, sì come tronco edera cinge,
al dolce pegno abbarbicata stassi;
ma lui nel piè, lei ne la chioma stringe
sì forte il fier che ’l fin convien che lassi.
Poi con robusta man lo scaglia e spinge
contro il muro vicin, fra duri sassi;
pria però che l’aventi e che ’l percota,
tre volte e quattro intorno intorno il rota.
39A quell’orrenda e dispietata scossa
nel fanciullo tremante e sbigottito,
percossa dal timore è la percossa,
onde morto riman pria che ferito.
Al fin, rotto le membra, infrante l’ossa,
steso al suol tutto pesto e tutto trito,
per le labra e le nari in copia grande
con la bianca midolla il sangue spande.
40Né di ciò pago ancor l’uom crudo e rio
con le piante calcandolo lo sprezza.
Ella, ch’altro non sa, rivolta a Dio,
e scoppiandole il cor di tenerezza,
gridò: «Meravigliar non mi degg’io
ch’alberghi in petto uman tanta fierezza,
né men d’ingiurie tante e tanti morti,
ma di te, Re del Ciel, che lo sopporti».
41Non lunge era un villan di fier visaggio,
rozzo a gli arnesi e spaventoso a gli atti.
Non credi che sì rigido e selvaggio
là ne’ monti lucani orso s’appiatti:
porta l’ira ne gli occhi, in man l’oltraggio,
fiero ne le fattezze e più ne’ fatti,
e grave tratta e boschereccia ronca
ch’usa podar già tralci, or membri tronca.
42Questi contr’un de’ miserelli ebrei
che de i labri materni i vivi spirti
suggea, si volse e disse: «Or a costei,
che t’ha sì caro, io vo’ di sen rapirti.
Vo’ sviscerarti, e così poi da lei
sviscerato figliol potrai ben dirti».
Così dice e l’assal. La donna ardita
s’oppon allor, ma più quell’ire irrita.
43Lassa, e che val contro furore armato
feminil debolezza a far contesa?
Timor crudo le fa del proprio nato,
amor poscia l’arretra e tien sospesa.
Mentr’ella è in forse e stassi in tale stato,
fra la sua propria e fra l’altrui diffesa,
ecco l’irreparabile ferita
che lei toglie di dubbio e lui di vita.
44Impiaga, ahi crudo, il figlio, e non ben anco
sazio d’una sol morte, allora allora,
trapassato a la madre insieme il fianco,
fa che colà di nova morte ei mòra.
Passa, va dentro il cor nel lato manco,
l’amor materno il mantien vivo ancora,
e due volte gli uccide il suo diletto,
la prima in braccia e la seconda in petto.
45Contr’una che chiedea piangendo aita
soldato empio qual aspe, aspro qual orso,
per privar lei di figlio e lui di vita
già levato avea ’l braccio e steso il corso,
quando colei, fatta dal duolo ardita,
l’unghia adoprando infuriata e ’l morso,
il brando, allor che ’n lui torcere il volse,
con intrepida man di man gli tolse,
46fra se stessa dicendo: – Ah non fia vero,
figlio di questo core unica doglia,
non fia che man sì sozza e cor sì fero
trionfi mai di sì leggiadra spoglia.
Pria vo’ con atto rigido e severo
che chi latte ti diè, sangue ti toglia;
vedranno or or queste malvagge squadre
s’io so meglio omicida esser che madre -.
47Ciò detto di sua man, nova Medea,
il traffigge, l’uccide, e ’n due lo spara,
e ’n faccia al malandrin, che ne ridea,
gitta in pezzi la carne amata e cara.
«Saziati» disse «e da la madre ebrea
incrudelir ne’ propri figli impara.
Impara di ferir più fere guise
da questa destra», e qui se stessa uccise.
48Eran qui due, l’una d’un parto solo,
l’altra ricca di due germane belle;
premean queste in silenzio il grave duolo,
torcendo al ciel le lacrimose stelle.
Verso colei che l’unico figliuolo
timida si stringea fra le mammelle,
mosse il piè veloce e ’l braccio crudo
un giudeo tutto scalzo e mezzo ignudo.
49Lacero avea, quasi farsetto indosso
ch’a pena il ricopria fin su i ginocchi
purpureo cencio, e di pel crespo e rosso
dal mento gli pendean duo lunghi fiocchi;
sgangherato la bocca e i labri grosso,
rabbuffato le ciglia e bieco gli occhi,
di sozzo ceffo e di sparuta ciera,
in somma tal ch’era uomo e parea fera.
50Tacque la bella donna e non disciolse
voce, pianto o sospir; tacque e sofferse;
ma sì pietosa in atto il figlio tolse
e volontaria al mascalzon s’offerse
che, se non ch’egli altrove i lumi volse,
se non ch’ella d’un velo i suoi coverse,
vincealo il dolce sguardo, e ’l ferro acuto
fora di mano al feritor caduto.
51Ma che? contro furor che val bellezza?
Strins’egli il ferro e nel fanciul l’affisse.
Quei, come suole ad uom che l’accarezza,
ridendo a l’assassin «Babbo» gli disse,
e spinto pur da pueril vaghezza,
le man stese al coltel che lo traffisse,
credendo dono, imaginando argento
l’acciar che era di morte empio stromento.
52Ei non mirollo o non curollo, e dritto
là donde il riso usciva il ferro mise.
Ma come vide il poverel trafitto
languir morendo in sì dolenti guise,
fatto quasi pietoso angue d’Egitto,
si dolse, e lagrimonne ei che l’uccise;
ma sedate le lacrime e ’l cordoglio,
tosto poi la pietà cesse a l’orgoglio.
53Volgesi a l’altra, e fra suo cor discorre
qual de’ dui figli e di qual colpo ei fieda.
Che dèe far lei? chi la soccorre?
dove sarà ch’aita invan non chieda?
Fuggesi intorno e quei la segue e corre
quasi ingordo mastin dietro a la preda;
ella vagante in questa parte e ’n quella
sembra da lupo insidiata agnella.
54Con quell’affetto che del patrio regno
l’alte fiamme fuggendo il buon troiano
il vecchio genitore e ’l picciol pegno
reggea col tergo a un punto e con la mano,
fatta de’ cari suoi schermo e sostegno
per involargli al predator villano,
quinci e quindi traea, pietoso impaccio,
soavissima soma, i figli in braccio.
55Misera, ma che pro? Fugge il periglio,
non campa già, ché ’n novo mal trabocca.
Tal augel del falcon sente l’artiglio
mentre sottrarsi al can tenta di bocca;
ecco un altro crudel, ch’al primo figlio
che il sen le sugge un dardo aventa e scocca,
e passa oltre la labra onde la poppa
già di latte, or di sangue, è fatta coppa.
56Giunge intanto più presto e la minaccia
con più forte armi il barbaro omicida.
Vede l’altro bambin che tra le braccia
stretto le giace, e la motteggia e grida:
«Poiché con tanto amor teco s’allaccia,
ragion non è ch’io te da lui divida,
ma perché non si scioglia il caro nodo
fia gran pietà s’io nel tuo sen l’inchiodo».
57Quel meschinel, qual timidetta damma
la qual ricovri a le sue siepi ombrose,
dentro il solco di neve, in cui di fiamma
vivacissimi semi amor ripose,
smarrito allor fra l’una e l’altra mamma
da la faccia del ferro il volto ascose,
e tanto ebbe di senno acerbo ingegno
che temer seppe e morte e fuggir sdegno.
58Quantunque in van, ché ’n lui la punta orrenda
drizza il fellon, ma falle il colpo et erra.
Crudel l’error, ma più crudele emenda,
che lui traffigge e lei traffitta atterra.
Egli le braccia aperte avien che stenda,
ella in giù cade, e nel cader l’afferra,
onde immobile tronco e senza voce
al figliuol crocifisso è fatta croce.
59Arpin, chi vide mai con dotto stile
da la tua man la carità dipinta,
che di vaghi bambin schiera gentile
abbia nel seno e ne le braccia avinta,
cotal parea legiadra donna umile,
scompigliata il bel crin, scalza e discinta,
e ’ntorno le fiorian teneri e molli
de la progenie sua cinque rampolli.
60Benché del regio editto il fier tenore
fuor che ’nfanti da latte altri non cheggia,
n’avea costei di età poco maggiore
parte condotti a la spietata reggia,
sì perché stretti di fraterno amore
l’un con l’altro trattiensi e pargoleggia,
sì perché ella ove mova o fermi il piede
disgiunti ancor mal volentier gli vede.
61Stavasi il primo in picciola tabella
le note ad imparar de la prima arte,
discepolo novo e de l’ebrea favella
leggea le righe in lei vergate e sparte,
quando la testa ecco gli tronca e quella
gli cade in sen su l’innocenti carte,
e l’estremo suo fatto a lettre vive
con vermigli caratteri vi scrive.
62Move colui vèr l’altro il passo orrendo,
poiché ’l capo ha de l’un sciolto dal busto.
Vedel là ch’un pomo ei sta rodendo,
pomo mortale, ahi troppo amaro al gusto;
drizza a le fauci, ond’inghiotta ridendo
l’esca dolce e matura il ferro ingiusto,
e gli fa con un colpo acerbo e forte
tragugiando il pugnal morder la morte.
63Iva il terzo trescando a salto a salto
sovra un finto destrier di fragil canna,
miser, né sa qual repentino assalto
a morte crudelissima il condanna.
Ecco quel cor d’adamantino smalto
pria con man lo schermisce e poi lo scanna,
ne lo spazzo l’abbatte e quivi il lassa
a giostrar con la morte, e ride e passa.
64Del bel drappel, reliquie assai leggiadre,
avanzavano ancora il quinto e ’l quarto,
coppia che fu de la dolente madre,
madre più non dirò, gemino parto.
L’un rotando sé gìa fra quelle squadre
mobil paleo per entro il sangue sparto,
e tutto intento al fanciullesco gioco
al periglio vicin pensava poco.
65Contro costui la destra e l’armi stese
rapidamente il feritor villano,
ma la piaga mortal colà non scese
dov’ei mirò, se ben non scese in vano,
ché frapostosi a caso in sé la prese,
non aspettata, il suo vicin germano.
Diss’egli allor: «La tua follia s’incolpi,
non la mia man, se vai furando i colpi».
66Sotto la gonna allor colei si cela
l’ultimo che di cinque ancor le resta.
Ma che? Del proprio scampo ei si querela
e col proprio vagir si manifesta,
e la froda pietosa altrui rivela
ch’ascoso il tien de la materna vesta;
semplicetto ch’egli è, né sa tacere
perché non ha imparato anco a temere.
67La mal avventurosa e mal accorta,
cui da senso l’amor, vita il dolore,
altro non sa che sbigottita e smorta
piover per gli occhi amaramente il core.
ma l’avanza il vagito, e si fa scorta
del cieco ferro, de l’ostil furore:
segue la voce e là donde deriva
per la traccia del suon la spada arriva.
68Non così contro ’l nibbio empio e maligno
la domestica augella i polli cova,
come colei dal barbaro sanguigno
il malcauto schermisce, e non le giova,
però che ’l fier, che petto ha di macigno,
brandisce il brando e ne la strozza il trova.
Giac’ei nel sangue orribilmente involto
tra i fraterni cadaveri sepolto.
69Qual fu Niobe a veder quando dal cielo
vide scoccar le rapide saette,
onde in un giorno i duoi signor di Delo
orba la fèr di sette vite e sette,
che visto al fin cader l’ultimo telo,
al dolente spettacolo ristette,
e ’l corpo per dolor stupido e lasso
venne gelida selce, immobil sasso,
70tal fra la stirpe sua mentre moriva
restò la tapinella instupidita,
di color, di calor, di senso priva,
senza moto, senz’alma e senza vita.
Parea morta non già, ma men che viva
di bianco marmo imagine scolpita;
di bianco marmo se non quanto i figli
fatto i candidi membri avean vermigli.
71Pur, tanto di vigor le dà pietate,
la ministra crudel volge sossopra,
e va cercando le reliquie amate,
ove la varia uccision le copra;
e le lacere membra insanguinate,
regendo amor la mano a sì fier’opra,
per onorarle de l’essequie estreme,
sparse raguna e le commette insieme;
72e col pianto le lava, e dice: «Ahi lassa,
lassa, che fia che i miei soavi pegni,
la cui vita infelice il cor mi passa,
di riunir, di risarcir m’insegni?
Altro non veggio ch’una orribil massa
di frammenti avanzati a gli altrui sdegni,
altro che mucchio di sanguini e monche,
squarciati brani e dissipati tronchi.
73Già solev’io, non è gran tempo avanti,
trattando di mia man serici stami,
nel lin che vi copria, poveri infanti,
con sottil’ago ordir fregi e ricami;
or da ferro crudel ne’ vostri manti
quali, ahi quali vegg’io lavori infami?
Fiera man vi trapunse, et ecco in vui
ricucir mi convien gli squarci altrui.
74Son queste, ohimè, le forme altere a vaghe
che da la genitrice in prima aveste?
o stelle del mio mal sempre presaghe,
le mie misere carni, ohimè, son queste?
Queste son pur tra ’l sangue e tra le piaghe,
riconosco pur io l’amate teste.
Dunque così mi ritornate innanzi
de le viscere mie miseri avanzi?
75O specchi del mio cor, volti amorosi
ov’io me stessa vagheggiar solea,
o soli di quest’occhi, occhi pietosi
in ch’io mille dolcezze ognor avea,
o labra, onde pur or baci vezzosi
misti fra dolci risi Amor traea,
ahi qual selvaggio, ahi qual tartaro mostro
ha sparso il sangue mio nel sangue vostro?
76Dato mi fusse almen toccar distinti
que’ membri, ohimè, che più toccando infrango.
Lassa, ch’io pur miseramente estinti
piango i miei figli e non so quale io piango,
perché d’atro pallor siete sì tinti
che dubbiosa e confusa io ne rimango,
e l’effigie gentil del volto mio
cancellata dal sangue in voi vegg’io.
77Se’ tu colui ch’io generai primiero?
Già non è questo il capo tuo reciso.
Chi fu che nel tuo busto, ahi scambio fiero,
trasportato e commesso ha l’altrui viso?
Figli, miseri figli, or che più spero?
Sepolto è ne’ vostr’occhi ogni mio riso».
Qui le cresce la doglia e manca il pianto,
secca han gli occhi la vena al pianger tanto.
78E sviene, e ’l volto oscura e la favella
perde, e fiato non spira, occhio non move.
Sanguigna in tanto e torbida procella
da mille spade in altra parte piove.
Ben fu sotto re tale e ’n tale stella
felice chi non nacque o nacque altrove,
felice chi non nacque o nato poi
diè fine il primo giorno a i giorni suoi.
79Di che ti lagni poi, di che ti sdegni
mondo vil, secol rozzo, oscura etate,
che ’n te viva l’inganno, il vizio regni,
che sien lunge da te fede e bontate,
che virtù pianga e seco i chiari ingegni
languiscan tutti e l’anime bennate,
se la bella innocenza in cotal guisa
quaggiù fin da quel dì rimase uccisa?
Erode, ebbro per la carneficina, scende dal trono e si aggira tra i cadaveri (80-90)
80Già scorre in fiumi il sangue, altro non s’ode
che voci di dolor, strepiti d’ira.
Tutt’orror, tutt’è morte, e solo Erode
lieto al tragico oggetto i lumi gira.
La fiera stragge, ond’ei festeggia e gode,
tra sé lodando i colpi intento mira,
e vedesi con voglie ingorde e vaghe
contar le morti et additar le piaghe.
81Mentre la plebe addolorata e trista
con pietosi ramarichi languisce,
terror de la memoria e de la vista,
ostinato in sua voglia il re gioisce;
qual serpe che dal sol veneno acquista,
più la stessa pietà l’infellonisce;
ha spumante la bocca e gli occhi ardenti,
e si morde le labra e batte i denti.
82Sorto Erode da loco onde pur dianzi
fu spettator de’ suoi furor perversi,
più da presso si fece e volse innanzi
il macello tirannico vedersi.
Parean gli sparsi corpi orridi avanzi
di naufragio mortal legni sommersi,
il sangue pueril flutto crudele,
e le membra e le fasce arbori e vele.
83Su per gl’immondi e sanguinosi monti,
spaventoso a pensar, spazia e passeggia.
Da i fianchi aperti e da le rotte fronti,
vede che sangue in gran diluvio ondeggia,
pur come in chiari fiumi o in vivi fonti:
là per entro si specchia e si vagheggia.
E vuol de’ miserabili infelici
misurar di sua man le cicatrici.
84Sembra a punto di tana uscito drago
con ale verdi e con sanguigne creste,
ch’al novo sol presso il natio suo lago
le fauci aprendo orribili e funeste,
terga le scaglie, in un feroce e vago,
di squallid’auro e rigido conteste,
et al dolce el ciel lume sereno
saetti da tre lingue ira e veneno.
85Vede di brutte macchie altri coverti,
languidi, moribondi e palpitanti,
tra’ confin de la morte ancora incerti
stringer le madri et anelar spiranti.
Altri già senza vita, i cori aperti
mostrano ancora, e mostrano i sembianti
effiggiati di pietà, d’amore,
atteggiati di pianto e di dolore.
86Altri il vital umor, che largo abonda,
e dal cor non stagnato ancor deriva,
vomita per la bocca in su la sponda,
quasi nave sdruscita e giunta a riva.
Vorrebbe a nuoto alcun su per quell’onda
morte fuggir, che ’l segue e che l’arriva,
ma debile, mal vivo e semimorto
cade nel sen materno e mòre in porto.
87De le donne meschine altra le gote,
altra le man si batte e ’l crin si frange.
Questa mentre che ’l sen squarcia e percote,
ulula, non sospira, urla, non piange;
quell’altra fa con dolorose note
del petto un Mongibel, de gli occhi un Gange;
chi del re, chi del Ciel si lagna e stride,
chi si duol del suo duol, che non l’uccide.
88Altra ve n’ha che taciturna e sola
a l’estinto figliuol protesa avanti,
stupida in atto e senza far parola
si distempra in sospir, si strugge in pianti.
Altra al pianto pon freno e si consola
in tòr da terra i figli anco tremanti,
e le fredde cogliendo aure fugaci
stampa ne’ labri lor gli ultimi baci.
89Altra del cornice pallido e brutto
le squallidette e lacerate spoglie
dentro alcun vel, che sia di sangue asciutto,
pietosissimamente in braccio accoglie,
e mentre in acque il cor distilla tutto,
mentre tutta in vapor l’anima scioglie
gli fa del petto suo stringendol forte,
già cuna in vita, or sepoltura in morte.
90Stanchi già di mirar, ma non satolli
volgea cupido gli occhi Erode il magno,
e ’n quei torrenti sanguinosi e molli
dolce al cor si facea tepido bagno.
Già de’ vermigli e torbidi rampolli
omai tutto tranquillo era lo stagno,
se non quanto il crespava in lievi giri
auretta di mortiferi sospiri.