ARGOMENTO
Spinto da Erode il fier Malecche toglie
a vie più d’un bambin l’alma e al vita;
quegli intanto sul figlio e su la moglie
piange, e sente nel cor l’alma smarrita.
Il gran poeta ebreo la lingua scioglie
e i vecchi padri a rallegrarsi invita,
mentre lo stuol de gl’innocenti ei mira
ch’unito verso il limbo il volo gira.
Erode a notte invia il brigante Malecche a cercare i bambini sopravvissuti in giro per la città e farne strage (1-29)
1Carca di nembi e sovra l’uso intanto
mesta la notte al mesto dì successe,
onde de’ pargoletti in bruno manto
parve l’essequie accompagnar volesse,
pioggia versando gia, quasi di pianto,
da l’ombre sue caliginose e spesse,
e de’ confusi suoi muti lamenti
eran gemiti i tuon, sospiri i venti.
2Contento sì, ma non a pien contento
in palagio a ritrarsi il re ne viene,
e qual fucina che del dianzi spento
foco il calore ancor vivo ritiene,
contro i miseri pur l’empio talento
fresco nel cor nodrisce e ne le vene,
temendo non ne sien per l’altrui case
non picciole reliquie ancor rimase.
3Malecche a sé chiamò; tra’ più felloni
uom più fellone il mondo unqua non ebbe,
né se gli Antropofàgi e i Lestrigoni
risorgessero ancor forse l’avrebbe;
Malecche il gebuseo, che tra ladroni
nacque, e tra fere visse e fero crebbe,
difforme sì che le sembianze istesse
avria, credo, il Terror se corpo avesse.
4Oltre il mento pelato e ’l capo raso,
oltre le tempie anguste e ’l ciglio irsuto,
tre denti ha meno et ha schiacciato il naso,
e ne gli occhi ineguali il guardo acuto,
benché ’l miglior de’ duo rigato a caso
d’un gran fregio a traverso abbia perduto;
ne la fronte e nel volto ha per trofeo
il carattere greco e ’l conio ebreo.
5«Va’, spia» dice «per tutto e teco mena
squadron d’armati, e se nascosto e chiuso
trovi alcun vivo infante uccidi e svena,
segui in ciò del tuo stile il solit’uso».
«Farò (risponde). Ho ben dispetto a pena
d’esser steril di figli, e ’l Ciel n’accuso;
per altro no, se non perch’io vorrei,
sol per piacerti incominciar da’ miei».
6Mentre de’ suoi furori infra se stesso
lasciar depone Erode eterno essempio,
Malecche, a cui dal perfido commesso
l’ordine fu de lo spietato scempio,
i satelliti guida al fiero eccesso,
non di re crudo essecutor men empio,
ma di signor sì rigido e protervo
non devea più pietoso esser il servo.
7Sì come allor che dopo i tempi adusti
a librar l’anno, o bell’Astrea, ritorni,
e ’l sol con raggi temperati e giusti
matura i pomi e ’ntepidisce i giorni,
vanno schierati a depredar gli arbusti
a fila a fila turbini di storni,
onde, mentre calar lunge gli mira,
l’uve sperate il villanel sospira,
8tal dopo sé lasciando ovunque avisa
esser riposto alcun germoglio ebreo
traccia crudel di quella turba uccisa
lo stuol si sparge insidioso e reo.
I palagi e le rocche in quella guisa
che suol da gli Austri il combattuto Egeo,
s’odon sonar di fanciulleschi accenti,
di donneschi ululati e di lamenti.
9Non altrimenti che se prese et arse
l’alte mura vedesse e l’alte porte,
e le schiere nemiche intorno sparse
scalare i tetti e gridar «Sangue» e «Morte»,
parea l’afflitta Bettelem lagnarse
e percotersi il petto e pianger forte,
e sì alte mandò le voci a Dio
che da’ colli di Ramma il suon s’udio.
10Sotto la falce le tremanti biade,
sotto l’aratro i tenerelli gigli
cader soglion talor come sì come cade
presso la madre il numero di figli,
spandendo van l’ingiuriose spade
di sangue cittadin fiumi vermigli,
e la misera plebe a mal sì grave
altro salvo il morir scampo non have.
11Fra gli altri alberghi, in picciola casetta
l’oltraggioso Malecche a forza entrando,
vede duo figli a vaga giovinetta
l’uno a piè, l’altro in sen star riposando;
a l’un con liete nenie il sonno alletta
e col piè leggiermente il va cullando,
l’altro da fonti candidi e vivaci
le sugge il latte e più che ’l latte i baci.
12In cambio di saluto ecco veloce
a quel che dorme il traditor s’aventa,
alza la fiera e formidabil voce
e lo sveglia dal sonno e lo spaventa.
Cala la spada orribile e feroce
e ’n perpetuo letargo l’addormenta,
e gl’insegna a saper come vicini
hanno il sonno e la morte i lor confini.
13Poiché ne l’un le prime prove ha fatte,
nel poppato fanciullo il brando rota,
e da la nuca, ov’egli il fiede e batte,
gliel fa per bocca uscir tra gota e gota.
Quei sputa il cibo, e dentro il sangue e ’l latte
l’anima pargoletta ondeggia e nuota.
Scorre la punta ingiuriosa e fella
e conficca la lingua a la mammella.
14Misera avea colei di non perfetto
altro parto immaturo il ventre pieno:
passa il già nato e giunge ove al concetto
era vital sepolcro il cavo seno;
l’un chiuso in grembo e l’altro in braccio stretto
mòre, et ella in un punto anco vien meno.
Chi mai caso sì strano intese o vide?
Un colpo, un colpo sol tre vite uccide.
15Quindi in altra maggion s’apre l’entrata,
e ’ncontro a nobil giovane si spinge,
che la fresca ferita e non saldata
d’un circonciso suo ristagna e stringe;
et ecco alzando allor la mano armata,
nel sangue ch’ella asciuga il ferro tinge,
et a piaga di legge il braccio forte
accoppia a quel meschin piaga di morte.
16Allor colei per ravivarlo alquanto
porge la poppa al miserel che langue.
Versa in grembo a la madre il figlio intanto,
de la madre medesma il latte in sangue.
Versa del figlio stesso il sangue in pianto
sul sanguigno figliuol la madre essangue.
Lava il candido umor mentre il vermiglio
macchia il seno a la madre, il volto al figlio.
17L’abbandona ciò fatto, e passa audace
di stanza in stanza i più secreti ostelli.
Cerca i recessi e con lo stuol seguace
lini e lane rivolge e coltre e pelli.
In cavo letticciuol trova che giace
coppia di similissimi gemelli,
e l’una a l’altro in guisa era congiunto
che i gemelli del ciel pareano a punto.
18La forma è pari, è differente il sesso
de la mal nata e mal guardata coppia.
Vive in due corpi vari un spirto stesso,
una vita in due cor gemina e doppia;
natura ha in loro egual sembiante espresso
e pueril semplicità gli accoppia,
e qual Giano novello in duo diviso
hanno il letto commun com’hanno il viso.
19Quella cara union ruppe e distinse
Malecche, e disse: «O fortunata sorte,
ecco pur quell’amor ch’ambo vi strinse
sì dolce in vita, ancor v’unisce in morte.
Se somiglianti il ciel sì vi dipinse
non vo’ che l’un a l’altro invidia porte,
ma questo e quel come di par v’entraro
vo’ che del mondo ancor escan di paro».
20Ciò dice, e nel primier prima si cala
e con la forte incontrastabil destra
l’arrandella colà d’onde a la sala
l’aria e ’l lume introduce alta finestra.
Precipita col piè giù per la scala
l’altro, e la scala è d’una selce alpestra,
sì ch’ei viene a pagar, rotto e battuto
di sangue a ciascun grado ampio tributo.
21Parea ciascun con gli ultimi singulti
gemendo accompagnar l’essequie altrui,
quasi innesto reciso in duo virgulti
egli per lei languiva, ella per lui.
Così non rei sentiro e non adulti
la pena de gli adulteri ambidui;
ebber ne le prime ore e ne l’estreme
un ventre, un letto et un sepolcro insieme.
22Viensi dove modesta umil fanciulla
custode a duo bambin siede e compagna.
L’uno in conca dimora e l’altro in culla,
l’uno in lavacro tepido si bagna,
l’altro fra bianchi lini si trastulla,
ride per vezzo l’un, l’altro si lagna.
Nati già di duo ventri e d’un sol padre,
onde a l’uno è madrigna, a l’altro è madre.
23Quando la miserella entrato scorge
l’assalitor che d’improviso arriva,
lascia il figliastro entro la cuna e porge
soccorso al figlio, onde si salvi e viva;
prendelo in braccio incontanente e sorge
stupefatta, smarrita e fuggitiva.
Pur vèr l’altro fanciul ritienla a freno
pietà se non materna umana almeno.
24Corre, con quel che partorì da l’alvo,
verso colui che di scampar desia,
ahi folle, e le convien che quel che salvo
tolse pur dianzi a l’acque al ferro dia.
Malecche il fier con Barabasso il calvo
punì la pietosissima follia,
e fece ad ambo avante al suo cospetto
sepolcro il vaso e cataletto il letto.
25Vinta colei da la soverchia ambascia,
gela e trema nel cor, nel volto imbianca,
piombar nel suol si lascia, e già la lascia
a vista sì crudel l’anima stanca.
Quei, strangolato da la propria fascia,
si contorce e dibatte, e more e manca;
questi tra ’l latte e ’l pianto e ’l sangue e l’onda
svenato cade e soffocato affonda.
26Giunse ove poi di cittadine inermi
povera famigliuola era raccolta,
una fra lor ne gli anni suoi men fermi
imeneo stretta a pena avea disciolta,
ma di ben quattro assai leggiadri germi
fecondata la prima in una volta,
or in un anno sol fatta si vede
sposa, vedova, madre e senza erede.
27Duo di lor per il collo ha tosto preso
Malecche, un per le gambe, un per le braccia:
un ne lancia col calcio al foco acceso,
un battuto nel suol col piè ne schiaccia,
un ne tracolla ad una trave appeso,
un nel pozzo domestico ne caccia.
Così con vario universal tormento
ebbe ciascuna morte un elemento.
28Chi contar potria mai le varie spoglie
onde Morte sen gìa superba e ricca?
Qual dal tenero busto il capo scioglie,
qual da l’omero molle il braccio spicca;
quei del fiato a la gola il varco toglie,
quei nel fianco tremante il ferro ficca,
e fra rabbia e terror, fra doglia e lutto
il Furor con le Furie era per tutto.
29Braccia da’ busti lor tronche e recise
seminato hanno il suol, gole strozzate;
teste, quai da secure aspra divise,
quai con man rotte e quai con piè calcate.
Trescar morte veggendo in tante guise,
sé medesma aborrì la crudeltate,
né lasciava però d’esser crudele
ma ’l dispetto al suo tosco accrescea fele.
All’alba giunge alla reggia una masnadiero, racconta di come per errore abbiano ucciso il figlioletto del re (30-65)
30Et ecco già ch’omai si leva et esce
l’alba da l’Indo e ’l sol non molto è lunge,
e ’l ciel l’ombre co’ rai confonde e mesce,
e marito a la notte il dì congiunge.
Si rode Erode, e l’aspettar gl’incresce
tale stimolo ardente il cor gli punge;
sorge e riveste i regi arnesi, e toglie
l’aurata verga e le purpuree spoglie.
31Intanto il gran palagio ode repente
d’alti strepiti e fiocchi ulular tutto,
e di servi e di ancelle intorno sente
suoni di palme e gemiti di lutto,
et ecco arriva un messaggier dolente,
pallido in vista e d’atro sangue brutto,
ch’anelando e sudando in apparire
al re s’inchina e poi comincia: «O sire,
32un son io di color ministro indegno
cui de la fiera uccision commesso
fu iersera l’incarco, et or ne vegno
poco a te lieto e fortunato messo.
Lungo a narrar del tuo sublime sdegno
fora distintamente ogni successo,
istoria memorabile di cui,
vagliami teco il ver, gran parte io fui.
33Sotto il vessillo tuo, sì come imposta
da te stesso ne fu, partimmo noi,
duce e capo Malecche, e gimmo tosto
veloci ad essequir gli ordini tuoi.
V’era tal ch’era padre e pur disposto
ne venìa per gradirti a i danni suoi;
piani adunque n’andammo e taciturni
chiusi da l’ombre e da gli orror notturni.
34Presa fu la gran piazza e tutti i lati,
quinci e quindi sbarrando ambe le porte,
chiusi fur d’ogni interno e circondati
da custodi fedeli e guardie accorte,
acciò che altrui fra vigilanti armati
non potesse la fuga aprir la sorte.
Fece per tutto il capitano allora
squillar la tromba garrula e canora.
35E ’n virtù del regio editto,
a ciascun che per uso armi vestisse
che de l’albergo e del confin prescritto
in guardia fuor de la cittate uscisse;
né mentre un reo di capital delitto
cercando ei giva, altro impedirlo ardisse,
un reo che quivi occulto in grande impresa,
avea del re la maestate offesa.
36Alcun non fu de’ cittadin né lento
ad essequir né ad ubidir ritroso.
Quindi di borgo in borgo in un momento
si spiò de’ bambin per l’aere ombroso;
e sappi che del numero già spento
trovammo assai maggior l’avanzo ascoso,
onde fu con diverse aspre ferite
rotto il tenero stame a mille vite.
37Fuorché strida e sospir, pianti e singhiozzi
altro non si sentia per ogni parte.
Vedeansi entro gli alberghi immondi e sozzi
trionfar Morte orribilmente e Marte.
Colà fascie squarciate e membri mozzi,
qui nel sangue nuotar viscere sparte.
Se ciò ch’allor fec’io silenzio or copre,
bello è il tacer là dove parlan l’opre.
38Stamane poscia in sul ritorno, quando
già l’eccidio notturno era fornito,
impensato accidente e miserando
ne si fe’ incontro e caso empio inaudito.
Deh, stato fusse il tuo real commando
da’ tuoi servi, signor, meno ubidito!
Ma che sapea semplice turba? e quale
colpa aver può d’involuntario male?
39Troppo la nostra man fu presta e pronta,
troppo la voglia a soddisfarti intensa.
Ebri di sangue i cori, e d’ira e d’onta
ciechi eran gli occhi, e cieca l’aria e densa.
Fu scusabile error». Così racconta,
e quei lega la lingua e tace e pensa,
ma lo stimula Erode, e quei, risciolta
la voce, il parlar segue, e ’l re l’ascolta.
40«Mentre esseguito a pien l’alto statuto,
sì come io dissi, il nostro stuol venìa,
ne venne ad incontrar scudiero astuto,
secreta di Malecche e fida spia,
e ne scorse colà dove veduto,
disse furtivamente aver tra via,
con duo bambini avolti entro la gonna,
fuggir in chiusa parte ignota donna.
41Non lunge dunque da quest’alta reggia
verso quel lato onde ’l real giardino
di sovra ’l fiume il Libano vagheggia,
presso un uscio ne trasse empio destino.
Vago pur di saper ciò ch’esser deggia,
il nostro condottier si fe’ vicino,
là ve’ tra legni perforati e scissi
luce per noi si vide e voce udissi.
42Femina v’era dentro, e parve in vista
lo spavento portar dipinto e ’l duolo,
e di duo fanciullin, timida e trista,
l’un si tenea nel sen, l’altro nel suolo.
Voce tremante e di sospir commista
dal cor traendo, a l’un dicea – Figliuolo,
figliuol come ti scampo? ove t’ascondo?
e chi m’apre l’abisso o ’l mar profondo?
43Donne un tempo Samaria ebbe sì felle,
fama è tra noi, che da la fame astrette
risepelir ne le materne celle
carni ch’eran di lor nate e concette.
Lassa, e perché ciò che per rabbia a quelle
or a me per pietà non si permette,
e celar voi da quelle ingorde Arpie
ne le viscere mie, viscere mie?
44Ma con l’essempio già di tanti eccessi,
figlio, ben mi vedresti il seno aprire,
quando in tal guisa poi speranza avessi
la tua vita campar col mio morire.
Così l’anima aprirmi anco potessi,
e ’l corpo tuo con l’anima coprire,
ch’io non sarei di ricettarti avara
dentro l’anima stessa, anima cara -.
45E così ragionando il pargoletto
c’ha in braccio entr’una veggia ampia e capace
che del licor di Bacco era ricetto
non del tutto ancor vòta, asconde e tace.
Poi sospira e soggiunge: – A te commetto,
vaso fedele, ogni mia gioia e pace;
tu ’l mio tesor fra tanti fieri orgogli
cortese almen depositario accogli -.
46Oltre seguir volea, ma si rivolse
del nostro duca a l’impeto la voce,
ch’urtò la porta, poiché ruppe e sciolse
i serrami e le sbarre, entrò feroce.
L’un ne l’urna appiattò, l’altro s’accolse
colei nel grembo, indi fuggì veloce
ove di quell’albergo era nascosta
la camera più interna e più riposta.
47Quivi l’ascose, e ben sottrarlo allora
potea, volendo, al sovrastante male
s’aperto avesse altrui senza dimora
di cui si fusse il fanciullino e quale,
ma sperò forse il suo più caro ancora
prima salvar dal rischio aspro e mortale,
o con inganno almen spietato e scaltro
far l’uno al fin vendicator de l’altro.
48Meraviglia fu ben ch’a noi non fosse
nota costei, ma tra per l’aer bruno
e per l’alto terror che la percosse,
non valse allora a ravisarla alcuno;
oltre che dal furor che ne commosse,
fatto cieco e baccante era ciascuno,
e ’l vederla poi fuor del regio tetto
ne tolse del gran caso ogni sospetto.
49Malecche dunque ancorché espresso intanto
sapesse il loco ov’era il furto ascoso,
per riportar d’ogni fierezza il vanto
sì come aspro che egli era e dispettoso,
volse, gioco di lei prendendo alquanto,
spaventevole in atto e minaccioso
schernir pria ch’uccidesse i cari pegni
con astuzia crudele i suoi disegni.
50Et ecco il braccio e ’l piè contro le move
e le straccia le vesti e straccia i crini.
– Dimmi, – dice – malvaggia, or dimmi dove
dove dianzi celasti i duo bambini -.
– E tu, da la cui destra il sangue piove,
dì – dic’ella – ove son tanti meschini?
tanti di tante madri occhi e pupille?
Tu cerchi di duo soli et io di mille.
51Fusse in grado a le stelle, o cari figli,
ch’a mio talento, in mia balia v’avessi,
o qual nido v’accoglie e quali artigli
dal mio sen vi rapiro, almen sapessi,
che fra ceppi e catene, armi e perigli
se flagellata in vive fiamme ardessi,
ma questo cor che luce altra non vede
non spoglierei de la materna fede.
52Figli, deh qual fortuna o pur qual loco
vi possiede, infelici, e vi nasconde?
V’ha forsi, lassa, inceneriti il foco?
o sepolcro vi dier l’acque profonde?
cibo a i cani, a gli augelli? o fatto gioco
siete de’ venti instabili e de l’onde?
o col sangue innocente estinta avete
de le spade barbariche la sete?
53Estinta? Ahi no, del barbaro inumano
son l’ire ancor, per quel ch’io veggio, ardenti -.
Qui l’incalza Malecche e dice: – In vano
ciò negar non puoi, negar mi tenti.
Stolta fé, pietà folle, amore insano
occultàr quel che palesar convienti.
Violenza di ferro a viva forza
pietoso affatto in cor materno ammorza.
54Tu, qual madre magnanima et ardita,
quel ch’è pur noto appalesar non vuoi,
e sprezzar morte e non curar la vita
ti fa forse l’amor de’ figli tuoi.
ma questo stesso amor move et invita
Erode ancora a provedere a i suoi -.
Così le dice, la minaccia, et ella
con audacia viril freme e favella.
55- Pommi tra ’l foco e ’l ferro, ardi se sai,
uccidi pur: morir mi fia gran sorte.
Se spaventarmi vuoi più che non fai,
minacciami la vita e non la morte -.
Mentre parla così, vie più che mai
ostinata in suo cor la donna forte,
ecco il primo fanciul da l’urna chiusa
con voce pueril se stesso accusa.
56Rise Malecche, e preso il doglio il trasse
per lo palco rotando e ne fe’ gioco,
ma però che di ferro ha i cerchi e l’asse
danneggiar non si può molto né poco.
Vuol egli al fin provar s’almen bastasse,
ciò che ’l braccio non valse, a fare il foco:
nel foco il caccia, e fa che versi e stilli
misto il sangue con vin per cento spilli.
57Udito avrai del tauro d’Agrigento,
quando del rame suo concavo e pregno
ne’ muggiti non suoi sparse il lamento
del fiero suo fabbricatore ingegno:
così ne l’apprensibile elemento,
alimento infondendo il cavo legno
impinguava la fiamma, e fore intanto
n’uscia fra duo licor confuso il pianto.
58È presente a tal vista, e tanta rabbia
nel petto allor la genitrice aduna
che sembra orrida tigre a cui tolt’abbia
il cacciator d’Armenia i parti in cuna,
quando con lieve piè l’ircana sabbia
trascorre in vista minacciosa e bruna,
e fa sospinta da crudel pietate
tutto d’urli sonar l’alto Nifate.
59Tosto a tor l’altro infante il passo gira,
e ’l conduce fra noi quella infelice,
che de l’orrenda e dispietata pira
onde ’l primo è fatt’esca, è spettatrice.
In pari incendio di pietate e d’ira,
tra sdegnosa e dolente avampa, e dice:
– Per farlo, o crudi, incenerire a pieno
vi bastava riporlo in questo seno,
60là dove quasi in immortal fornace
sue faville ognor vive Amor mantiene.
Ma se lo strazio altrui tanto vi piace
e perduta una parte ho del mio bene,
rifiuto l’altra, a voi la dono in pace;
ben ne l’avanzo incrudelir conviene.
Prendetel dunque, ond’io d’entrambo priva
resti, e se morto è l’un l’altro non viva -.
61Spada a quel dir, di sangue ancor fumante,
da cui non so non men crudel che forte
vibrare io vidi, e ’l rivelato infante
mandar con cento e cento punte a morte,
onde dubbiosa l’anima fra tante
piaghe, ch’a la sua fuga aprian le porte,
non sapendo per qual prender l’uscita
sul morir lungo spazio il tenne in vita.
62E la perfida allora: – Avrò pur io
e de la patria mia dolce e diletta
fatta in un punto sol (disse) e del mio
sventurato figliuol degna vendetta.
O servi del tiranno iniquo e rio,
or a voi sol di vendicar s’aspetta
nel sangue reo de la fallace Albina
de la casa real l’alta ruina.
63M’uccidete il mio cor, ma non andrete
troppo lieti però di mia sventura:
l’ultimo che nel sen morto m’avete
figlio m’era d’amor, non di natura.
Riconoscere Albina omai devete,
ch’ebbi Alessandro, il regio pegno in cura;
quegli ch’or là nel suol palpita e more
quegli è del nostro re l’unico amore -.
64Così diss’ella, e pien di mal talento
per oltraggiarla il capitan si mosse,
ma ’l pugnal (né so donde, in un momento
tratto, o come da lei trattato fosse)
ne la man feminil senza spavento
strinse con valor maschio e lui percosse.
Io io ’l vid’io del proprio sangue tinto,
et a pena il credei, cadere estinto.
65S’al gran caso restò di nostra schiera
attonita ogni mente e sbigottita,
pensi ciascun ch’aspra e novella e fiera
inaspettatamente abbia sentita.
Presa è l’iniqua balia, e prigioniera
già de’ nostri si guarda e serba in vita,
però ch’una sol morte a tanto danno
parve piccola a pena e breve affanno».
Sopraggiunge Doride, moglie di Erode, e si uccide sotto gli occhi del marito, che si pente della propria ferocia (66-92,6)
66Il fin non aspettò di questi accenti
il tiranno superbo e furibondo,
e parve in atto il regnator de’ venti
quand’apre l’uscio al carcer suo profondo,
e sferra a battagliar con gli elementi
i guerrieri del mar, furie del mondo.
Corre egli in sala et ecco a pena giunto
Doride la reina arriva a punto.
67A punto allor de la secreta soglia
de la camera uscìa la sventurata,
da lacrimoso coro e pien di doglia
di donzelle e di donne accompagnata,
che del fanciul la sanguinosa spoglia
su le braccia pur dianzi avean portata,
singhiozzando e gridando ella venìa
«Dove, dov’è il mio ben, la vita mia?».
68Qual da poi che perduta aver s’accorse
la bella figlia in su la spiaggia etnea
accese i pini infuriata e corse
già delle spiche l’inventrice dea,
e co’ rapidi draghi il ciel trascorse
stimulata dal duol che la traea,
cercando pur la vergine smarrita
che fu in un punto sol vista e rapita,
69tal ne venìa l’addolorata, e poscia
che vide il caro busto al cor le nacque
tanta pietà che, da soverchia angoscia
impedita fermossi, afflitta, e tacque.
Forato il ventre e l’una e l’altra coscia,
sdruscito il picciol corpo a piè le giacque;
tempestato di piaghe era, a vedello,
con cent’occhi sanguigni Argo novello.
70Oh come allor de’ duo vivi zaffiri
videsi oscuro il tremulo sereno!
Come, torcendo i languidetti giri,
disciolse a i pianti, a i dolci accenti il freno!
Oh Dio di che dolcissimi sospiri
ferì le stelle e si percosse il seno,
e svelse l’oro e lacerò le rose
onde i crini e le guancie Amor compose!
71Al contraffatto volto il volto appressa,
lo stringe, il bacia e sovra lui si getta.
«Chi t’ha» dicea «sì concia, o di me stessa
sembianza estinta, imagine trafitta?
qual sì gran colpa ho contro ’l Ciel commessa
ch’io deggia in cotal guisa esserne afflitta?
così così ti dà d’oro e d’elettro
il tuo buon genitor corona e scettro?
72O fera de le fere assai più fera,
amano i figli ancor le tigri ircane,
e ’n quest’unico tuo, qual ria Megera,
ti mosse a incrudelir qual rabbia immane?
Sfogasti pur la ferità severa
de le rigide tue voglie inumane.
Godi, e sieno il sangue e i pianti miei
vincitor trionfante i tuoi trofei.
73Dimmi, spirto di serpe, anima d’orso,
dimmi cor di diaspro e di metallo,
in che poté con pueril discorso
fallir giamai, che non conobbe il fallo?
Com’esser può che de l’età precorso
abbia l’arbitrio il debito intervallo,
sì che devesse in sua stagion non piena
l’error futuro anticipar la pena?
74Uom te non già, né d’uman seme nato
creder vogl’io, te la crudele e sorda
Sirte produsse, o l’Ellesponto irato,
o la Sfinge di sangue immonda e lorda,
l’empia Chimera o Cerbero spietato,
o l’infame Cariddi o Scilla ingorda;
e ti nodrì, là fra lo stuol vorace
de’ dragon di Cirene, Arpia rapace.
75E tu tel vedi e tel soffri, o Cielo?
Figlio, et io vivo? e con la destra ardita
pur indugio a squarciar di questa il velo,
che sol per te mi piacque, afflitta vita?
No no, che se di morte orrido gelo
preme la guancia tua fresca e fiorita,
non convien che la mia, languida e priva
d’ornamento e splendor, rimanga viva.
76E te seco troncando ogni mia speme,
chi già l’esser ti diè, l’esser t’ha tolto,
non mi torrà ch’almen ne l’ore estreme
con lo spirto io ti segua errante e sciolto.
La spoglia mia col tuo feretro insieme
n’andrà, né senza il ramo il fior fia colto.
Così lo struggitor de’ miei conforti
autor ha d’una strage e di più morti.
77Deh quanto era il miglior se ’l dì ch’apristi,
o pargoletta mia tenera prole,
al pianto i lumi dolorosi e tristi
chiusi gli avessi eternamente il sole!
Deh quanto era il miglior se quando uscisti
a trar vagiti in cambio di parole
dato, pria che l’umor di questo seno,
t’avessi di mia man mortal veneno!
78Ma questo sen, di sé medesmo avaro,
troppo a torto ti fu, stolta ch’io fui!,
che darti non dovea, se già sì caro
gli era il tuo peso, ad allattare altrui.
Or al tuo vel, non men ch’amato amaro,
scarso non fia de’ ministeri sui;
vo’ che con larga usura al figlio essangue
quanto negò di latte or dia di sangue».
79A queste note intenerissi alquanto
di quel rigido cor l’asprezza alpina.
Pietate il punse e se ne trasse il pianto,
affetto novo a l’anima ferina.
Snudato ella un coltel, che sotto il manto
vestiva, al cinto appesa aurea guaina,
ferì se stessa, e cadde in su la porta
smorta in un punto e tramortita e morta.
80Non ebbe allor la feminil famiglia
tempo da ritener l’irata mano,
Erode stesso con bagnate ciglia
ratto vi corse, e la soccorse in vano.
Di dolor, di stupor, di meraviglia
tremò, gelò, quasi insensato, insano.
Al rigore, al pallor statua rassembra,
già di sasso ebbe il core, or n’ha le membra.
81Barbaro re, re folle, or che diresti?
Vedi quanto è fallace uman consiglio:
trovi a punto colà, dove credesti
trovar lo scampo, il tuo mortal periglio.
Il figlio e ’l regno assicurar volesti,
ecco perdi in un punto il regno e ’l figlio;
tua sentenza in te cade e da te stesso
fu punito l’error pria che commesso.
82Come membro talor tronco repente
o da ferro crudel traffitto al vivo,
non già subito fuor manda corrente
il sangue, ancor smarrito e fugitivo,
ma tosto, poi che si risente e sente
l’offesa e ’l duol, versa vermiglia un rivo,
e, quasi onda da fonte, apre la vena
fuor per la piaga a la sanguigna piena,
83così tardi riscosso il rio tiranno,
cui l’improviso duol la lingua strinse,
poi che diè loco al dilatato affanno,
ruppe i silenzi e i gemiti distinse,
e da gli occhi rivolti al proprio danno
quasi sangue de l’alma il pianto spinse,
e cadde là dove la moglie e ’l figlio
parean scogli di marmo in mar vermiglio.
84«Ecco a che fiera vista, occhi dolente,
(che più state a serrarvi?) il Ciel vi serba,
per dare il varco a i tepidi torrenti
forse aperti vi tien la doglia acerba.
Alessandro, Alessandro ohimè, non senti?
Fior de l’anima mia reciso in erba,
Dori, Dori non odi, e non rispondi?
deh, perché de’ begli occhi il sol m’ascondi?
85Misero, quale in prima e qual dapoi
pianger degg’io? te, figlio, o te, conforto?
Te spenta in sul fervor de gli anni tuoi,
o te morto al natal, nato a la morte?
Piangerò, lasso me, me stesso in voi,
piangerò ’l proprio mal ne l’altrui sorte.
Dunque del mio diadema il lucid’ostro
sarà figlio e consorte al sangue vostro?
86O di quanto crudel, misero e mesto
padre, mal nato figlio e sotto avara
stella concetto, è questo il trono? è questo
lo scettro imperial ch’ei ti prepara?
O che apparecchio tragico e funesto
il letto marital cangiato in bara,
le faci ond’onorar dopo qualch’anno
le tue nozze sperai, l’esequie avranno.
87Forsennato mio senno, e qual ciò volse
o tuo fallo o mio fato? e come avenne?
Sconsigliato consiglio, e chi mi tolse
la mente? e come cieca ella divenne,
sì che te sol quando l’editto sciolse
al gran rischio sottrar non le sovenne?
Ma fu vostro tenor luci rubelle,
fiamme inique del Ciel, perfide stelle.
88Anzi fu pur vostr’opra, empie infernali
Furie simulatrici. Anzi commisi
sol io l’alto misfatto, io de’ miei mali
fui sol fabro nocente, et io l’uccisi;
da me l’onor de’ freggi miei reali,
la mia vita di vita, ohimè, divisi,
che dovea meco e dopo me nel regno
e de la regia stirpe esser sostegno.
89Or qual vendetta e qual, figlio infelice,
figlio infelice d’infelice madre,
che basti ad appagar sua rabbia ultrice
ti pagherà lo sventurato padre?
Non la maligna e perfida nodrice,
non de’ miei danni le ministre squadre,
non s’anco a l’ombra tua mi sia concesso
col regno mio sacrificar me stesso.
90Re più dirmi non vo’, padre non deggio,
padre e re, se non fui, m’appello a torto.
Fui mostro infame, infernal furia e peggio,
indegno er’io di te, poiché t’ho morto.
Ahi quanto or, ché del mal tardi m’avveggio,
a gli uccisi fanciulli invidia porto!
E ben oggi dovrebbe in me fornita
esser come la gioia anco la vita.
91Potessi almen quell’animette ignude
ch’io spogliai dianzi, or rivestir di velo,
per di novo spogliarle, et a le crude
fere espor le lor membra, al vento, al gelo.
E se pietoso il Ciel l’accoglie e chiude,
per sempre esiliarle anco dal Cielo,
che poco fora al mio dolor profondo,
e chiamassemi poi crudele il mondo.
92Ahi chi mi reca in man la fiera spada
che troncò le mie gioie, acciò che sotto
l’armi onde cadde il figlio il padre cada,
né resti intero un fil se l’altro è rotto?».
Così doleasi, e ’ntanto ogni contrada
piangea l’alto sterminio al fin condotto.
Ma già i felici spiriti immortaliLe anime degli infanti giungono al limbo, sono accolte da un inno di Davide (92,7-113)
vèr l’elisia magion spiegavan l’ali.
93Sì come là per entro i folti orrori
de’ boschi ombrosi in su’ sereni estivi
vacillando con tremoli splendori
volanti animaletti e fuggitivi
sembrano a’ peregrini et a’ pastori
animate faville, atomi vivi,
onde dal lume mobile e mentito
il seguace fanciul spesso è schernito;
94o com’api sollecite et industri
per l’odorate d’Ibla aure novelle,
nel vago april, fra rose e fra ligustri
vanno a libar queste dolcezze e quelle,
onde poscia, architetrici illustri,
nobil lavor di ben composte celle
moli ingegnose e fabriche soavi
di bianche cere e di odorati favi,
95così da’ veli lor tutte contente
sen gian quelle beate anime sciolte,
e fu chi le mirò visibilmente
in un bel nembo di fiammette avolte,
incoronate di diadema ardente,
in lieto groppo, in una schiera accolte,
fatto di sé medesme un cerchio grande
agitar balli et intrecciar ghirlande.
96Sparver turbini e nubi, e il ciel sereno
con chiare stelle a i lor trionfi arrise.
Austro e seco Aquilon con l’ali a freno
sì vaghe danze a vagheggiar s’assise.
Con festevoli plausi a l’aria in seno
scherzàr l’aure e gli augelli in mille guise.
Colse l’Aurora le sanguigne brine
e ne fe’ gemme al seno e rose al crine.
97Riser gli abissi, e la prigion di morte,
che de gli antichi eroi l’ombre chiudea,
le tenebrose sue ferrate porte
indorate a quei lampi intorno avea.
Quivi il real poeta, il pastor forte,
che fanciul rintuzzò l’ira getea,
posata allor di Lete in su la sponda
con la cetra e lo scettro avea la fionda.
98E i negri prati de l’opaca riva,
ne’ cui sterili rami i mesti augelli
ammutiscon mai sempre, impoveriva,
per trecciarsene il crin, di fior novelli,
quando per l’aria d’ogni lume priva
gli ferìr gli occhi i lucidi drappelli.
Prese egli il plettro, indi ’l furor concetto
con sì fatta canzon versò dal petto:
99«Liete, liete novelle, ecco i messaggi
de la celeste a noi luce promessa.
Vedete i puri e vermiglietti raggi
precursori del dì ch’a noi s’appressa.
Tosto termine avran gli antichi oltraggi,
tosto ne fia la libertà concessa.
Già spunta il sol che le nostr’ombre indora,
chinianci tutti a salutar l’aurora.
100Pace a voi, gloria a voi; voi pur giungeste
de la sperata al fin cara salute,
sospirati corrier. Ma che son queste,
queste che son sì strane aspre ferute?
e chi segò le gole, e chi le teste,
ohimè, trafisse di punture acute?
ahi qual petto, ahi qual cor fu duro al pianto,
ahi qual mano, ahi qual ferro ardì cotanto?
101E voi, chi tenne voi dentro voi stesse,
rovinose procelle, allor ristrette?
Venti, chi v’affrenò? chi vi ripresse
da l’usato vigor, nembi e saette,
sì che impunita l’opra ir ne devesse
dal giustissimo Dio de le vendette,
l’opra da far tra l’ira e l’odio eterno
stupir le Furie e vergognar l’Inferno?
102O sacri, o santi, o cari, o benedetti
martiri trionfanti, invitti eroi,
invitti eroi dal sommo Duce eletti
a morir pria per lui ch’egli per voi;
colti da dura man pomi acerbetti,
intempestivi fior de gli orti suoi;
del proprio sangue rugiadose e nate
tra le spine del duol rose odorate;
103teneri gigli, e gelsomini intatti
e di purpureo nettare conditi,
a i giardini di Dio serbati e fatti
per arricchir gli eterni alti conviti;
rami a forza schiantati, a forza tratti
dal tronco genital che v’ha nodriti;
piccioli e rotti sassi ove la santa
Chiesa novella i fondamenti pianta;
104verginelli che ’n fronte a noi dolenti
il nome «Redentor» scritto portate;
semplici pecorelle et innocenti,
candidette colombe immacolate;
olocausti purgati, ostie lucenti,
nel proprio sangue e de l’Agnel lavate;
vittime prime e da rio ferro aperte
al Re de’ santi in sacrificio offerte,
105venite, illustri spirti, anime belle,
venite felicissimi bambini,
fresche a recarne omai certe novelle
de gli aspettati giubili vicini.
O stille, oh sangue, o stille no ma stelle,
o sangue no ma porpore e rubini,
gemme degne di far ricca e pomposa
la corona di Cristo e de la sposa;
106piaghe felici, anzi sugielli e segni
del sofferto martir vivi e vivaci,
e di gloria e d’onor securi pegni,
e di grazia e d’amor lingue loquaci,
or chi sarà che voi ricusi e sdegni
lavar co’ pianti et asciugar co’ baci?
E chi fia che non bèa sì dolci umori
in coppa di pietà smembrati Amori?
107De gli spruzzi desia del sangue vostro
in vece de’ suoi lumi il Ciel fregiarsi.
Torrebbe volentieri di fin ostro
la luna il volto candido a macchiarsi.
In sì chiaro ruscel, nel sommo chiostro
braman le stelle e gli Angeli specchiarsi.
In sì bel mare ambizioso vole
imporporarsi et attuffarsi il sole.
108O carissimi gemiti e sospiri,
lacrimette soavi e lusinghere,
dal cui stridor de’ lor canori giri
l’alto concento imparano le sfere;
o dolcissimo duol, da’ cui martiri
tutte le gioie sue tragge il Piacere,
o bellissima morte e ben gradita
cui di pregio e d’onor cede la vita.
109Deh quanti in Ciel v’ha preparati e quali
spiritelli amorosi, alme leggiadre,
nel Campidoglio empireo archi immortali,
chiare palme e corone il sommo Padre.
E qual gloria maggior, forze infernali
domar, vincer re forte e armate squadre,
disarmati campion, nudi guerrieri
fatti del figlio in un scudi e scudieri?
110Tutto colà ne la stellata corte,
dove chi vi mandò trionfa e regna,
ciascun di voi de gli Angeli consorte
spogli di sua vittoria avrà ben degna.
Quivi de l’Innocenza e de la Morte
spiegar la bianca e la purpurea insegna
vedrenvi, e per trofeo fra quelle schiere
far de le rotte fascie alte bandiere.
111O ne’ tormenti ancor felice stuolo,
che più che sangue assai latte spargesti,
ti fu principio e fine un giorno solo,
nel primo dì l’ultima notte avesti,
ti convenne provar la morte e ’l duolo
quando la morte e ’l duol non conoscesti,
e con lacere vele il legno assorto
a pena entrato in mar portasti in porto.
112Noi noi, dir poi potrete, atleti inermi
caduti in lutta, in grembo a Dio n’alzammo;
noi de la lattea via lattanti germi,
d’orme sanguigne il bel candor segnammo;
noi co’ piedi beati anzi che fermi,
anzi le sfere che ’l terren calcammo;
noi del tenero sciolto e picciol velo
abbiam prima che ’l sol veduto il Cielo».
113Così cantava, e de le candide alme
fur le voci e l’ombre a un punto rotte.
Levaro i vecchi padri al ciel le palme,
sperando il fin di così lunga notte,
e de’ cari bambin le lieve salme
gian per l’orror di quelle ombrose grotte
portando in braccio, e ne’ lor volti santi
iteravano a prova i baci e i pianti.