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L’eroico

di Giovan Battista Pigna

Eroico

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 27.09.15 21:15

ARGOMENTO
Tosto che il primo principe da Este
con lo sfrenato corridor cadeo,
l’Angel di Marte al gran Padre celeste
sue ragion note per salvarlo feo;
e il pregò sì che man pietose e preste
sentì questo Signor nel caso reo;
e scese il nunzio dal secondo giro
acciò che a i suoi levasse ogni martiro.

Proemio (1)

1Qual celeste virtù del gran Monarca
avesse di pietà le voglie accense
sì ch’aggiungesse fila a la sua Parca
d’Ercol secondo il primo figlio estense
quand’ella a lui di lunga vita parca
spintolo dal corsier quasi lo spense
tu, ch’a la mente eterna t’avvicini,
dimmi, intelletto fuor de’ tuoi confini.

Le sfere assistono alla caduta da cavallo di Alfonso d’Este (2-9,4)

2Era dal disleal destrier a pena
il generoso e gran signor caduto,
né il capo ancor ne la fallace arena
impresso avea col colpo in terra avuto,
che dal mondo la parte alma e serena
ratta si mosse per recargli aiuto,
e trasse d’ogni ciel l’alte sembianze
l’Angel primier di Marte a le sue stanze.

3L’Arcangel Marzial nel quinto albergo
gli eletti spirti ragunò sì tosto
ch’io sì veloce il mio pensier non ergo
là dove il segno del suo strale è posto.
Qui inanzi non si venne e non da tergo,
né fu a la mossa lor tempo interposto,
ma in un istante giunti al sommo Padre
drizzàr le già da sé disposte squadre.

4Sotto i lucenti rai del gran pianeta
l’effigie del leon nemeo si scorge,
e nel lor mezzo la ben saggia e lieta
prima età del buon principe risorge,
con la ragion che il mal oprar gli vieta,
e la sua volontà l’onesto porge,
e con quei ricchi et onorati pregi
ch’empiono di scienza i petti egregi.

5Da l’altra parte il giovenil furore
regge sì senza fren la dea di Delo,
che nol trasporta in van desio l’ardore,
e l’infiamma a pietà debita al Cielo.
Con la dea manda il Cancro il suo vigore
al voler casto et al devoto zelo,
poi reale si fa sotto il gran lampo
del felice signor de l’altro campo.

6Di Croto e d’ambi i Pesci i segni prende
nel suo governo il gonfalon di Giove,
in cui sopra d’un scettro un occhio splende
che i re tien desti et a giustizia move;
e che quest’alma generosa accende
a eccelsi onori et a mirabil prove
e a magnanimo fin, la cui fermezza
di fortuna e di morte i dardi sprezza.

7Quanto sia liberal, quanto benigno
Venere mostra al Tauro e a la Bilancia:
per opra sua baleno alcun maligno
giù da le stelle in lui mai non si lancia,
e come dentro il fa candido cigno,
dà al grave aspetto così grata guancia
che col sembiante altier la bella faccia
non men che il gran valor l’anime allaccia.

8Ecco nel fin l’antico re Saturno
di perfetta virtù verace imago;
ecco Deucalion col vaso eburno
da lui guidato, e Pan, ch’è mezzo drago:
questi al figliuol d’Alcide eletti furno
perch’ei del sommo ben fosse ben vago;
sopra il grado mortal co i gesti suoi
questi il ripongon tra i sublimi eroi.

9Tu, Marte, meni sotto il tuo stendardo
il Montone e lo Scorpio inanzi a loro,
sei primo perché lui forte e gagliardo
sempre inviasti al sempre verde alloro.
Ma di Mercurio a dir perché son tardo?Mercurio e l’Angelo della guerra si recano da Dio per pregare la salute di Alfonso (9,5-47)
qual cagion mosso l’ha da i fregi d’oro?
Perché libero nunzio esser volea,
diè a la luna i Gemelli e al sol l’Astrea.

10Sciolto volando al cerchio empireo ascese
per far che si potesse adito avere,
e del buon genio con l’idee distese
sì che ciascuna insegna avea tre schiere,
l’Arcangel dietro a lui la strada prese
verso il Motor de le superne spere,
e de le ierarchie ne’ sommi cori
saluto umil mandò tal voci fòri:

11«O Padre, o Re del Cielo e de la terra,
che il duro abisso con pietà vincesti,
perché il tuo aspetto il timor nostro atterra,
per quel principe buon che tu ne desti,
per quel che il Po nel corno manco afferra
che parlar non possiam, non siam sì meste,
né tanto ne spaventa il gran periglio
che non ci affidi il tuo sereno ciglio.

12Dove la Francia il Liger grosso bagna,
e in Ponente a voltar più sforza l’onda,
dove là col Caraute s’accompagna
il Cenoman, su la sua destra sponda,
l’aria, l’acqua e la riva e il ciel si lagna
acciò che il caso rio non ti s’asconda,
e grida e chiama il popol tuo fedele
te pietoso e Fortuna empia e crudele.

13Qui steso giace, a pena vita avendo,
l’animoso signor sopra la sabbia,
e gli è sul dosso (o spettacolo orrendo,
da far stringer i cor non che le labbia!),
un feroce destrier che va scotendo
i piè rivolti in suso, e balza e arrabbia;
e benché armato sia, così l’accora
lo spirto oppresso che convien che mora.

14Convien che mora in questa etate acerba
questo buon cavalier non giustamente,
se la tua destra nol difende e serba
contra morte importuna, assai possente.
Dunque s’ucciderà sì tener’erba
che de’ frutto produr da la semente
di che de’ il mondo e la tua santa fede
con degno immenso acquisto esser erede?

15Ché s’or de’ suoi verd’anni in su ’l fiorire,
ch’avuto han sol del sol ventidue corsi,
de le bell’opre al colmo ha potut’ire,
e tutti i ben di qui vi son soccorsi,
che sarà poi quando il vedremo seguire
e inanzi a sé (perch’è già a gli altri) porsi?
E ne morrà c’ha da aver vita e avanza
tutti i mortali e sé con tal speranza?

16Oltre al tempo e al valor che sormontando
ne van, benché non sia lor forza eguale,
vi è il modo ingiusto di morir, ch’è quando
manca chi può né può mostrar che vale,
e arditamente contrastar col brando,
e soffrir ogni colpo aspro e mortale,
dando segni d’invitto e coraggioso,
fin che spiri durar, disposto et oso.

17Né alcun lieve profitto indi s’accoglie,
non che publico ben di somma essenza,
qual’or gli squarci le terrene spoglie
colei c’ha vita quando altri n’è senza,
perché saziar così le ingorde voglie
non de’ se non in degna alta occorrenza,
né vi è cagion perché questo tuo servo
debba perir con questo fin protervo.

18Perché passando l’Alpi in vèr l’occaso
lasciato ha il popol suo come funesto?
Perché in ozio sicur non è rimaso,
senza porsi a periglio manifesto?
L’aver salito in importante caso
uno sfrenato corridor gli è onesto?
L’aver il ciel per sé cotanto amico
di sé far il dovea così inimico?

19Forza è, Signor, che il falso a terra caggia
quando il ver che gli è opposto in luce vegna:
egli partì per grande impresa e saggia,
di lui sol qual del sol la luce degna,
perché scorgeva che suoi figli in piaggia
trar volea l’aria di tempeste pregna,
e in un col senno, acciò che pronto fusse,
il preveder e ’l proveder ridusse.

20A l’intelletto e a i piè l’ale aver parve
e del frutto de l’ape i labri sparsi,
sì tosto consigliossi e tosto apparve
in corte, e disse ben che dovea farsi.
Tra tanto andando sotto dure larve
gli amici paladini ad incontrarsi,
e ardendo di mirar sua leggiadria
tener l’invito lor fu cortesia.

21E s’egli è andato apertamente a’ rischi,
a la fortezza ir non si pote appresso
che l’ardir col periglio non s’invischi,
e d’alcun mal non vi sia segno espresso.
Che poi l’arena al precipizio incischi
quel palafren, che in grazia gli fu messo,
e di ch’ei conoscenza unqua non ebbe,
chi in simil caso mai saputo avrebbe?

22Anzi senza giostrar farne la prova
volse ben prima, entrando in campo chiuso;
ma il buon giudicio altrui là già che giova
quando vien stabilito altro qua suso?
Perché impossibil è, più non ritrova
schermo tal che non sia di sella escluso,
tre volte il rio destrier ruina a basso,
et a la terza torna a capo basso.

23De le divine innumerabil grazie
di che infondesti in lui sì larga parte,
rende immortali et infinite grazie
a tua bontà, se non in tutto, parte;
e s’in mezzo d’Atene ebber le Grazie
il tempio lor, né il buon da lor si parte,
egli, perché senz’essa mai non opre,
giunge questa virtù con tutte l’opre.

24Tu fosti a lui de l’amor tuo gentile,
perch’egli a sé ne fosse et a te insieme,
ché non avendo tu cambio simile
non d’altro hai che di te, per premio, speme;
onde questi non tien sua vita vile,
te conoscendo in sé suo frutto e seme,
ma perché a non stimar la morte attenda
e acciò che a tempo il tuo gran don difenda.

25Dunque indegno è d’aver fin infelice,
poi che gli avien senza sua colpa alcuna,
né più merito uman mirar ne lice
s’egli per sé non ha miglior fortuna.
E per la stirpe d’ogni en radice,
a cui non darsi par sotto la luna
mostran suoi rami che inselvato sonsi
Azzi, Obizzi, Ughi, Alberti, Ercoli e Alfonsi.

26Et altri assai c’hanno memoria eterna
de i lor gran fatti ne l’enotrio regno,
e che signor per volontà superna
fur dove lasciò il ferro un aureo segno,
perché i vicari tuoi da guerra interna
liberàr sempre con lor forza e ingegno,
e che il nome da Este han fatto chiaro
da l’Esperio a l’Eoo, dal Caspio al Faro.

27Abbi risguardo ancor, Re de le stelle,
a i successori suoi che son qui meco,
queste fien di valor preposte a quelle
del già sangue gentil latino e greco
(e accennò l’alme benedette e belle
che Dio gli aperse e informa esser fe’ seco);
se vestiransi del corporeo manto
ne la progenie c’ha de l’altre il vanto.

28A lui sta di ragion produrla inanzi,
non men con figli che con fatti illustri,
e quel dì che giurasti a noi dinanzi
di darle regno in sempiterni lustri,
e il medesmo che dir festi pur dianzi
al pastor ch’inalzò lochi palustri,
comincierà a mancar se non si franca
il valoroso cavalier che manca.

29I’ dico del pastor che il proprio nido,
ch’anco è d’Alfonso, ove s’abbassa il fiume,
mandò tant’alto con soave grido
ch’umil Rodope resta oltra il costume,
né più fia dolce stil ma un aspro strido
di che prender vorrà candide piume
per imitar l’augel che in lui mutossi,
e spento lui per sempre a ognun celossi.

30De’ suoi signor con chiara voce in rima
il poeta divin cantò la gloria,
e in suon ne rimbomò per ogni clima,
e diegli il mondo l’ultima vittoria;
ma dato avergli la sua parte prima
il quarto lume in van s’allegra e gloria,
quando non segua il ver sì che non viva
quegli c’ha da tener tal prole viva.

31Forse parrà che troppo avanti siamo
tal che non possi più salvar la vita,
e che a necessità ceder dobbiamo,
essendo l’alma omai del corpo uscita;
pur maggior cosa noi per nulla abbiamo
a la tua potestà somma e infinita,
e fu maggior di gente un grosso stuolo
nel deserto levar da estremo duolo.

32E per lasciar come il lor nido sciolto
abbiam rifatto assai ceneri et ossa,
quando vincea l’ispano e che fu colto
a l’improviso da mortal percossa,
di riaver lo spirto a lui già tolto
l’avo suo per tuo mezzo ebbe pur possa:
e il nipote in sé non terra l’alma
che in tutto anco non è fuor de la salma?

33Fia più felice, e minor la sforza,
e le grazie per lui so or perdute?
Avrà l’istesso nome e senno e forza
simile ad esso, e non simil salute?
È un poco di vigor sotto la scorza
a cui puossi e convien porger virtute;
perir si lascia un vil negletto germe,
e cura s’ha di belle piante inferme.

34Ma benché il mal da sé sì estremo credi
che chi n’è afflitto infin a morte aggrave,
con tutto ciò la sua persona vedi
che con altr’uom conformità non have:
come tu grado sopra noi possedi,
ch’al nostro stato farti ugual non pave,
così egli è capo delle genti sue,
né tra diversi parità mai fue.

35Chi mena a pasco le raccolte gregge
non è quali esse son, ma d’intelletto,
e chi è vero rettor la città regge
non con discorso uman, c’ha in sé difetto,
ma, devend’ei de gli altri esser la legge,
col giudicio divin, perch’è perfetto;
però la fral condizione altrui
ch’or scampo non avria non noce a lui.

36Dove l’ardente carità n’infiamma,
compagni miei? dove il furor ne spinge?
Così e cresciuta la pietosa fiamma
che per difesa del guerrier ci stringe,
che di contrasto non lasciando dramma
le ragion nostre il troppo caldo tinge?
Ove da cortesia l’aiuto viene,
giustizia domandar non ci conviene.

37Padre benigno, i pargoletti figli
cheggion mercé, del lor gran fallo accorti,
e che contra i meschin sdegno non pigli
se più l’amor che la ragion gli ha scorti;
son da l’orribil colpo i lor consigli
e dal troppo timor, sorpresi e torti;
tua pietà da noi tristi sé non tolga,
e al giovanetto misero ti volga.

38Mira, Signor, che al pesto tutto e essangue,
fratel cugino il re dolente corre,
e de’ Franchi si stringe e agghiaccia il sangue,
e per l’ossa tremanti il freddo scorre.
Egli, come bel fior calcato, langue,
né a lo spirto ch’esala alcun soccorre,
ché ne’ disagi ogni soccorso umano
quando non val natura o l’arte è vano.

39È questi quei che il dì che nacque Augusto
fu nel mestier de l’arme un novo mostro,
quando ruppe con cor cotanto augusto
de l’allor vincitrice Aquila il rostro?
Se più saggio o più ardito o più robusto
colà ne gli Ambian si fosse mostro,
perché con pochi assai sostenne e uccise,
non senza certa laude in dubbio mise.

40Fu saldo contra lor qual duro scoglio
le cui radici van profonde al centro,
che di sopra sfogar senta il cordoglio
a Borea, che per Piti a il furor entro,
e al piè del crudo mar fremer l’orgoglio,
e con rabbiosi assalti urtargli dentro;
ma che l’impeto fier si soffra e sprezzi,
che mandi il vento e l’onda in fuga e in pezzi.

41È questi quei che nel medesmo giorno,
giorno a Cesare a lui dal ciel prescritto,
l’anno di poi da che due vanno intorno
salvò de gli aurei gigli il campo afflitto?
Ch’ai fuggiti fe’ far testa e ritorno,
e primo prese inanzi il camin dritto?
Mira là i Vertodon verso la Mosa,
onde la fama portò sì gloriosa.

42Poiché gli occupator del colle assalse,
sì combattendo li cacciò giù dal varco,
che lor l’artiglieria salvar non calse,
né l’insegne di ch’ei ritornò carco;
né contra i cacciator più tigre valse
quando de i cari pegni il nido è scarso,
e che gli aggiunga in modo tal che rieda
non pur co’ figli ma con doppia preda.

43Or fuor di guerra, in pace egli è qui estinto,
e il paese per lui vivo l’ha morto;
or da niuno ei, ch’ognun vinse, è vinto,
e, a salute de’ suoi mosso, è a mal porto.
Chi qua si caccia e grida, e chi è là spinto,
vario è il romor ma ognun smarrito e smorto,
Anna e i primi di sangue a lui congiunti,
son fuor di sé dal gran martir compunti.

44Odi che voci lagrimose versa
la stanza di reine e principesse;
odi che da un piacer degno è conversa
in querele disformi, acerbe e spesse.
La sacra Donna tua nel duol sommersa,
come s’avanti il delfin morto avesse
vedi: par che d’angoscia omai trabocchi,
pallida in viso e ruggiadosa gli occhi.

45Oh se qui fosser quei l’han produtto,
il grande Alcide e l’inclita Renata!,
oh se i due zii, se il frate ch’ora in tutto
vedean per lui la casa lor beata!,
né solo non terriano il seno asciutto,
ma vorrebbono il fin di lor giornata
le sorelle se qual figlio d’Apollo
lui dar vedesser questo indegno crollo.

46Se vedesser giacerlo e dove e come,
e pur già le abbracciò partendo allegro,
farian torto al bel viso e a l’auree chiome,
misere, e per orror saria il sol negro;
e chiameriano in van l’amato nome,
se pietà non le fesse il pensier egro,
che a Lucrezia e a Leonora il caso atroce
torrebbe ogni vigor, non che la voce.

47Alto Rettor de l’universo, i prieghi
in alte strida e in supplici parole
cheggion, con pianto assai, che tu ti pieghi
sì ch’Alfonso al fin sia qual esser sole;
che a noi custodi suoi questo non nieghi
la tua paterna tenerezza vole.
De, se in terra del ciel vuoi parte intera
il lume nostro e de gli eroi non pèra».

Dio acconsente, il fiume Ligere auspica un grande futuro per Alfonso (48-50)

48De l’angelica voce al fin compiacque,
e spirò vita al prence il re del mondo;
e a un lieto cenno giù mandar gli piacque
l’alato messaggier del ciel secondo,
che giunto ove da Boi discendon l’acque,
di speme in corte fe’ ciascun giocondo;
indi per confortar l’augel che venne
di nero bianco, al Po drizzò le penne.

49Ligere in tanto i liquidi cristalli
corso più vago e altier che prima sciolse;
aprir le fronde e l’erbe in poggi e in valli
fior novi, e l’aria novo lume accolse.
E il divin coro in ciel tra suoni e balli
l’april, che il dì vigesmo al vespro volse,
col millecinquecento e col cinquanta
c’ha l’anno sesto, lauda e così canta:

50«Vivi, signor, con vita alma e sicura,
poi che la more e rio destin vint’hai,
che se tua acerba etate a la matura,
com’or promette, giungerà giamai;
superando il valor de la natura
tu tutto il meglio de i migliori avrai,
perché in eterno il mondo abbia per norma
te d’ogni cavalier perfetta forma».