ARGOMENTO
S’arrende Anversa al vincitor Farnese
Pareri discordanti tra giovani e vecchi in città: prevale il partito della pace (1-187)Che far più deve Anversa or che si vede
l’ultima spene d’ogni scampo tolta?
Fatta dal proprio male accorta e saggia,
di superar con l’umiltà la forza,
5tutte l’armi deposte, or si consiglia.
Già per le piazze e per la terra tutta
veggonsi i citadini a quattro, a sei
varie cose accennar, vari pensieri
proporre, e si sentia strepito tale
10qual di rapido fiume altero corso
mormora irato fra gli opposti sassi.
Quei di matura età volean d’accordo
trattar co ’l prence, e da le man nemiche
l’oppresse mura e le lor vite istesse
15e l’onor e l’aver renderne salve,
e da ria morte assicurare i figli;
ma diverso parer sedea ne i cori
a’ gioveni feroci, anzi che l’armi
volger volean con ostinata prova
20contro i rettori suoi perché a la pace
più che a la guerra avean l’alme disposte
e le man pronte a insanguinare il ferro.
Stava fra due contrari il volgo in forse
in due parti diviso a lor che in mezzo
25sorse Maurizio, un giovine feroce,
che ponea ne la spada ogni salute.
Vedendo il popol tutto aver conversi
gli occhi in lui solo e starsi intento e cheto,
parla con alta et orgogliosa voce
30in cotal guisa a l’adunato stuolo:
«Noi dunque, o generosi cittadini,
in poter si darem di gente ispana
a la cui fede già l’avere, i figli,
ahi con gran danno e precipizio nostro,
35le mura e ’l popol tutto ancor credemmo?
Stimerete fedele un che d’intorno
veggasi amici e fedei servi e cari
morti da noi, se non trovaste fede
in tal, che dianzi quale amico venne
40a reggerci e sì come signor nostro
fu riverito, et egli, ahi rimembranza,
le vite ruppe altrui? Queste contrade,
fumanti ancor de l’innocente sangue
fan testimon de l’osservata fede.
45Paventate voi forse? or non vedete
le nostre forze integre, i guerrier salvi
tutti et ilesi a l’armi esser disposti?
Sta in nostro aiuto l’Alemagna pronta,
il popolo di Francia e de l’Olanda
50e di Zelanda et oltre il mare ancora
per noi la Scozia e l’Inghilterra è in armi.
Et a gli Ispani poco lieta certo
anzi pur lagrimosa è questa impresa,
ché de’ morti han di noi via maggior parte.
55A che dunque temere e non più tosto
uscir contro essi a la campagna aperta
a guerreggiare?, ché ’l variar de i casi,
il valor nostro e di fortuna il gioco
potria, come cangiar suol a vicenda,
60mutar e resarcire il picciol danno
e liberarci da l’assedio quando
meno altri crederallo, onde non dessi
dar la città vilmente al duce ibero.
Ma se lega il timor le mani altrui
65e l’età fredda agghiaccia i cori e l’alme,
già legar non potran questa mia destra
né intepidir l’ardor che nel sen ferve.
No no, giovini, noi l’arme trattiamo
cui non manca a l’ardir la forza eguale».
70Così parlò costui pien di dispetto,
scorto da l’alterezza e dal furore,
qual furioso e forsenato Aiace.
Di sapere il buon Carlo colmo il seno
novo Nestor fra noi, un de’ più ricchi
75e de’ più riveriti entro le mura,
ne le consulte riputato molto
contra Maurizio così a dir s’accinse:
«Chiaro, palese e necessario è quello
che ci bisogna, e ben ciascun se ’l vede.
80A bastanza di strage, assai di morte
abbiamo visto e son le genti afflitte,
vedovi i letti e dessolati i campi.
I campi, ohimè, de le nostr’ossa in vece
d’erbi ripieni, e tepido di sangue
85fiammingo corre al mar mesto lo Scalde,
e noi da la Steccata chiusi siamo
tanto che mal si può d’Anversa uscire,
onde già manca ad infiniti il cibo.
Dunque avendo fortuna sì nimica
90né potendo schifar quel che ’l Ciel vuole,
accordianci co ’l prence o pur co ’l fato
e di duo mali per salvezza nostra
fuggiamo oggi ’l maggior. Lodo che al duce
de l’ispaniche schiere abbiam ricorso
95a patteggiar di pace, ché da lui
osservata sarenne ogni promessa,
né affidano di ciò gli artesei stati.
Ma qui per non ridire ad una ad una
le città che con Parma han fatto accordo,
100per tutt’altre nomar vagliami Gante,
Gante la grande, Gante poderosa,
che più d’ogn’altra è stata nosco unita.
Ella resa si è pur? et a la fede
medesma si è commesso ancor Bruscelle,
105e noi nel nostro mal soli e protervi
staremo ad aspettar l’ultimo eccidio
di foco e ferro in questa patria nostra
che di miseria fia Troia novella?
Abbiamo forse ancor chi ci diffenda,
110gli Olandi essendo co i Zelandi seco
più volte già fugati e rotti e spenti?
Né, volendo, a noi dar ponno soccorso
del mare restando a noi rinchiuso il varco
che per lo Scalde a la città venia
115liberamente ad apportarci aiuto.
Del Dico in vano si è tentato il taglio,
effetto più non han del foco i legni,
che da i nemici sono o presi o guasti
o che con arte fan scopiargli al vento,
120et il Fin de la Guerra è stato preso,
e sfasciato si mostra a nostro scherno.
Contrastiamo col Ciel, dunque arrendianci;
no ’l niega il duce e lo consiglia il tempo,
e le donne e i fanciulli e queste mura
125piangenti chiedon ciò umili in dono,
ch’omai ci diamo al capitan benigno.
Egli è devere e ritardar non dessi,
ché ’l ritardar irrita spesso i cori,
e de i più saggi è ancor parer commune.
130Detto fu che da noi a gli nimici
prestar non si de’ fede: i’ non m’oppongo
né men confermo ciò ch’altri ne disse,
ma ben dirò che questo inclito duce
che ci guerreggia contra si può dire
135esser di nostra gente, come intesi
quando a l’ispana corte fui mandato,
dov’io lo viddi et osservai suoi gesti.
Lui già su ’l Tebro Margarita, figlia
del nostro Carlo imperator, produsse
140ad Ottavio Farnese. Ancor fanciullo
gli anni precorse e quando i fiori usciro
de le grand’opre si vedeano i frutti.
Di Pallade nel sen già tutte l’arti
chiudeva, et era la sua mente vaga
145d’udire il canto de gli alteri cigni
che i nomi altrui soli han poter nel tempio
de l’immortalità fare immortali.
E con lor fu magnanimo e cortese,
se strinse a’ suoi destrieri o allentò il freno
150sembrò Polluce, o se girò la spada
fu a Pelide simile. A nuoto il fiume
quasi delfino il mar trattò veloce,
vinse, non che adeguò, nel corso i cervi,
ne la palestra i forti a terra spinse.
155Fatto era già terror de le più fiere
belve ch’annidi il bosco o pasca il monte
quando fece passaggio al lito ispano,
quasi novello giovinetto Alcide,
dove mostrò del generoso core
160ben mille e mille non volgari essempi.
Ma quando il suon de la guerriera tromba
contro il Trace unir fece il popol giusto,
ond’allor Teti cangiò l’acque in sangue,
diede ei d’alta virtù nobile mostra.
165Et indi a debellar la Fiandra corse
di cui ottenne dal suo re il sovrano
impero, ov’ei ridussse a forza d’armi
al dominio regal con altre cento
terre oggimai la ruvinata Anversa.
170Ma che dirò de la sua genitrice
sotto pur questo cielo, in questo suolo
nata fra noi del gran Carlo nostro,
che nacque in Gante, del famoso Alcide
via più famoso in trapassar la meta
175d’Abila e Calpe, a lui termine angusto?
Noi potiam dire ch’Alessandro sia,
com’è, di sangue, d’animo fiammingo
s’abbiam per arra che di Margherita
austriaca sia nato, la qual tenne
180noi lungamente in aurea e dolce pace.
Mandiamo ambasciatori a questo prence
che da lui, sì confido, otterem quanto
fia d’uopo a conservar l’onor e i figli,
e le fortune e queste case intatte».
185Così detto approvaro il suo parere
i più saggi e stimati, onde seguio
un suon concorde di comun consenso.
L’ambasciata degli Anversani richiede la pace al Farnese (188-249)Il che vedendo l’Aldegonda istesso
vi diè consenso tal che di sua mente
190vintiquattro fra’ primi e più stimati
del senato anvesano eletti furo;
egli fu capo et oratore insieme
di sì grande e sì nobile ambasciata.
Indi passarro il dì seguente al campo
195in Beveren, u’ fea dimora il prende,
accompagnati essendo i Belgi illustri
da numeroso stuolo adimandaro
d’esser uditi dal sovrano duce,
et, intromessi, lo trovaro assiso
200fra i suoi, che gli facean nobil corona.
A l’apparir di tanti ambasciatori
rizzossi e poi con maestà s’assise
nel regio solio il prencipe cortese.
L’eloquente Aldegonda alzando il viso,
205nudo il capo, il piè inchino, e tutto umile
con alta voce incominciò: «Signore,
che i tuoi princìpi da i romani egregi
traesti, e quinci poscia uscisti al mondo
per farlo con tue glorie e co ’l bel nome
210più bello et arichirne il secol nostro,
che per te spera di veder la prisca
e desiata età del secol d’oro,
te prencipe roman di regio sangue
e di valore e di pensieri e d’opre,
215te legare altrui può con l’umiltate,
ché proprio è tuo di perdonare a quelli
che s’inchinano a te, ma gli altri poi
che voglion, folli, a la tua possa opporsi,
tu vinci al fine, e sottometti ognora
220al giogo tuo. Di questo fatta esperta
Anversa a te ne manda, e chiede umile
perdon de gli error suoi, non de le colpe,
ché, dal disio di libertate accesa,
dolce disio, comun disio che nasce
225ad un parto in noi né da noi parte
finché la vita ancor non l’abbandona,
s’oppose armata a i regi editti, a i quali
d’ubbidire tenuta era mai sempre.
Ma poiché da noi fece, ohimè, partita
230la magnanima vostra inclita madre,
che resse nui ben con bilancia eguale,
novella Astrea per noi discesa in terra,
seco la pace e le fortune seco
n’andàr di Fiandra et ogni nostra speme,
235che a la gran Margarita sottentrati
i ministri del re, la lor durezza
fece cangiarne poi pensiero a forza,
e quello ancor con l’armi in mano Anversa
di mantenir, di vendicare in parte
240ha fatta ogn’opra, in fin che l’armi tue,
invitto capitan, l’han vinta e doma.
E come vinta a te s’arrende e chiede
umil perdono, e da te solo aspetta
quelle condizion che da i Romani
245duci benigni aver soleano i vinti,
anzi ancor più pie quanto più pio
et umano tu sei di Giulio e Druso
e di Marcello e del felice Augusto,
sotto cui vidde il mondo un’aurea etate».
Farnese accetta la proposta di pace e banchetta con i generali (250-361)250Così disse quel saggio al grande eroe,
a cui la maestà sedea nel volto,
la clemenza ne gli occhi e dentro a l’alma
senno e valor. De l’oratore a i detti
stavasi attento et in aspetto tale
255qual giudice vediam giusto e clemente
fra due pensieri, e benché a lui sovegna
de la perfidia e de la mente dura
et ostinata de la vinta terra,
et aggia in cor di vindicar l’offese
260fatte al suo re, fatte al Rettor del Cielo,
sì vindice non è che ammantar voglia
l’eroica virtù che nel sen chiude,
onde gli ambasciatori mira e poi,
in real gravità standosi assiso,
265così breve risponde: «A grave fallo
grave pena conviensi, e in poter nostro
sta la pena e ’l perdon, ma perché sia
nota del mio buon re l’alta pietate
non men che ’l poter grande, si concede
270il richiesto perdono et ogni offesa,
quantunque grave e ria vi si rimette,
pur che, come nel dir nel cor sinceri,
al dolce imperio suo rendiate Anversa,
a cui saran le condizioni imposte
275che a l’umiltà di lei, che a la speranza
qual have in noi, che a la pietà conviensi
del mio gran re, che, vincitor mai sempre,
da la propria pietate ognora è vinto».
In guisa tal benigno avea parlato
280con risposta dolcissima il Farnese
quando Apollo disceso era nel mare
e fuor n’uscia inargentata luna.
Qui s’apprestan le mense in copia molta,
carche di vari cibi e di gran vasi
285d’oro e d’argento vagamente scolti,
quasi per man d’industre Alcimedonte.
Tali ha per uso di spiegar sovente
a’ forestieri principi l’eccelso
magnanimo Ranuccio con reale
290splendidissima pompa, che d’Antonio
e di Lucullo ancor le cene avanza.
A la mensa assisero co i Belgi
gli Itali e i duci iberi, a’ quai più paggi,
pur nati a signorie gioveni illustri,
295con accorta destrezza eran serventi;
et altri compartiano i lauti cibi,
e altri di Lieo l’almo liquore
a’ convitanti amministravan spesso.
Essi beveano a la salute a gara
300or del duce supremo or del lontano
monarca de gli Ispani, il gran Filippo.
Un musico allieta il banchetto cantando delle imprese di Carlo V (362-346)Né fine ancor la real cena avea
quando improviso un musico gentile
apparve con sua cetra, a cui soave
305concordando le voci in dolci note
così, tacendo ognun, cominciò il canto:
«Forti e famosi eroi, alto pensiero
or m’invita a cantar, ma par ch’affrene
l’obietto ogni mio dir, ché non ho versi
310eguali al merto del gran Carlo quinto.
Tu Febo amico la mia voce snoda
sì che al soggetto sia pari lo stile.
Da quell’alta ventura incominciaro
che a Carlo pose il re de i Galli in mano
315allor che d’acque cristalline in vece
tepido sangue al Po diede il Tesino.
Ma la fortuna, ch’è ministra e serva
del valor d’Austria, ne i feroci artigli
de l’Aquila ridusse i Gigli d’oro,
320i quai, benché d’alzarsi osaser poi,
più volte ne cader depressi e tronchi.
Il drago oriental solo a la vista
de l’Aquila vittrice imperiale
d’ira e di scorno già fuggirne carco
325vide il Danubio del suo corso a prova,
là dove già fiorì l’alta Cartago
che tanto osò contro al Romano Impero.
Sovra legni spalmati il nostro Augusto
a forza penetrò con l’armi a cui
330cedèr l’orgogliose armi ottomanne.
L’armi cesaree ancor fiaccàr le corna
a Lutero perverso allor che l’Albi
divenne rosso e cangiò l’acque in sangue,
fu del valor di Carlo e vinto e domo
335dal sovrano valore accompagnato
d’Ottavio e d’Alessandro i duo germani,
Ottavio in guerra forte, in pace giusto,
et Alessandro, assai più di virtute
colmo dentro che fuora ornato d’ostro.
340A l’imperio di Cesare poi giunse
quello de l’Indie il merto e la fortuna,
onde di tre corone il capo cinto
in terra trionfò d’alte vittorie.
Ma ben d’altre corone assai più belle
345è coronato in cielo, ove risplende
de la stella di Giulio ancor più chiaro».