ARGOMENTO
Mirano gli assediati il campo armato
onde per la difesa alcun non cessa.
Baldovin si querela, e parte irato
ch’abbia Erminia a Tancredi il re concessa.
Odoardo sortisce, e strano fato
prigionier fallo di Clorinda istessa,
e, di Corban condotto a la presenza,
de la patria e di sé dà conoscenza.
Mentre Corbano muove il suo immenso esercito, Baldovino rivendica per sé Erminia e infanga Tancredi
1Sorge l’aurora, e ’l crin di polve immondo
porta, che i Persiani ergono al cielo.
Geme la terra di tant’armi al pondo,
fan le barbare insegne al sole un velo.
Non vide mai sforzo maggiore il mondo
da l’austral fiamma a l’iperboreo gelo:
par che tutta in Soria l’Asia s’avampi
tal diluvio di genti inonda i campi.
2L’esercito pagan scoprono in tanto
e ne dan segno al capitan le guarde.
Il forte usbergo ei veste e ’l regio manto,
né già le piante ha neghittose o tarde.
Va dietro lui, di cavo bronzo al canto,
ogni fedel, e d’ira bolle ed arde,
e pria contempla la grand’oste e poi
a l’usata assemblea chiama gli eroi.
3Or mentre al novo antiocheno regno
stan la difesa a consultare uniti,
di Baldovino il tempestoso ingegno
suscita fra di lor discordie e liti,
e poich’antico e redivivo sdegno
vien che contra Tancredi il cor gl’irriti,
non potendo soffrir che tra le prede
Erminia egli abbia, in sua balia la chiede.
4Orfana principessa, unica figlia
del morto re già d’Antiochia è questa;
ha con lascivo crin pudiche ciglia,
non so dir se più bella o più modesta;
non ben fiorita ancor, rosa somiglia,
sì l’onestà su la bellezza innesta.
Compie a pena tre lustri e pur mature
di fortuna e d’amor sente le cure.
5Orba di reggia e povera d’arredi
perdé l’impero e con l’impero il core:
a Boemondo l’un, l’altro a Tancredi
cedette, e a Marte quel, questo ad Amore.
Del cavalier precipitossi a i piedi
che le fu scudo al virginale onore,
ma di lei trionfò con doppia palma
e ’l corpo in un fé prigioniero e l’alma.
6Sventurata fu ben, ma la sua sorte
non la fé senza speme anche infelice,
ché se ’l nemico al genitor diè morte,
viva almen le lasciò la genitrice.
Regnò con lei ne la paterna corte
mentre già piacque al Ciel lieta e felice,
et or con lei nel più bel fior de gli anni
tempra, servendo, i suoi novelli affanni.
7L’inquieto guerrier questa pretende
in premio aver, né l’amoroso affetto
impuro foco a ciò bramar l’accende,
ma ben gl’infiamma ambizione il petto;
quinci a spiegar le proprie frodi ei prende,
e un gran vanto contiene ogni suo detto.
Sorge dal seggio e in guisa tale aperti
a gli adunato eroi rende i suoi merti:
8«O dio,» dic’egli «in Antiochia accesa
è dunque inanzi a voi lite d’onore,
e meco aver qui di valor contesa
e di gloria garrir Tancredi ha core?
Né dubbio egli ebbe in ogni dubbia impresa
ceder a quell’immenso ostil furore
ch’io sol sostenni, e che più volte armato
ho co ’l proprio valor vinto e domato?
9Dunque più schermo avran, più sicurezza
ne la lingua i guerrier che ne la mano?
A me facondia il cielo, a lui fortezza
non diede, io troppo grave, ei troppo vano;
a sostener la marziale asprezza
vicino io vaglio, egli a parlar lontano;
egli va tra i più molli, io tra i più forti,
io nato a le campagne, egli a le corti.
10Né l’opre or qui d’ogni mio bel trofeo
narrar degg’io, voi le vedeste, eroi.
Ei sol, che senza testimon le feo
nel sen de l’ombre, egli le narri a voi.
Gran premio io chieggio, è ver, ma tòr poteo
l’emulo a Baldovin gli onori suoi,
né m’è più gloria no, mio core or cedi,
il conseguir ciò che sperò Tancredi.
11Godersi egli sperò lunga stagione
la non sudata sua bella rapina,
e dir, s’unqua in Italia il piè ripone,
– Ebbi in Asia per premio una reina -,
quasi in ogni passata aspra tenzone
sol sapesse ferir spada latina,
e di Francia e d’Europa i ferri tutti
di sangue saracin gissero asciutti.
12Ah no, le sue non sol ma l’altrui mani
strinsero il ferro, e l’altrui prede ancora
ebber punta, ebber filo, onde i pagani
caddero in campo e s’espugnàr talora.
Anco le braccia mie colpi non vani
vibràr sovente, e fra di noi finora
io sol, sol io qui guerreggiando oprai
in pro commun più che Tancredi assai.
13Or, benché dubitabile il valore
in me non fia, pur le mie glorie udite:
commun con quel Goffredo ho il genitore,
c’ha in vostro pro cotante genti unite,
ricco son d’avi e posso in proprio onore
narrar d’antichi eroi schiere infinite,
né chiara dei Buglion la regia prole
in Gallia è sol, ma dove gira il sole.
14Pur non mi vaglia, no, l’alto lignaggio
s’ancor non son per propri merti altero:
perché sicur per l’Ungaria passaggio
facesse in Asia ogni cristian guerriero,
questo è il minor mio pregio, io per ostaggio
al re n’andai c’ha su ’l Danubio impero,
al re che da i German danni e rapine
già pria sostenne, e poi gli estinse al fine.
15In su ’l Bosforo poi, mentre già molto
era al fedel la greca fé sospetta,
picciolo stuol presso a Bisanzio accolto
di gente avventuriera e di soggetta,
intrepido di cor, franco di volto,
nel maggior uopo io là mi spinsi in fretta,
e sol potei fra mille sdegni et onte
gli archi acquistar del duellato ponte.
16Che non fec’io quando Nicea fu presa
nel grande assalto e nel mural conflitto?
e che non fei ne la campal contesa
con Soliman, c’ha titolo d’invitto?
Tancredi il sa, che se da me difesa
non avea pur, vi rimanea trafitto.
Io ’l coprii co ’l mio scudo, io le ferute
presi a curargli, io gli recai salute.
17Giungo di Tarso a l’alte mura in tanto
e inalberate di costui l’insegne
sovr’esse io miro, e d’un sì nobil vanto
quelle stimando e d’un tal luogo indegne,
sveller le faccio e sol le mie vi pianto,
che d’ondeggiar su la città son degne.
Confuso ei parte, e i cittadin le porte
aprono a me, come di lui più forte.
18Con poche schiere a un mio sol cenno armate
de l’Armenia minor scorro ogni lido,
trionfando men vo fin su l’Eufrate,
e chi contrasta un sì bel corso ancido.
De le città dal mio valor domate
porta la fama in varie parti il grido,
e volontaria già dona se stessa
ne le mie man l’ossequiosa Edessa.
19Me ’n riedo al campo, e d’Antiochia al fine
con gli altri anch’io la grand’impresa anelo.
De i nostri onori e de le sue ruine
gran parte io fui sotto il notturno cielo;
ma perché le memorie a voi vicine
son di sì gran trofeo non le rivelo,
dicovi sol che la fatal vittoria
più di mia man che di Tancredi è gloria.
20Io de i commun nemici audace e forte
l’incontro qui, qui l’impeto sostenni,
e gran voti talor per la mia sorte
qui voi faceste, onde vittoria ottenni.
Di gloria amante e sprezzator di morte,
qui mille schiere a contrastar me ’n venni,
et oggi in premio, ancorché ciò sia nulla,
chieggio a tanti miei merti una fanciulla.
21Erminia i’ bramo, e se pur qui conviene
il vero a voi narrar, gloria maggiore
a lei da ciò vie più ch’a me ne viene,
o pur da commune è in fra di noi l’onore.
Fama darà, se la mia man l’ottiene,
a la vinta donzella il vincitore:
Baldovino ed Erminia ah si concede,
e non Erminia a Baldovin si chiede.
22Ma s’a la lingua il più garrire è vano,
de’ miei gran pregi il numero si taccia,
e con la spada in campo e con la mano
spettacolo de l’opre omai si faccia:
si mandi entro l’esercito pagano
la giovinetta, e chi di noi si caccia
in mezzo a l’armi e ne fa degna preda
ei se l’abbia per premio, ei la possieda».
Tancredi ribatte ricordando i propri meriti, il consiglio gli dà ragione: Baldovino abbandona la guerra, almeno finché la sua lancia non germoglierà
23Nel gran consesso il franco eroe sì disse,
e favorito un mormorio n’ottenne,
fin che fra lor, quasi novello Ulisse,
sorse Tancredi et ad orar se ’n venne.
immote pria le sue pupille e fisse
alquanto a terra e pensieroso ei tenne,
poi sollevolle intorno et eloquente
questo sciolse dal labro aureo torrente:
24«Se i miei co i vostri voti, incliti eroi,
avesse il Ciel pietosamente uditi,
che bramavan veder lunge da noi
i troppo di costui spiriti arditi,
in sì degna assemblea co’ detti suoi
già non potrebbe or suscitar le liti,
et Erminia io terrei, voi la quiete,
che tanto è d’uopo e che sì cara avete.
25Ora, s’a me chi su le stelle ha impero
non men ch’a voi sì gran favor non diede»,
e sì dicendo il nobile guerriero
batter le piante e sospirar si vede,
«chi meglio aver Erminia e chi più altero
andar può mai de l’acquistate prede
di me, che vinsi, e senza il vanto il dico,
co ’l gran zio che qui regna il re nemico?
26Nulla a lui giovi in così gran contesa
l’ottusa troppo e poco cauta mente,
né noccia a me quel ch’a commun difesa
sagace ingegno a voi giovò sovente.
S’aver fui degno in questa sacra impresa
già mai con forte man labro eloquente
i miei talenti ah non m’invidi il mondo,
già fui per voi com’or per me facondo.
27La stirpe e gli avi, e le grand’opre e chiare
che noi non femmo, a pena nostre io dico:
men bello splende e vie men degno appare
senza novo valor legnaggio antico;
grande è così per l’onde proprie il mare,
tal per la propria natura il suolo aprico,
e così là ne l’Oriente suole
superbo gir sol de’ suoi raggi il sole.
28Ma poich’in onor suo l’emulo mio
del buon Goffredo esser german di vanta,
siami lecito dir che nacqui anch’io
di non vulgare e di non bassa pianta;
di Boemondo il forte duce e pio
nipote io son, c’ha in sé virtù cotanta,
né in tutto poscia ho le mie glorie inferme
e per pietà, non per natal son verme.
29Pur l’ordine del sangue omai si lasce,
e sol con l’opre a contrastar si prenda,
e fra di noi non de l’avite fasce
il vano onor, ma la bontà s’attenda.
Chi nobil vive e non chi nobil nasce
fia che di gloria a gran ragion contenda;
l’alma ha i suoi beni et anche i suoi fortuna,
quei li dà la virtù, questi la cuna.
30Ostaggio ei fu, ma qual in sé contiene
argomento d’onor se il gran tiranno
ch’a Buda impera in sicurezza il tiene
di non sentir de le nostr’armi il danno?
Se del Bosforo argivo in su l’arene
lode maggiore i nostri eroi non hanno
che d’un ponte acquistar, vana vittoria,
non si passa per ponti oggi a la gloria.
31D’aver Nicea ne la bitinia terra
già presa, e vinto il fier soldano e rio
ei sol si pregia, e pur armato in guerra
scorso ho colà qualche periglio anch’io.
Non stette, no, fin che’ella cadde a terra
ozioso fra gli altri il braccio mio,
e in reprimer l’ardir di Solimano
molto oprai col consiglio e con la mano.
32Che vi fec’egli, eroi? Ma se chiedete
che vi fec’io, senza rossor sia detto:
tendere a l’oste industriosa rete,
armar d’acciar, ma più di core il petto,
procacciar vettovaglie e a l’inquiete
genti comporre ogni turbato affetto,
scoter le mura et espugnare i regi,
gli eserciti fugar furo i miei pregi.
33Or che gran vanto è mai ch’anch’ei pugnando
con Solimano, a me recasse aita?
Recommela, il confesso, a l’ora quando
nel seno ebb’io più d’una gran ferita:
co ’l suo scudo non men che co ’l suo brando,
negar no ’l deggio, ei mi serbò la vita,
non fia mai ver che l’emulo mio defraudi
de i giusti onor de le dovute laudi,
34ma gli applausi communi ei sol non vanti,
e lasci qualche merto anche a Tancredi.
Non son già, no, sì povero di vanti,
né sì privo di spoglie oggi mi vedi
ch’aver non possa anch’io fra i trionfanti
quel loco, o Baldovin, che tu possiedi.
Qual è gloria più degna? A terra steso
cadd’io pugnando, e tu cedesti illeso.
35L’opre poi sì famose e peregrine
che festi in Tarso, altrui già note sono;
deh, perdoniti il Ciel le tue rapine,
deh, perdoniti il mondo, io ti perdono.
Ben sai ch’avesti là danni e ruine
dove aver ti credevi impero e trono,
e se domasti al fin popol sì forte
loco ebbe in ciò più che ’l valor la sorte.
36Cor più ch’ingegno in ogni gran periglio
tu vai mostrando, io mostro ingegno e core,
e se valore hai tu senza consiglio,
io congiunto il consiglio ho co ’l valore,
e quanto chi governa alto naviglio
suol di chi tratta i remi esser maggiore,
tanto a ciascun di noi, tanto a Tancredi,
di fé, d’affetto e di saper tu cedi.
37Principi, io ben comprendo ov’egli aspire
con le sue troppo ardenti avide voglie:
ei del nemico in fra gli sdegni e l’ire
perduta in Asia ha la primiera moglie,
e d’Erminia ottener mostra desire,
fra le più degne antiochene spoglie,
sol perch’aver in cotal guisa ei puote,
congiunto a lei, questo gran regno in dote.
38Lunge è da me simil pensier, né chieggio
scettro dotal, né le sue nozze io bramo.
Le bellezze di lei nulla vagheggio,
né preso son de’ suoi bei guardi a l’amo.
Da ciò, grandini il ciel, pugno e guerreggio,
né l’Asia sol non vi sospiro o v’amo,
ahi, ma se in guerra ella fu preda mia
qual vuol ragion ch’oggi ad altrui si dia?
39Per la speme commun, per la difesa
di queste mura che cotanto amate,
per ciò che resta a far ne l’alta impresa
del gran Sepolcro, a cui le destre armate,
la donzelletta c’ho già vinta e presa
non mi si tolga, e se ciò far negate
datela in dono a queste piaghe almeno
che già sostenni e ch’or vi mostro in seno».
40De gli adunati principi al cospetto
così dicendo egli squarciò la veste,
e stampate mostrò nel nudo petto
belle ma un tempo già piaghe funeste.
E così fu modesto ogni suo detto,
così giuste apparìr le sue richieste
ch’alzàr concorde di più voci un suono
et Erminia a lui sol diedero in dono.
41Goffredo pria di Baldovin ripresse
il troppo ardire, e n’ebbe scorno e sdegno:
dissegli ch’amutisse e che cedesse,
poiché troppo avea già scorso ogni segno,
e ’l suo proprio german con voci espresse
pronunziò de la richiesta indegno,
e fe’ chiaro apparir che cede e langue
ove regna ragion, forza di sangue.
42Ma Boemondo alza sereno il volto
e in cotal guisa al cavalier ragiona:
«Guerrier, se ’l chiesto dono oggi t’ha tolto
questa d’invitti eroi degna corona,
te stesso accheta, e non te ’n caglia molto,
ché maggior premio a gran valor si dona.
più ricco guiderdon, mercé più bella
ti serbiam noi che d’una sol donzella».
43L’indomito campion, che preferita
l’altrui virtude al suo valor rimira,
fère il ciel, batte il suol, morde le dita,
e sdegno e duol sparge da gl’occhi e spira.
poi con veloce e subita partita
lunge dal gran consesso il piè ritira,
e quella, onde la destra arma in battaglia,
crolla nel suo partir lieve zagaglia,
44e «A l’or» dic’ei «che di germogli adorno
l’arido legno di sì nobil asta
rinverdir si vedrà, farò ritorno,
qui dove in van l’altrui valor contrasta».
Così l’un parte, e riverente intorno,
or che di gloria a l’emul suo sovrasta,
lieto l’altro se ’n va de’ pregi suoi
e ne dà grazie a gli adunati eroi.
Vafrino sente Erminia sospirare, e la sprona a confessare: lei nega d’esser innamorata
45Ma la fanciulla, che in sì gran contesa
esser paventa a Baldovin concessa,
tra fortuna et amor dubbia e sospesa,
in pianti scioglie et in sospir se stessa,
e quinci il sen d’un bel desire accesa
e quindi l’alma da gran cure oppressa
nutre la piaga entro le vene, e sente
struggersi ognor da cieco foco ardente.
46La sovrana beltà, l’alto valore
che già mirò nel vincitor guerriero,
e di sue genti il celebrato onore,
che conquistaro un così degno impero,
le si va presentando in mezzo al core,
le si va ravvolgendo entro al pensiero,
sì che lunga stagion l’umide gote
tien fisse a terra, e favellar non puote.
47Pur vien che ’l freno a le parole allenti
ne l’amoroso suo stato servile,
e spesso fra sé dice: – Oh quai portenti,
lassa, vid’io nel cavalier gentile?
Co ’l grato suon de’ suoi cortesi accenti
ei m’affidò da l’empio sdegno ostile,
ma co’ begli occhi indi mi trasse a morte,
non so dir se più vago o se più forte -.
48Indi, rivolta a Vafrin, che di Tancredi
fu già scudiero e ch’è di lei custode,
Vafrin, c’ha scaltro il cor, veloci i piedi,
d’ogn’inganno architetto e d’ogni frode,
Vafrin che sprezzator d’alte mercedi
di cauto insieme e di fedele ha lode,
o ch’arda il sole o gelino le stelle,
sempre del suo signor chiede novelle.
49«O come spesso (ei le risponde), o come
avien che del mio principe ragione:
troppo, ah troppo sovente il dolce nome
in bocca hai tu di sì gentil campione!
Ei che ’l tuo regno e le tue mura ha dome,
ei che qui vinta or ti ritien prigione
mal fora degno d’un sì dolce affetto
se non t’ardesse occulta fiamma il petto.
50Erminia, ardi d’amore, Amor ti punge
non me ’l negar, già il tuo desio m’è chiaro».
«Grata son, non amante,» ella soggiunge,
«e per valor, non per beltà m’è caro.
Troppo dal ver quel che tu pensi è lunge,
nemistade ed amor non van di paro,
et amarsi fra lor raro si vede
quei c’han vario il natal, varia la fede».
51Ma su gli orli del labro un mal distinto
sospir le vien, ch’a pena nato more,
e, da pura onestà cacciato e vinto,
lascia la bocca e si concentra al core.
Il suo bel volto è d’un color dipinto
ch’è vie più che modestia e men ch’amore,
e le grondan da gli occhi alquante stille
che nunzie son de le di lei faville.
52Pur ad altra cagion recar procura
l’acerbità del pallido sembiante,
e ne’ suoi sensi ognun di lor s’indura
nel creder l’un, l’altra in negar costante.
E più seguian ne la contesa arsura
l’astuto servo e la segreta amante,
se non temeano in così vaghe liti
da la vecchia reina esserne uditi.
Tancredi rassicura Erminia sulla sorte del suo regno
53Et ecco omai vèr la superba reggia
Tancredi qui, come solea, se ’n viene,
le visita pietoso e le vagheggia
con pupille piacevoli e serene.
Ciò ch’ognuna da lui brami e richieggia
intender vuole, e i lor desir perviene,
et a Vafrin che fedelmente umile
le serva impon, qual de le corti è stile.
54Poi dice loro: «Oh qual pietade, oh quale
de le vostre sventure il cor mi preme,
voi da stato cadeste alto e reale
nel cupo sen de le miserie estreme,
ma sotto il pondo instabile e fatale
de l’umane vicende in van si geme:
novo non è ch’a i marziali degni
talor cedano i re, cadano i regni.
55Siete, è ver, prigioniere, e la fortuna,
che la sua rota infra i diademi aggira,
se già v’arrise a i gran natali in cuna
or dispietata incontra voi s’adira.
Ma gli onori reali ah non imbruna
laccio servile, et, a chi ben le mira,
seguite in guerra ingiuriose al trono
ch’altri calcò le prigionie non sono.
56Temprisi dunque il vostro duolo e vada
in bando ogni timor, lunge ogni affanno;
questa man, questo braccio e questa spada
al vostro regio onor scudo saranno.
In voi non fia che sovra giunga e cada,
Tancredi il giura, altro più grave danno,
ma qui sempre difesa e custodita
vi fia da me con l’onestà la vita».
57Partendo poi, con sì soavi modi
ambe le donne il cavaliero abbraccia,
che con più stretti e più tenaci nodi
l’una d’amor, d’obligo l’altra allaccia:
questa gli dà le meritate lodi,
quella d’un bel rossor tinge la faccia,
e queste e quella a i piedi suoi si piega
per inchinarlo, et ei resiste e ’l niega.
Odoardo conduce una sortita, ma per mala sorte è vinto e catturato da Clorinda
58Sitibondi di sangue ardono in tanto
quinci i fedeli eroi, quindi i pagani.
Assorda il ciel già de le voci il vanto
e in su le spade già brillan le mani;
ma quanto audaci più, cauti altretanto,
stan sol col piè, non co ’l pensier lontani,
e par ch’ognuno in suo vantaggio attenda
che fatto assalitor l’altro l’offenda.
59Scaltro atleta così, nudo le braccia,
or alto or basso, ora s’inoltra or cede,
né il sé già mai del suo nemico abbraccia
se i cenni pria de i colpi suoi non vede,
e così ancor buon schermidor procaccia
cauto l’occhio girar, guardingo il piede,
per poi meglio esequir l’opre di Marte
e pugnando beffar l’arte con l’arte.
60Ma pur movonsi i Franchi et Odoardo
quindi sortir da la città si mira,
ciò chiede Boemondo, e lento o tardo
non già se stesso a la richiesta ei gira,
ma ratto spinge il piè, volge lo sguardo
dov’il chiama il valor, l’obligo il tira,
premendo in guerra ubbidiente e lieve
corsier c’ha il cor di foco e ’l pel di neve.
61E sembra a gli occhi altrui leon nemeo
cui la tana assediò ferro mortale,
che sdegnando d’un uom farsi trofeo
ei, che di forze ogni animal prevale,
contra lo stuolo insidioso e reo
esce dal chiuso e i cacciatori assale,
e fa superbo a la campagna aperta
de la fortezza sua prova più certa.
62Non però teme il Perso, e che si mova
contra i cristiani anche a Clorinda impera.
Cotanto in suo favor brama far prova
de la feroce intrepida guerriera,
e perché in campo ostil creder gli giova
ch’ella sbaragli ogni nemica schiera,
a lor schermo maggior solo egli gode
che mano feminil n’abbia la lode.
63La sua falange il franco eroe divisa,
spinge in più squadre ove più d’uopo ei vede,
et egli stesso, d’una squadra in guisa,
già tragge avanti a ciascun altro il piede.
Or la sua gente or la nemica uccisa
cader rimira, et or s’avanza or cede,
né ben si scorge ove piegar più deggia,
dubbia in fra lor, sì la gran pugna ondeggia.
64Come, oh come son forti, oh con che core
pugnano invitti i cristiani in campo:
senza saper ciò che sia timore
del periglio han desio, non de lo scampo.
Quanto agitato è più, tanto maggiore
si fa l’ardire, e de gli scudi al lampo
i brandi lor così a ferir son presti
che brandi no, ma fulmini diresti.
65Con tal forza fra gli altri e con tal arte
se stesso mesce il giovinetto in guerra,
ch’egli par Giove tonante o Marte
scesi qua giù da i propri cieli in terra,
e con tanto furor lacere e sparte
l’opposte schiere combattendo atterra
che ferito altri vien pria ch’assalito
e morto altri riman pria che ferito.
66Con cento braccia un Briareo somiglia,
e con tre corpi un Gerion rassembra.
Non urta egli i guerrier ma li scompiglia,
e ’l ferro suo non fère no ma smembra.
Già la terra per lui fatta vermiglia
seminata è d’orror, sparsa è di membra;
già il sangue il piano allaga e già su ’l colle
un colle di cadaveri s’estolle.
67E con battaglia spaventosa e dura
tanto gl’incalza al fin, tanto li preme
che con ordin confuso e mal sicura
fuga se ’n vanno a le pendici estreme.
Grida il fedel da l’assediate mura
e gli accresce gridando animo e speme,
siegue il corso fatal de la vittoria
l’invitto duce, e gloria aggiunge a gloria.
68Ma là corre Clorinda, ove quel forte
fa de’ suoi saracin strage funesta,
e portando d’intorno or piaga or morte
altri atterra di loro, altri ne pesta.
E poi che ’l ciel tal paragone in sorte
le dà vèr lui, la sua gran lancia arresta;
l’istesso ei fa, ma questi insieme e quella
restano al colpo immobilmente in sella.
69Gettano i tronchi, et in un punto istesso
impugnan poscia i duo guerrier le spade,
ma l’un di lor va dal destriero oppresso
che, ferito di stral, sotto gli cade,
e l’altra, or che ciò far gli vien permesso,
a supplicar la vita il persuade:
«Odi, Clorinda io son, renditi vinto
a me» gli dice «o qui te ’n giaci estinto».
70«Ah no no,» le risponde il cavaliero,
«in van di codardia tenti Odoardo,
che se cadde trafitto il mio destriero
non ho già il cor come il destrier codardo.
Non dèe pregiudicar debil corsiero
a l’invitto valor d’eroe gagliardo,
e poi non tu, ma il mio caval mi spinse
pugnando a terra, et egli sol mi vinse.
71Temerario è ’l pensiero, erri se credi
ch’a pagano guerrier ceda già mai».
Ed ella: «Oggi qui dunque oggi a i miei piedi
da pagano guerrier morto n’andrai».
Alzar il brando in questo dir la vedi
per apprestargli al fin gli ultimi guai;
risorge il forte a l’or, et a novella,
ben che infermo di piè, pugna l’appella.
72D’averlo prigionier vie più ch’ucciso
l’altera a l’or dentro il suo cor risolve,
e move contra lui stuolo improviso
che ’l trae con l’urto a ricalcar la polve.
Gli discioglie l’elmetto altri dal viso,
altri in nodi strettissimi l’involve,
e ben sottrar la bellicosa mano
da i lacci ei tenta, ahi ma lo tenta in vano.
73Né lascian già le fide schiere ancora
di procacciargli e libertade e vita,
ma ciascuna convien che fugga o mora
a i colpi rei de la guerriera ardita.
E questo è il fin che in breve corso d’ora
al fin sortì la misera sortita,
fine infelice, ond’il pagan sicuri
de la vittoria sua prende gli auguri.
Odoardo racconta i propri natali a Corbano e alla corte, suscitando ammirazione
74Torna Clorinda al campo amico e seco
quel che già vinse alto campione adduce,
«Né qui gente plebea» dice «vi reco,
ma ben il fior d’ogni più chiaro duce:
ben chi non vede e non conosce è cieco
quel che nel volto suo raggio riluce,
chiunque il mira a i portamenti, a i gesti,
non può non dir: gran cavaliero è questi».
75Del prigioniero eroe gode Corbano,
ché tal gli sembra al nobil suo sembiante,
e ne dà gloria a la feminea mano
che gliel conduce catenato avante.
Indi con atto oltre il suo stile umano
(che con tutti è superbo e minacciante)
chi sia gli chiede, e dove nato e donde,
e intrepido così quei gli risponde:
76«De i reali di Francia alto germoglio
gli avi già furo e gli ascendenti miei,
e se là non calcaro il regio soglio
ebbero altrove almen regi trofei:
sprezzando de la sorte il duro orgoglio
gli ampi peregrinàr lidi europei,
poi passaro in Italia, e prima il chiaro
Serchio, e ’l famoso Tebro indi abitaro.
77Giràr pugnando il piè guerriero e vago
quinci a i Falisci et a i Gravisci intorno,
e gloriosi in su ’l vulsino lago
fecer per lunga età lieto soggiorno.
Aver di scena e di teatro imago
il luogo par, di spessi farni adorno,
e qui chiari albergaro, e quindi poi
trassero il nome i gran Farnesi eroi.
78Da questi io nacqui, e i genitor gelosi
de la mia vita e de la mia fortuna,
da i più stimati astrologi famosi
chieser de i casi miei fin da la cuna:
con pianeti maligni e minacciosi
mi fèr figura ingiuriosa e bruna,
e predissero lor non so ben quali
accidenti gravissimi e mortali.
79Non mi fan noto i providi parenti
ciò che di periglio il ciel destine,
ma per temprare i bellici talenti
m’impiegano a famose alte dottrine.
Dà legge in Gallia a tributarie genti
affettuoso a noi principe affine:
là mi mandano a lui, dov’in gran scole
gioventù studiosa unir si suole.
80Ma fra gli studi il marzial desio
sento pur girmi a serpeggiar su l’alma,
e mi detta d’onor spirto natio
più che fama d’allor gloria di palma.
Marcia in tanto ne l’Asia il popol pio
e l’armata fedel d’Europa spalma,
e un santo vecchio a i principi predice
che non fia senza me l’opra felice.
81Bibliotecari a l’abito, al sembiante,
ma di valor campioni e di costumi,
mandano i cristiani a noi davante
carchi di greci e di latin volumi:
a qualunque è più vago et elegante
volgon, leggendo, i miei compagni i lumi,
io sol mi pongo in gloriose istorie
a notar guerre, a specolar vittorie.
82Poiché scoperto a i geni miei guerrieri
m’han per colui che bramasi in Soria,
scopronsi anch’essi a me per cavalieri
eletti a trarmi a l’opra eccelsa e pia;
m’invitan per sublimi e bei sentieri
al loro acquisto et a la gloria mia,
e, novo Achille a novo Licomede,
io volgo il tergo e porto in Asia il piede.
83Indi traggo me stesso ove a l’Oronte
di chiara tromba il sacro suon mi chiama,
e, di bellico acciar cinto la fronte,
qui vengo a procacciarmi impero e fama.
Ma, di fortuna anch’io soggetto a l’onte,
ch’altrui niega talor ciò che più brama,
qui preso al fine in vostra man rimasi,
e questo è il mio natal, questi i miei casi.
84Ma qualunque i’ mi sia, tu un uom qui vedi
c’ha legate le man, libero il core,
e che pria si morrà ch’unqua a’ tuoi piedi
di viltà far un atto o di timore.
Le grazie avrai da noi ch’a noi concedi,
questo è di guerra il solito tenore:
qual oggi io son qui prigionier fra voi,
tal esser ponno o tuoi più prodi eroi.
85A la battaglia in danno tuo m’accinsi,
signor, no ’l niego, e coraggioso e forte
con le mie genti a guerreggiar mi spinsi
senza nulla temer ceffo di morte.
Corsi, ferii, n’uccisi, e se non vinsi
gloria è il pugnare, il trionfare è sorte.
Quando in guerriero agon piantan se stessi
non son men de gli allor degni i cipressi».
86Così dic’egli, e fuor del volto spira
un bel terror, ch’anche a i nemici è grato.
Corbano istesso il suo coraggio ammira,
e quasi il teme ancor, benché legato.
Poi gli occhi intorno imperiosi aggira,
indi il commette a fido stuolo armato,
tanto egli stima il vagheggiar prigione
fra le sue tende un così gran campione.