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Il Boemondo, overo Antiochia difesa

di Giovan Leone Sempronio

Canto IV

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 2.04.15 7:55

ARGOMENTO
La libertà che poco o nulla cale
ad Erminia, Tancredi invitto presta.
Per ritor Odoardo i Persi assale
Gildippe, e seco ivi piagata resta.
Con mentita pietà coppia infernale
erma stanza, divisi, ad ambo appresta;
che sian morti dubbiosa erra la fama,
ma pur ogni cristian al pianto chiama.

Tancredi dona la libertà ad Erminia, la quale per il dolore sviene

1Contr’ogni assalto ostil stavasi armato
là ’ve la parte aquilonar riguarda
Tancredi intanto, a la cui man fu dato
de la città l’eccelsa rocca in guarda,
e, alzando intorno a lei novo steccato,
ponti e bertesche a raddoppiar non tarda,
e per meglio ciò far scioglier dispone
Erminia sua da la servil prigione.

2Al chiuso ostel de la real donzella
pietoso il guardo, ufficioso il piede
quindi rivolge, et in romita cella
co’ suoi soli pensier sola si vede,
se non che seco al debil fianco anch’ella
la genitrice sua posa concede,
e, rivolto vèr lei, quale è suo stile,
così le parla, affabile e gentile:

3«Infanta Erminia, a quell’estrema doglia
che nel volto t’appar languido e smorto,
ben m’avvegg’io che libertà tu voglia,
e libertà con le mie man ti porto.
Di te non bramo più trionfo o spoglia,
vinta la patria e ’l genitor già morto,
ma vengo a scior quei che cotanto or brami
romper di servitù stretti legami.

4Benché né serva tu né prigioniera
mi fosti mai, né i lacci tuoi già sono,
a sorte io ti serbai men dura e fiera
per darti poscia a’ tuoi congiunti in dono;
ond’or, che tanta qui gente guerriera
tratta ha Corban de le sue trombe al suono,
ei, che di fé conforme, egli che stretto
è a te di sangue, egli ti dia ricetto.

5La stirpe, il sesso, la beltà, l’etade
che in te mirai, ben d’ogni onor fur degni,
e se de’ casi tuoi cura e pietade
avess’io poi, tu te ’l vedesti a i segni;
ma in Asia a conquistar le nostre spade
venner vie più che le reine i regni,
ed io vo’ sovra te titolo e lode
di trionfante no ma di custode.

6Vanne dunque felice, e gli ostri e gli ori
abbiti pur de’ tuoi paterni tetti.
In custodia fedel de i gran tesori
t’assegnarò stuol di guerrieri eletti.
Indi a prestarti i meritati onori
farò teco venir dame e valletti,
e, qual ne la dimora, anche servita
regiamente sarai ne la partita.

7Tu i servi e ’l giorno a tuo talento eleggi,
e rasserena omai l’animo e ’l viso».
Così l’un dice, et è che l’altra ondeggi
fra gioia e duolo a sì cortese aviso;
pur l’è forza mostrar che ’l cor festeggi
e trar su ’l labbro un mentitor sorriso:
finge allegrezza, e porta il ciglio in calma,
mentre agitata in fra i naufragi ha l’alma.

8A mascherar co ’l simulato manto
di bugiardo piacer prende il timore,
da gli occhi al sen va respingendo il pianto
ma in maggior copia ei se le stagna al core.
I gigli suoi perde la fronte intanto,
lascian le gote il lor natio rossore,
e, dentro tutta ardor, fuor tutta ghiaccio,
cade a Vafrino et a la madre in braccio.

9Papavero così che verdeggiante
a fecondo orticel stavasi in grembo,
unito anch’ei con le più molli piante
a ricamar di primavera il lembo,
se ’l crin gli scuote o Zefiro spirante
o gran rugiada o impetuoso nembo,
piega il bel collo, e quasi fatto esangue
in braccio a l’erbe impallidisce e langue.

10Stupisce il cavalier, mentre egli vede
morta svenir la liberata donna.
Ride Vafrin, che chiaro effetto il crede
di quell’amor che del suo cor s’indonna.
Grida la madre, e fresco umor richiede,
squarcia il vel, spruzza il sen, sfibbia la gonna;
indi tanto su lei piange e si duole,
che i rai ritorna a rigoder del sole.

11Ried’ella al fine in se medesma e scote
quel freddo gelo ond’ebbe il corpo avvinto;
rende l’antica porpora a le gote,
né più il bel volto ha di pallor dipinto,
e, qual riprende la natia sua dote
al bel pianger de l’alba un fiore estinto,
tale il pianto di lei che le diè vita
richiama i sensi a la virtù smarrita.

12Le chiede a l’or la genitrice: «E d’onde,
figlia, in te nacque un così strano affetto?».
«Il timor di lasciarti (ella risponde)
in forza altrui fu che m’afflisse il petto».
E così ben gli affetti suoi confonde
così de’ suoi pensier varia l’oggetto
che quel che chiude in sen sembra al sembiante
pietà di figlia, et è desio d’amante.

13«Libera andrà la genitrice anch’essa,»
a lei risponde il credulo guerriero,
«e se non fu da la mia lingua espressa
s’ascriva al labro sol, non al pensiero.
Pon freno adunque a i tuoi sospiri e cessa
da quel dolor che t’assalì sì fiero,
ché s’ella è teco in pari lacci avvolta
giust’è che teco ancor resti disciolta».

14Poiché altra scusa al suo dolor non have
la vaga Erminia, in un bell’atto umile
compon se stessa, e con parlar soave
grazie ne rende al cavalier gentile.
Gli mostra insieme ossequiosa e grave
gratitudine egual, gioia simile
la madre anch’ella, e gli ultimi congedi
già partendo da lor prende Tancredi.

15Al suo partir la verginella amante
raddoppia il duol ch’entro il suo cor nudria,
e dietro a lui, poiché non può le piante,
su l’ali d’un sospir l’anima invia,
e s’a la madre ella non era avante
con sollecito piè forse il seguia;
pur tra i confin de l’onestà si stringe,
l’onor affrena ov’il desio la spinge.

Erminia nottetempo si lamenta

16Or mentre unite in fra di lor sì stanno
a consultar de la partenza il giorno,
già i rai del sol vèr l’ocean se ’n vanno,
già splende il ciel di minor luce adorno,
già brun’è il suol, già muto è il mondo, et hanno
tutti gli aspetti un sol color d’intorno,
e cinta di papaveri la fronte
già l’ombre sue rende la notte al monte.

17Del primo albore al rinascente lume
la genitrice indi partir consiglia,
ma, come è de gli amanti uso e costume,
vuol ciò allungar l’innamorata figlia.
Vansene poscia a ricalcar le piume
et a dar posa al piè, triegua a le ciglia.
Vafrin le serve ossequioso, ed esse
in su i molli origlier traggon se stesse.

18Dormono intanto in braccio a l’aria i venti,
in grembo al prato ogni animal se ’n giace,
muti nel chiuso ovil stanno gli armenti
e nel suo nido ogni augellin si tace,
ma ne i gravi de l’alma aspri tormenti
sola non sa trovar ristoro e pace
l’alta fanciulla, e gli occhi suoi non ponno
aperti lagrimar, chiudersi al sonno.

19Le chete de la notte ore tranquille
ne le ciglia e nel sen nulla riceve;
se le doppian le cure a mille a mille,
né sonno prende, o pur se ’l prende è breve.
La distruggono ognor cieche faville
qual suol raggio di sol falda di neve,
e mentre seco incrudelisce Amore,
cotai pensieri ella ravvolge al core:

20- Ah fortuna, fortuna, e quai son questi
strani furori onde agitata io vegno?
Tu ne’ prim’anni miei serva mi festi,
tu m’involasti il genitore e ’l regno,
né per ciò dal tuo corso anche t’arresti,
né per tanto vèr me tempri il tuo sdegno,
crudel, ma vuoi che, d’ogni aita priva,
amante ancor del mio nemico io viva.

21O ciel, perché no ’l far di fé pagano
se sospirarne io poi devea d’Amore?
e se cristiano il festi, ahi perché in vano
ardermi poi di sue bellezze il core?
Perché contra il mio sangue armar la mano
a lui, ch’esser deveami esca a l’ardore?
No, non m’inganno no, fatto il mio foco
de le stelle vegg’io favola e gioco.

22O me felice e fortunata a pieno
se l’altere d’Europa armi temute
folgoreggiar con rapido baleno
non avessi ne l’Asia unqua vedute!
Ma come poi de l’idol mio terreno
la suprema beltà, l’alta virtute
mirata avrei, se ne la siria terra
non si traea l’oste nemica in guerra?

23Torna, deh, torna omai, torna Tancredi,
ch’Erminia tua né libertà desia,
né sciolta ir vuole, e prendi error, se credi,
che per simil cagion mesta i’ mi sia.
Onde derivi in me dunque non vedi,
cieco, il mio duol, la pallidezza mia?
Ella è color d’amor; vive sepolto
l’ardor del cor nel cenere del volto.

24Corban, no ’l niego, a me di sangue è stretto,
e germi siam d’una radice istessa,
ma dove suole Amor stringere un petto
ogn’altro laccio o si rallenta o cessa.
Ebbi, è ver, tua mercé, fido ricetto,
né mi lasciasti in fra le stragi oppressa,
ma troppo brevi i miei ricovri or sono,
e, dato a pena, ah mi ritogli il dono

25Nulla, nulla a me cal d’argento e d’oro
e valletti non vo’, dame non bramo,
te solo ambisco, o mio gentil tesoro,
e te sol meco in mia custodia i’ chiamo.
Or se di servitù tanto m’onoro
e franchigia e libertà non amo,
tu, che ne l’Asia a i soli regni attendi,
reina non mi vuoi, serva mi prendi.

26S’unqua avverrà che da le vostre schiere
fugga l’oste di Persia oppressa e vinta,
e che s’espugnin poi le mura altere
onde se ’n va Gerusalem ricinta,
o qual gloria saratti, o qual piacere
trarmi superbo al tuo trionfo avvinta,
e dietro al carro, in fra le pinte scene,
vedermi strascinar funi e catene.

27A l’or, ch’al fin farai al patrio lito
di Partenope tua lieto ritorno,
fra l’altre spoglie esser mostrata a dito
anch’io godrò che ti vedrai d’intorno.
A un detto, a un cenno sol colà servito
da me sarai, né recarommi a scorno
ogni vil ministero, anzi i più vili
riputarò più degni e più gentili.

28E se, quale è de’ principi costume,
donna real fia che tu prenda in moglie,
io di mia man t’adeguarò le piume,
io di mia man t’adattarò le spoglie,
pur ch’appagar de’ tuoi begli occhi al lume
possa talor l’innamorate voglie.
Non fia ch’io stimi di reina indegno
servigio alcun: servir chi s’ama è regno.

29Erminia, ove trascorri? ove t’aggiri?
Lascia sì rei pensier, torna in te stessa,
forsennata scioccheggi, ebra deliri,
vinta dal duolo e da l’amore oppressa.
Qual uom, qual belva è ch’a i legami aspiri?
in tutti dunque ha la natura impressa
brama di libertà, fuor che in me sola?
chi mi consiglia, ohimè, chi mi consola?

30Ah, se fra i dubbi onde mi trovo avvolta
non posso t’amar, dolce mio bene,
e se poi, senza titolo di stolta,
prigioniera servir non mi conviene,
resti l’anima omai libera e sciolta
da le membra non men che da le pene.
Mori, mori, che fai? -. Così favella
vaneggiando fra sé l’egra donzella.

31Tal l’infermo tal volta, a cui la mente
co’ suoi vapori arida febre ingombra,
posa non sa trovar, pace non sente
benché la cerchi anche nel seno a l’ombra,
ma quanto più si sta mesto e languente
di più fantasmi il suo pensiero adombra,
e mille suol pria che rinasca il die
finger chimere e mormorar follie.

All’alba la principessa si reca con la madre e Vafrino al campo di Corbano, e vedono Odoardo. Corbano nega a Erminia di liberarlo perché vuole mandarlo in Siria, poi congeda Vafrino con messaggi minacciosi per Tancredi

32Ma spuntan già gli orientali albori,
e riportano al mondo opre e fatiche,
e già partono entrambe, e i lor tesori
portan, partendo, in vèr le tende amiche.
Va con esse Vafrino, e i sensi e i cori
de le rubelle al ciel genti nemiche
spiando nel camin, libere in mano
le tragge al fin de l’empio re pagano.

33O con che gioia egli la vede, o quale
de la lor libertà prende diletto!
Le incontra maestoso, e con reale
pompa le accoglie e con benigno aspetto.
Festeggia il campo, e contener non vale
il soverchio piacer nel cor ristretto,
e più d’un chiaro e coronato duce
se stesso umile a riverirle adduce.

34Ma brevissimo tratto omai lontano
da la tenda real Vafrin s’aggira,
quando di nodo vil cinto la mano
starsi in disparte un prigionier rimira;
lunga pezza il contempla, e cristiano
indi il ravvisa, e per pietà sospira.
Ei non sospira già, né men costante
di quel che s’abbia il cor mostra il sembiante.

35Volg’anche Erminia in quella parte il guardo
dove si stava il cavalier gentile,
poscia fra sé ragiona: – Ecco Odoardo
preda colà di folta turba ostile -,
e perché grato cor non fu mai tardo
ne gli atti di pietà, china ed umile,
tutta colma di duol, la donzelletta
a i regi piè del gran Corban si getta,

36e «Dunque,» ella gli dice «dunque oppressa
d’un cristiano eroe veder qui deggio
d’aspri nodi la man, mentre me stessa
da un cristiano eroe sciolta vagheggio?
La stessa libertà ch’a me concessa
fu da i nemici, a te per loro io chieggio.
Deh, ciò ch’altri mi diè donisi a lui,
che quale egl’è, tal serva anch’io già fui».

37«Quel don che fora a i prieghi tuoi devuto»
le rispond’egli «è darti a me conteso,
ché in Persia io sono ad inviar tenuto
il primiero campion che in guerra è preso.
Ben posso, e sì te ’l giuro, al gran tributo
sciolto mandarlo e da ogn’oltraggio illeso,
onde tu goda in così degni uffici
guarir di cortesia fin co’ nemici».

38Giungon poscia a la tenda, e giunti in quella
che lor s’appresti ogni riposo impone,
indi a Vafrino in guisa tal favella,
con torva faccia e rigido sermone:
«Torna a colui che la real donzella
scioglier curò da la fatal prigione,
e dì che se fuggir brama il mio sdegno
mi renda ancor con la reina il regno».

39Parte il buon servo, e frettoloso e lieve
il suo camin vèr la città riprende,
e ciò che far del prigionier si deveGildippe, scoperta da Vafrino la sorte di Odoardo, sortisce e intercetta il convoglio: è ferita, come Odoardo, ma i cristiani fugano i Persiani
Gildippe già per la sua bocca intende.
Gelida prima ella divien qual neve,
indi se stessa a la bell’opra accende,
e cinta il sen di marziali spoglie
già coraggiosa i suoi guerrier raccoglie,

40e su i confin de l’ultima Soria
là ’ve rapido il piè corre l’Eufrate,
la cristiana amazzone s’invia,
tutta amor, tutta fé, tutta pietate,
né dubbio calle o disastrosa via
le sue belle interrompe orme onorate,
sì che non giunga al solito sentiero
che dritto guida al Persiano Impero.

41Chiusa ne l’elmo e su ’l cavallo assisa,
con la tenera man ferro assettato
brandia la bella, e ne la stessa guisa
seco si stava ogni campione armato
quand’ecco omai che di lontan ravvisa
lungo la riva il cavaliere armato,
ch’inerme è ben qual dei prigioni è stile,
ma no ’l cinge però laccio servile.

42God’egli a l’or che le sue fide genti
ivi raccolte in suo favor rimira,
ma non è già ch’a l’armi, a i portamenti
conosca lei ch’a suo voler le gira.
Ed essa oltre si spinge, e i dubbi eventi
de la gran pugna a pro di lui sospira,
e tanto invoca Amor che nel suo core
già gli uffici di Marte adempie Amore.

43E, in sua virtù vie più de l’uso ardita,
volgesi a lui c’ha sovra gli altri impero,
e grida sì che n’è da tutti udita:
«Cedimi, ch’egli è mio, quel prigioniero».
«Anzi che questi io cederò la vita»,
a le i risponde il persian guerriero.
«E questi e quella ad uno stesso punto
mi cederai», gli fu da lei soggiunto.

44Ciò detto a pena ecco seguir repente
come il fulmine al tuon l’opra a la voce,
ma in van su l’elmo ostil cala un fendente
ché fatato è l’acciar: nulla gli noce.
A l’or quel fier, per doppia rabbia ardente,
vie più s’infuria a la percossa atroce,
e getta anch’ei, sì la feminea mano
schermisce il colpo, un gran rovescio in vano.

45Dal destro a l’ora e dal sinistro lato
fatto di mille rote un labirinto,
ratto così che ’l giureresti alato
l’un contro l’altro ogni destrier s’è spinto.
Or fugante uno stuol ed or fugato
or cede or preme, or vincitore or vinto,
e d’ogn’intorno una sonora e doppia
eco di colpi al ciel rimbomba e scoppia,

46quand’una al fin de le pagane spade
la manca mamma a la fanciulla impiaga,
sì ch’ella pria di tepide rugiade
il molle petto e ’l duro usbergo impiaga,
poi da l’arcion precipitosa cade,
tanto rende il dolor grave la piaga,
e fulminante e fulminata in guerra
va del suo sangue a imporporar la terra.

47Caduta a pena in su ’l fiorito smalto,
d’ira Odoardo e di furor s’accende,
e con rapido piè lascia d’un salto
ambe le staffe e dal corsier discende,
e per mischiarsi in quel sanguigno assalto
de la spada di lei, ch’inutil pende,
arma se stesso, e torna poi con quella
di novo ancor a ricalcar la sella.

48E benché no ’l ricopra elmo o corazza,
pur fra’ nemici intrepido si pone,
né baleno d’acciar, colpo di mazza
da la presa il rattien fiera tenzone;
or urta, or fère, e si fa larga piazza
tra cento armati in glorioso agone,
e sì la forza egli congiunge a l’arte
che men d’Artù favoleggiàr le carte.

49Ma ne l’omero destro, ove congiunta
l’ascella al braccio e ’l tergo al sen si vede,
d’acuto ferro inevitabil punta
con aspra angoscia a tradigione il fiede,
né bene a lui l’empia percossa è giunta
ch’al fatto sì, non al nemico ei cede,
e lasciando al destrier libero il freno
rovesciato appo lei batte il terreno.

50Poiché veduto ambo i lor duci a terra
hanno i fedeli, e giunto danno a danno,
con un grand’urto impetuosi in guerra
lo stuol nemico ad investir se ’n vanno,
sì che freddo timor nel cor si serra
di que’ pagani, e se ne fa tiranno,
né più fidando nel ferrato usbergo
dan, fuggitivi, a le ferite il tergo.

51Fuggono, e nel fuggir tutti a le spalle
han fulminanti i cristian guerrieri,
che incalzando gli van per ogni calle
con minacciosa man pronti e leggieri,
e d’alto monte e di profonda valle
gl’inaccessi varcando ampi sentieri
sembran d’Angei minor timido stuolo
cui persiegue talor d’aquila il volo.

52Mentre lieve così, come avess’ali
l’uno e l’altro drappel lunge correa,
due nemici del Ciel spirti infernaliDue spiriti infernali decidono di intervenire e si travestono da pescatori
fan ne l’atra magion fiera assemblea,
e là dove d’eterne ombre mortali
notte esser suol caliginosa e rea,
in quei sepolti e tenebrosi esigli
questi volgon fra lor fieri consigli:

53«Dunque noi sol de l’implacabil regno
plebe ogni ora sarem timida e vile,
ne l’ozio immersi inglorioso, indegno
d’una cieca qua giù vita servile?
Sveglisi omai quel già superbo ingegno
ch’esser pretese al suo fattor simile,
e per le nostre man picciolo tributo
donisi almen di due sol alme a Pluto.

54Troppo rileva a lui, troppo a noi pesa
ch’oggi sian tanto i cristiani arditi,
e più saran s’a la di lor difesa
avran Gildippe et Odoardo uniti.
Lunge da l’alta et anelata impresa
quindi portiamgli, in più remoti liti,
e vivan ambi in disegual fortuna
l’un dov’ha tomba il sol, l’altra ov’ha cuna».

55Escon ciò detto a rivedere il lume
del ciel perduto e del vietato giorno,
e, qual è de gli spirti uso e costume,
di spoglia elementar cingonsi intorno,
né d’aria sol già la materia assume
ciascun di lor, di cui se ’n vada adorno,
ma con nubi e vapori un misto han fatto
d’acqua e di terra onde resista al tatto.

56E ’l congiungono a sé, come congiunto
esser suol mobil globo al suo motore,
e danno a i membri in un istesso punto,
se non vita e calor, forma e colore.
Né già d’irco e di drago han corpo assunto
ch’altrui rechi timor, porga terrore,
ma in apparenza placidi e dimessi
di molle manto uman veston se stessi.

57Di vecchio pescator rozzo sembiante
prende l’un dessi, pallido e rugoso,
paralitico il capo e vacillante,
ne’ movimenti suoi non ha riposo;
appoggia a debil canna il piè tremante
l’uno e l’altr’occhio ha ne la fronte ascoso,
e porta al suol curve le terga e chine,
ispido il volto e tutto nevi il crine.

58D’antica vecchierella, a cui già cento
anni aggravano il cor l’altro ha l’aspetto:
pendon le gote in fin su ’l mento, e ’l mento
qual giogaia di bue pende su ’l petto;
grondan lagrime ognor ciglia d’argento,
di due smunte mammelle è il sen ricetto,
e una picciola tien povera ciocca
di tre capelli, e due sol denti in bocca.

59In questa forma da i tartarei chiostri
muovono in vèr l’Eufrate i vanni erranti,
e dove in fra sanguigni e tepid’ostri
giaccion feriti i semivivi amanti,
ivi si stan gl’insidiosi mostri
su due barchette mobili e vaganti,
e il sen premendo a i pescarecci abeti
fingon nasse trattar, calami e reti.

Odoardo e Gildippe si riconoscono e gemono

60Dopo grave letargo ecco Odoardo
dal suo lungo languir destarsi al fine,
e poiché volge a chi lo sciolse il guardo,
e vede le sue stragi a sé vicine,
stima empietà l’esser restivo o tardo
nel riparar a le di lui ruine,
e vivo o morto pur ch’egli si sia
il suo liberator scorger desia.

61Tenta alzarsi dal suol languido e lasso,
ma no ’l seconda il piede e no ’l sostiene;
incerto move e mal sicuro un passo
e in mezzo al moto infievolisce e sviene.
S’alza di novo, e incespa in picciol sasso,
e va di novo a ricalcar l’arene,
e cedendo al dolor che ’l sen gli accora
tre volte sorge e tre ricade ancora.

62Poscia dice fra sé: – Dunque mi deggio
or qui morir, qual de gl’ingrati è stile?
né sovverò, se agonizzante il veggio,
in sì gran punto il cavalier gentile?
Se ciò far non poss’io, viver non cheggio,
ch’a ingrato cor la stessa vita è vile -.
Così l’un parla e l’altra l’ode, e lenta
non è in dargli soccorso, e sorger tenta.

63Ma il tenta in van, ch’ivi più volte anch’essa
sorge dal suolo e poi più volte il preme,
e, dal rigor de le ferite oppressa,
ha di scoprirsi or diffidenza or speme.
«Dunque (dicea) non mi sarà concessa
l’amata vista in su quest’ore estreme?
e non potrò, se non morirgli in seno,
esser da lui riconosciuta almeno?».

64Così dicendo al cavalier si volse,
e sospira, piangendo, e risospira,
e per le selci intorno e per la polve
rotolando si spinge e si raggira.
Ma si raggira anch’egli e si travolve,
et anelante ad appressarla spira,
sì che toccarsi in fra di lor succede
e si premon già già piede con piede.

65Con quella forza a l’or che dal dolore
gli vien concessa, ei la guerriera abbraccia,
ma un improviso e subito timore
l’alma nel core e ’l core in sen gl’agghiaccia;
pur tanto al fin gli dà coraggio Amore
che disciorle dal crin l’armi procaccia,
stende la mano a l’elmo e l’elmo sciolto
giovine donna egli discopre al volto.

66Ma quando poi per tanti soli e tanti
l’ecclissato suo sol scorge e ravvisa,
e che Gildippe sua mirasi avanti,
tutta piagata e poco men ch’uccisa,
stupor, prieghi, sospir, querele e pianti
insieme accoppia in miserabil guisa,
né meno anch’ella, che ferito il mira,
singhiocciando fra sé geme e sospira.

67«Occhi miei, m’adulate? alma m’inganni?»
l’un dice «o falsa è pur l’imago o vera?
ahi, chi t’espose a i marziali affanni?
chi qui t’addusse? e chi t’armò guerriera?».
E l’altra: «Amor mi diè già l’armi e i vanni,
Amor mi fé sovra il mio sesso altera,
e se vince Gildippe o se si more
nulla deve al valor, tutto a l’amore».

68Replica quegli: «E sarà ver che moia
la cara mia liberatrice amata?».
Soggiunge questa: «Il qui morir m’è gioia,
troppo la morte a chi ben ama è grata».
Vie più l’altrui che ’l proprio mal gli annoia,
altra piange l’amante, altri l’amata.
Gildippe sua spesso egl’invoca, ed ella
con rauco suon spess’Odoardo appella.

69In queste et in più flebili maniere
dialogando fra sé de le lor vite,
dispera ogni campion, benché leggiere
e non mortali sian le sue ferite;
ma i duo demon, ch’a l’empie frodi e fiereSono presi dai demoni e trasportati agli antipodi del mondo
intenti son, già ne gli abissi ordite,
dove l’acqua è più chiara e men profonda
si ferman qui ne l’arenosa sponda.

70Scendono entrambi in su la riva e pronti
s’offron ben tosto a sovenirli, ed essi,
rasserenando al giunger lor le fronti,
qualche picciola dan speme a se stessi.
E il vecchierello, a cui di già son conti
i lagrimosi lor duri successi,
con finto sì ma placido sermone
suoi falsi affetti in cotal guisa espone:

71«Figli, benché da lunge il gran conflitto
vid’io che feste, e n’ebbi affanno e duolo,
vidi ciascun di voi mesto e trafitto,
tutto sangue e sudor, mordere il suolo,
vidi, e con lieve e subito tragitto
qui mi portai co’ miei legnetti a volo:
fu di vostra salute amore e zelo
che ciò dettommi, e mi vi manda il Cielo.

72Vissi e nacqui a la pesca, e i cittadini
agi sprezzando a le mal nate cure
tra i brevi de l’Eufrate ermi confini
trassi giorni tranquilli, ore sicure.
Mi furon cibi i soli pesciolini,
e bebbi sol le tepid’onde e pure,
e così giunsi a quell’etade a cui
raro o mai giunge l’uom con gli anni sui.

73Questa, che ’l Ciel già mi concesse in sorte
antica moglie a i miei desir conforme,
e dal cui caro nodo altri che morte
non potrà con sua falce unqua disciorme,
questa, seguendo ove bisogno il porte
del mio gelido fianco i passi e l’orme,
qui meco anch’essa in sì pietosa impresa
or s’è condotta, a sovvenirmi intesa.

74Or, quando ciò v’aggradi, a la capanna
ch’io là possiedo in su l’opposta riva,
a cui fa tetto sol povera canna,
coronata d’allor, cinta d’oliva,
vi condurremo, e s’ivi ambrosia e manna
pur non avrete a la stagione estiva,
succhi salubri a l’alte piaghe almeno
v’instillerem che voi portate al seno».

75A la pietosa offerta i duo feriti
dan pace al cor già combattuto avante,
e a i finti sì ma ufficiosi inviti
con l’aita di lor movon le piante.
Già son su i palischermi ambo saliti
l’amante amata e ’l riamato amante,
del vecchiarel prem’ei la nave, e in questa
de la vecchia si sta l’egra donzella,

76ma gli empi mostri, a cui non è conteso
per lo Cielo portar machine e moli,
e fatto a i terghi lor lieve ogni peso,
sciolgono immensi e momentanei i voli;
con quella forza onde talor disteso
hanno il lor corso in su gli estremi poli,
di due brevi legnetti il picciol pondo
traggon veloci a i cardini del mondo.

77Da i tartarei nocchier spalmate ed unte
per lungo tratto il tortuoso Eufrate,
a coppia unite e fra di lor congiunte,
scorron di par le navicelle alate.
Lasciati han già i deserti, e già son giunte
là ’ve preda del tempo e de l’etate
gran stupori del mondo or tra le spine
giaccion le babiloniche ruine.

78Fuor de la foce l’una e l’altra barca
indi si spinge, e rapida e leggiera
quant’ella è grande, a vol trascorre e varca
la felice d’Arabia alta riviera.
S’inoltran poi dove il real monarca
del grande Ormusse ad ambi i lidi impera,
e s’avanzan là dentro al picciol letto
onde il persico mar spuma ristretto.

79Ne l’indico oceano entrano al fine,
e drizzan quindi in varie parti il moto,
pelago immenso e che non ha confine,
o almen fu già ne’ suoi confini ignoto:
quella c’ha in sé Gildippe a peregrine
spiaggie, a cui rar’uom porta Africo e noto,
piega a sinistra, ove rinasce il sole
di se medesmo e genitore e prole.

80L’estrema Calicutte a tergo lassa
e al sen di Bega là girasi intorno
tra Malaga e Summatra, indi se ’n passa,
c’ha sempre eguale a le sue notti il giorno,
e più lontana poi mira e più bassa
la doppia Giava, e ’l ricco lido adorno
rade di Borneo, e le Molucche ardita
in un ampio s’ingolfa onda infinita.

81E dopo lungo e vario corso approda
la pescatrice a un’isoletta amena,
ch’a proseguir l’incominciata froda
deserta sì, ma di delizie è piena.
Or qui la nave a un verde mirto annoda,
che dolce olezza in su la bionda arena;
poi spogliato quel vel che sì l’ingombra
si scioglie in aura e si risolve in ombra.

82Ma d’altra parte ancor l’umil barchetta
che ’l pilota infernal regge e raggira
e ch’Odoardo entro il suo sen ricetta,
con lieve corso al gran camino aspira.
Volgesi a destra, ov’in Esperia eretta
è ne l’Occaso al morto sol la pira,
e ratta e velocissima si spinge
nel vasto mar che l’Africa ricinge.

83Passa ella pria del sen vermiglio a fronte,
poi gli abissini popoli vagheggia,
e in su la foce è già del Termodonte,
colà dove l’amazzoni han la reggia.
Qui le rive a gli antichi ancor non conte
de l’Etiopia esterior costeggia,
e Melinda e Chiloa con l’infelici
di Cefala infeconda arse pendici.

84Piega vèr l’Austro l’affricano lito
in angolo acutissimo ristretto
golfo ch’uom raro è di tentare ardito,
e di Buona Speranza il capo è detto.
Quasi fiero leon scioglie il ruggito
sì pien di scogli e verticoso ha il letto,
e così l’onde sue scote e flagella
rigido turbo ognor, cieca procella.

85Ma pure il varca e ne l’immenso a un punto
etiopico mar prende il sentiero,
e già il legnetto al promontorio è giunto
che da l’adusto suol nome ha di Nero.
Passa a vista di Congo, a cui congiunto
è il capo che i nocchier chiaman Primiero,
e a l’isola del Prince indi si tragge,
e tutte di Guinea scorge le spiaggie.

86E dentro a l’equator, là ’ve spumante
con cinque foci il Negro entra nel mare,
e là dove purpureo e verdeggiante
l’un capo e l’altro a i naviganti appare,
s’allarga indi a solcar lieve e volante
del nortico ocean l’onde più chiare,
fin che al romito al fine ermo terreno
ricovra anch’ei d’un’isoletta in seno.

87Ma non s’è prima il vecchiarel raccolto
ne i lidi suoi ch’a gli altri inganni intento,
lasciato anch’ei di pescatore il volto,
svanisce in larva e si dilegua al vento.
Così qui resta il cavaliero involto
in gran pensieri a l’orrido portento,
come restò da meraviglia oppressa
Gildippe sua ne l’Oriente anch’essa.

La loro schiera sul luogo a cercarli ma invano: ne danno nuova a Boemondo

88Ma il drappello fedel, che ’l persiano
stuol rincalzato a gran carriere avea,
e poi, tracciandol lungamente in vano,
per foresta scurissima scorrea,
a cieco ciel più traviar lontano
dei duci suoi temerità credea,
onde la pesta a i fuggitivi cede
e indietro volge in vèr l’Eufrate il piede.

89Drizzan, là giunti, in su l’arena il guardo,
né fuor che sangue altro da lor si mira.
Chiaman quindi Gildippe, indi Odoardo,
e per più giorni ivi ciascun s’aggira.
Poi d’esser giunto inopportuno e tardo
altri seco si lagna, altri s’adira,
e de gli eroi smarriti il duolo e ’l danno
li preme sì ch’indi partir non sanno.

90Partono al fine, e vergognosi e muti
portano al capitan l’aspra novella,
come fur pria feriti e poi perduti
l’alto campione e la gentil donzella.
Duolsene Boemondo, e son creduti
morti da lui questi non men che quella,
né di conforto è la città capace
perder sì gran valor tanto le spiace.