ARGOMENTO
Il conte di Carnuti, il greco incanto
veduto, narra eccidio menzognero.
Sbanda Alessio i soccorsi, e Guido intanto
celer v’accorre, e resta prigioniero.
L’asta ch’a Cristo aperse il lato santo
trova divoto il solitario Piero,
l’invola indi Clorinda e la sospende;
guerrier celeste a la città la rende.
Il conte di Carnuti in rotta verso Bisanzio entra nel palazzo della Bugia, dove è istruito alla dissimulazione onesta
1Giunto co’ suoi seguaci ove risiede
su ’l sirio mar de la maggiore a fronte
la minore Alessandria, il guardo e ’l piede
ferma confuso e vergognoso il conte,
e ripensando a la tradita fede,
a i rotti voti e a i propri scorni, a l’onte,
de la sua fellonia quasi pentito
par che gl’incresca abbandonar quel lito.
2Ma pur con gli altri in su spalmata nave
anch’egli ascende a dar le vele al vento,
gli scherza in su l’antenna aura soave
e gli spumeggia a i fianchi orma d’argento;
tra le calme però calma non have
l’inquieto pensier nel suo tormento,
e mentre ei va per l’alto, in questa guisa
co’ suoi compagni il traditor divisa:
3«E pur si teme? e pur si fugge? e pure
da noi si lascia il glorioso acquisto?
questi gli oblighi son, queste le cure
ond’è tenuto un cavalier di Cristo?
che dirà il mondo, a cui non fiano oscure
le nostre frodi e che fuggir n’ha visto?
e che dirà la nostra Gallia anch’essa
dove cavalleria più si professa?
4N’abborriran, ne cacciaran da loro
quasi fanciulli instabili e leggieri,
e ne diran, con titolo indecoro,
truffatori di guerra e non guerrieri.
Anzi pur ne diran degno d’alloro,
gran maestri de l’arte e cavalieri,
mentre vogliam con generose brame
morir di ferro e non perir di fame.
5Ma s’egli avien che da le greche arene
gente a lor giunga e vettovaglia a un punto,
e se del Persian vittoria ottiene
l’un esercito e l’altro insiem congiunto,
che scusa avremo a l’or? Dunque conviene
pria che ’l soccorso a i cristian sia giunto
disciorlo, e dir che il nostro campo è vinto,
presa Antiochia e Boemondo estinto.
6Chi sa che intanto poi, priva d’aita,
la difesa città vinta non cada?
e che non perda il capitan la vita
sotto l’acciar di saracina spada?
Ma se ciò non succede e se mentita
si copre la mia lingua, ahi qual contrada
fia nostro asilo? e quai sì forti muri
pon da l’ira del Ciel trarne sicuri?
7Or che farem fra tante angustie e tante?
tornar in Antiochia ove n’aspetta
giusto castigo? andar in Grecia avante
dove sarà nostra viltà negletta?
fermar ne l’Arcipelago le piante
e far nostro ricovro un’isoletta?
o di ramingo piè stato infelice
cui gir, fermarsi e ritornar non lice?».
8Così gli ondeggia a l’ondeggiar de l’onda
in contrari pensier l’anima e ’l core,
e par ch’or lo conforti or lo confonda
strano misto di speme e di timore,
quand’ecco, de l’Egeo giunti a la sponda
con l’amico spirar di placid’ore,
scendon su ’l lido a salutar vicini
i così chiari già grechi confini.
9«Oh reliquie de gli anni, alte ruine
che il sol nome di Grecia oggi tenete,
e tra l’ortiche involte e tra le spine
pietade insieme e maestà rendete!
Voi che già dati a specolar dottrine
i maestri del mondo al mondo avete,
voi n’accogliete ufficiose e voi
date consiglio a’ consigliati eroi».
10Così dicendo il conte oltre se ’n varca
e un gran palagio in su ’l sentiero ei vede,
che reggia par d’imperial monarca
tanto d’altezza ogni altra mole eccede.
Stupido il ciglio al vasto oggetto inarca
né bene ancora a le pupille il crede,
ampio di giro e sferico di forma
par del romano amfiteatro un’orma.
11O quante loggie ei porta in fronte, o quante
colonne ei tien ne la più chiusa parte!
Sorger si mira e torreggiar gigante
con gloria insieme e con stupor de l’arte.
Tal su ’l patrio Metauro il buon Bramante
forse l’avria delineato in carte,
o tal forse dipinto il mio divino
gran Rafaelle, ond’è superbo Urbino.
12Fu l’edificio ad ingannare eretto
de i più semplici eroi gli occhi e le menti;
ombre prive di corpo e di soggetto,
gli balenano in sen gli ori e gli argenti.
Da l’umil soglia a l’orgoglioso tetto
vi campeggiano sol larve apparenti,
e a chi ben la contempla e la riguarda
non è cosa colà se non bugiarda.
13Tutto, dirai, si sviscerò per lui
di Paro antica in bianchi marmi un colle,
ma quei che paion marmi a gli occhi altrui
trova al fin chi le tocca aride zolle.
Son edre, e vepri i ricchi aredi, in cui
nobili i storie effiggiate estolle,
odorosi giardin sembrano i tufi,
fiori gli sterpi ed usignuoli i gufi.
14Sembianza d’acque cristalline e chiare
hanno i più sozzi e putridi bitumi,
un mirto, un cedro, ogni vil bronco appare,
faccia di gelsomin tengono i dumi.
Sotto aspetto di nubi umidi e rare
gli s’aggiran d’intorno aridi fumi,
che tal del cielo e de la terra scherno
in faccia al sol l’architettò l’Inferno.
15De le bugie questo è il palagio, e quivi
s’adunan spesso a consultar congiure,
concili infami e di vergogna privi
di sempre mentitrici anime impure;
né ciò l’antico onor toglie a gli Argivi
o rende lor le proprie glorie oscure,
che noto è già come la Grecia sia
detta madre fatal d’ogni bugia.
16Risiede in questo et è di lor reina
donna grave d’età, carica d’anni,
ch’Eva già trasse a la mortal rapina
ond’ebbe il mondo originari affanni.
Coda di serpe al tergo suo trascina,
cui del manto real coprono i panni,
e al bianco crine un bel diadema avvolto
di bruno vel va mascherata il volto.
17Da le corti d’Italia, ove sovente
stan tra i monarchi a seminar novelle,
la matrona real lo stuol nocente
qui richiamò de le dilette ancelle.
Occhio sempre seren, labro ridente
mostran le simulate empie donzelle,
e per celarsi e gir anch’esse ignote
di belle mascherate arman le gote.
18Pronte nel tratto e scaltre ne l’ingegno
portan duo cori in sen, due lingue in bocca;
cingono al fianco in peregrin disegno
giubba che quasi in su ’l tallon le tocca;
zoppe son tutte et hanno un piè di legno,
ma nissuna però pende o trabocca,
e treccian carolette agili e snelle
come tremule in ciel danzan le stelle.
19Una fra l’altre in su grand’arpe ordita
di fila lucidissime d’argento
le mani intesse e fa volar le dita
con lievi ricercate in basso accento.
Assiste a lei con maestà mentita
difensor de’ suoi detti il Giuramento,
e così dolce ella discioglie il canto
che non sai se sia pur canto od incanto:
20«O cavalieri, entro i cui saggi petti
la terra e ’l cielo ogni sua dote aduna,
e che già foste a grandi imprese eletti
fanciulli ancor da la natura in cuna,
s’amate pur su i popoli soggetti
fabricar a voi stessi alta fortuna,
ah non vi leghi no la lingua e ’l piede
legge d’onore et obligo di fede.
21Poetiche chimere, astratte idee
schiettezza e purità nel mondo or sono:
gradille un tempo e l’adorò per dee
già tratto anch’ei di sì bei nomi al suono,
ma finger oggi e simular si dèe
sempre che ’l chieda ambizion di trono.
Più menton i più grandi e quella frode
ch’al vulgo è biasmo a i più sublimi è lode.
22Sguardi maligni e perfidi saluti,
falsi sorrisi e parolette accorte,
motti mordaci e complimenti arguti,
lusinghe molli, adulatrici e scorte
usan colà, sagacemente astuti,
gareggiando fra lor gli uomini in corte.
Regna chi finge, e finge ogni un che regna,
politica civil così n’insegna».
23Qui ferma il suon la fanciulletta e tace,
e i detti approva il vecchierello e giura.
L’ascolta il conte, e fatto quindi audace
più non apprezza onor, fede non cura.
Mentir con gli altri e penetrar gli piace
con franco piè le bisantine mura,
ma volge a pena a la gran mole il tergo
che si dilegua il portentoso albergo.
24Ripresi a un punto i suoi natii sembianti,
se ’n fugge anch’esso ogn’empio spirto a volo:
chi riede in corte infra i reali ammanti,
e chi ritorna a la città del duolo.
Deserto appar dove gemmato avanti
ridea di fiori e verdeggiante il suolo,
e dove ergevansi i marmi orridi e cupi
s’avvallan ruinosi antri e dirupi.
25Tal in regio teatro immensa scena
librata in su l’acciar d’un picciol perno,
dove i fior seminò sparge l’arena
e dove pose un Ciel porta l’Inferno.
Va lieve sì ch’altri comprende a pena
quel vago a gli occhi avvolgimento esterno,
e in sé celando il suo motore ignoto
già mossa è già quando s’attende il moto.
Arriva a Bisanzio e finge che i cristiani siano sconfitti così che l’imperatore non mandi loro gli aiuti promessi: Alessio ci crede nonostante le proteste di Guido
26S’inoltran quindi i fraudolenti e sono
a l’antico Bisanzio omai vicini,
Bisanzio altier che diè la reggia e ’l trono
a gli Spartani, a i Goti, a i Saracini,
e ch’ebbe poi larghe ricchezze in dono
da i trionfanti imperator latini,
quando il gran Costantin dal Lazio il Tebro
portando in Tracia il rovesciò su l’Ebro.
27Ornollo incolto e dilatollo angusto
de gli splendori suoi fatto architetto,
ond’oggi, ancor di vaste moli onusto,
da lui Costantinopoli vien detto.
Serbossi al fine a più d’un saggio Augusto
per lunghe etadi imperial ricetto,
fin che, da Irene il proprio figlio anciso,
fu l’impero del mondo in due diviso.
28Alessio or qui, dopo molt’altri e molti
lo scettro oriental lieto reggea,
et a pro de’ fedeli insiem raccolti
duo poderosi eserciti tenea.
Furon da lui cortesemente accolti
i cavalieri ov’ei la reggia avea,
et essi al piè l’ossequiosa fronte
chinano prima, e poi gli parla il conte:
29«Invittissimo sire, a la cui mano
picciol sarebbe ogni più grande impero,
quand’anche oltre i confin de l’oceano
si dilatasse a l’universo intero,
tratti dal merto e dal valor sovrano
onde te ’n vai sovra ogni duce altero
noi qui vegnamo a la tua regia corte,
avanzi miserabili di morte.
30A te, cui supplichevole e pietoso
fatto avea Boemondo umil ricorso,
e che così possente e numeroso
qui radunasti a i cristian soccorso,
parrà strano l’udir qual lagrimoso
termin sortì de le lor guerre il corso;
ma pur convien ch’io ’l narri», e fraudolente
pianger si mira e sospirar si sente.
31Ripiglia poi: «De i più minuti danni
trasandarò le picciole punture,
e dirò sol de i più mortali affanni
l’estreme angoscie e l’ultime sciagure.
Tragica istoria, che nel sen de gli anni
sarà famosa appo l’età future,
dovunque nasce il sol, dove s’annida,
ond’Europa ne pianga, Asia ne rida.
32Poiché Corbano, il barbaro crudele,
assediò l’antiochene mura,
il così caro a Dio popol fedele
afflisse ogni or rigida fame e dura;
ben ei sperò ne le vicine vele,
ma gli ruppe ogni speme orrida arsura,
quando di larga messe onuste e gravi
l’empio soldan gl’incenerì le navi.
33Girando a l’ora a i nostri affanni il ciglio,
diede improviso a la città l’assalto.
Corrono i Franchi a quel mortal periglio
e mostran combattendo alme di smalto.
Del sangue più gentil gronda vermiglio
il muro, e là si batte ove è men alto,
ma il vulgo vil, famelico e digiuno,
inutil torpe e non fa schermo alcuno.
34Il Persian su le merlate cime
ascende intanto, e vincitor v’innonda.
Altro co ’l ferro, altro con l’urto opprime,
e la vittoria sua siegue e seconda.
Ferito ha i nostri il capitan sublime,
vien ch’ogni altro si turbi e si confonda;
sol io non fuggo e non m’ascondo, e solo
altri salvo, altri curo, altri consolo.
35Gli occhi io chiusi, in fra molti (e con che core
tu ’l puoi pensare), a Boemondo il forte.
Pugnammo poi con marzial valore,
né fu il salvarci elezion ma sorte.
Fea macello de’ vinti il vincitore,
et era il lor morir strage e non morte:
così cadeo l’oste fedele e tutti
fur da i pagani i cristian distrutti».
36Risponde Alessio a l’or, pur come suole
mostrando di pietà spiriti e sensi:
«Udiamo il mesto aviso, e sì ce ’n duole
quanto a cristiano imperator conviensi;
si pensava inviarvi al novo sole
soccorsi formidabili et immensi,
ma poiché morto è Boemondo armato
noi sbandarem l’esercito adunato».
37Guido, ch’a Boemondo era germano,
stavasi a l’ora al greco rege appresso,
e, duce di sua gente e capitano,
reggea lo scettro al suo valor concesso.
A la novella re a questi la mano
percote, et in altrui piange se stesso,
ma ripensando a chi portolla il petto
si sente riempir d’alto sospetto.
38Poi dice: «O sire, il cavalier bugiardo
favole intesse, e non ha cor né fede.
Lasciò l’impresa e se ’n fuggì codardo,
e ricoprirsi in cotal guisa or crede.
Ha tremante la lingua, ottuso il guardo,
debil la voce e traballante il piede,
mira la fronte a simular mal usa
come s’innostra: il suo rossor l’accusa».
39«Menti» replica l’altro «a dir ch’io menta»,
e freme furioso e minacciante;
ma quegli il ferro impugna e gli s’aventa
ne i primi detti suoi fermo e costante.
Alessio a l’or: «Fermate, e non si senta
rissa o duello al mio gran trono avante».
Tacquero, et ei con lo sbandar le genti
autorizzò del menzogner gli accenti.
Guido torna alla città, è catturato: lancia una freccia con un messaggio e colpisce Boemondo
40Partissi irato, e su ’l fiori del giorno
Guido vèr la Soria volse il camino,
e ratto al suo german fece ritorno
de la vita di lui quasi indovino,
ma, giunto al fin dove si stava intorno
ad Antiochia il campo saracino,
fermato in riva al tortuoso Oronte
ben s’avvid’ei che mentitor fu il conte.
41Quivi si stette in folta selva ascoso
l’arme e i riti a notar d’ogni guerriero,
quand’ecco discoprì stuol numeroso
di foraggianti, e suo prigione il fèro.
Invitto si conduce e coraggioso
avanti al re nemico il prigioniero,
e richiesto da lui sol gli rivela
il nudo nome e ogni altro poi gli cela.
42Posto in gran padiglione e ritenuto
quivi in custodia il cavalier si mira,
far noto al suo german come l’aiuto
svanì di Grecia egli in suo cor desira,
fatto perciò provvidamente astuto,
picciola carta in se medesma aggira,
e con matita fa palese a lui
il proprio stato e le menzogne altrui.
43Quinci rivolge ad un grand’arco il guardo
disarmato di corda, orbo di cocca,
poi d’ali in vece ei pon su ’l calce a un dardo
la chiusa carta, e di sua man l’incocca,
indi con braccio indomito e gagliardo
curvato al fin vèr la città lo scocca.
Ahi come è ver che de’ mortali a gioco
non suol fortuna incominciar per poco!
44Per l’aereo sentier vola lo strale
e dove non vorria porta la piaga:
in Boemondo il calamo fatale
s’incontra a caso, e in mezzo al petto il piaga.
Improviso deliquio il cor gli assale,
e caldo sangue il freddo sen gli allaga.
Traggonsi i duci a la mortal ferita
e in veggendola poi, temon di vita.
45Riviene in ben poch’ore il capitano
et a la cura intrepido s’espone.
Gli stagna il sangue pria fisica mano,
indi la piaga a dilatar si pone;
non ha già molto il balsamo lontano
che in Siria ei nasce a tepida stagione:
di questo e d’altri simili licori
un misto ei forma, ond’esca il dardo fuori.
46Se n’esce al fine, et ei non mira in esso
qual de gli strali è l’uso ali pennute,
ma breve carta, e in fronte a quella impresso
Guido al gran Boemondo invia salute,
mortal salute, onde con empio eccesso
chi salvezza desia, manda ferute.
L’apre, la spiega, e letto il suo tenore
«Ahi traditore,» esclama «ahi traditore».
47Poi si rivolge a i circostanti e rende
la perfidia del conte a lor palese,
narra che là tra le persiane tende
Guido è prigione, e ch’empio stuol il prese,
scopre che in van dal greco re s’attende
quel soccorso che pria certo s’attese,
mostra al fin le sue piaghe, e riportato
vien su le piume, et ha i più fidi a lato.
Pietro mentre prega è rapito in visione estatica: San Pietro gli ha rivelato dove si trova la lancia di Longino e che proteggerà la città finché la custodiscono
48Si spande intanto e si divulga intorno
de i disastri commun l’alta catena.
Corron le schiere al militar soggiorno
del capitan, dove il dolor le mena,
o che geli la notte o ch’arda il giorno
la reggia sua sempre di genti è piena;
ei tutti accoglie, e preme il core a lui
più che ’l proprio dolor l’affanno altrui.
49Se ’n va fra gli altri ufficioso e pio
a visitarlo il placido eremita,
e «Spera,» ei dice poi «spera in quel Dio
ne le mani di cui son morte e vita:
Ei te la dà là su nel Cielo, et io
in nome suo qui ti prometto aita.
Sta lieto intanto, e te medesmo a noi,
signor, riserba et a i trionfi tuoi».
50«O buon servo di Dio, cui senza velo»
ei gli risponde «è l’altrui fato aperto,
disponga pur de la mia vita il Cielo
che in voto già gli ho me medesmo offerto.
Qui ricorrendo al tuo paterno zelo
per me nulla ghiegg’io, che nulla temo,
ma ben per queste genti a te dilette
e care tanto et oggi a me soggette,
51tu per lor priega, e più che foco ardenti
sian le preghiere e volin lievi a l’etra,
e tu, pietoso, a l’affannate genti
nova peripezia piangendo impetra».
Parte, e dove già Pietro a i fondamenti
de la Chiesa gettò la prima pietra,
se n’entra il vecchio, e chino e riverente
curva il ginocchio et alza al Ciel la mente.
52Apre le braccia et in un dolce tratto
se stesso interna, estatico e devoto,
alienato di cor, d’animo astratto,
librato in aria e senza senso o moto.
Di Cielo in Ciel fin ne l’empireo è tratto
a penetrar ciò ch’è nel mondo ignoto,
e, da la propria umanità diviso,
passeggia co ’l pensiero il Paradiso.
53Poi si riscuote, e al capitan se ’n riede,
e così gli favella il buon romito:
«Anch’io fin ora a ciò che non si vede
per le cose visibili son ito,
ma stabil nel mio cor oggi è la fede
per la vista non men che per l’udito:
andai, pregai, et a le mie preghiere
mi s’aperser del Ciel tutte le sfere.
54Lascio il narrar se solide sian elle
e s’un Angel le move o le seconda,
e lascio ancor se stian in lor le stelle
qual nodo in asse o pur qual pesce in onda,
basti saper che sono opre sì belle,
un monil ch’a l’Empireo il sen circonda,
e che pon dirsi appo quei seggi eterni
la luna e ’l sole abbigliamenti esterni.
55Triplicate in se stesse ivi si stanno
tre sacre ierarchie d’Angeli eletti.
Son pure essenze, ignudi spirti, et hanno
molt’ali, occhi diversi e vari aspetti.
Altri di lor sotto il supremo scanno
ministrano al gran Dio, quasi valletti,
et altri poi con peregrine spoglie
fanno, quasi scudier, guardia a le soglie.
56Sovra un trono di luce a l’or vid’io
l’autor de’ raggi e ’l fabbro de la luce,
lume di lume e vero Dio di Dio,
che sol se stesso genera e produce.
Occhi non scorse, orecchio non udio,
né scese in core uman quant’ei riluce;
io ben il so, ma involto in corpo frale
ragionar non ne lice ad uom mortale.
57Pietro m’apparve poi, Pietro l’antico
protettor d’Antiochia, e sì mi disse:
– Brevi trionfi al persian nemico
alta permission fin qui prefisse,
e se ’l diletto suo popolo amico
l’eterno Dio con pochi colpi afflisse,
fu per suo pro, ma non vuol già che sia
trono il mio seggio a gente infida e ria.
58Sotto la soglia di quel tempio, in cui
riverir la mia cattedra si suole,
stassene in luoghi tenebrosi e bui
nascosta al mondo e sconosciuta al sole
la lancia che investì nel sen di Lui
che in sé portò de i nostri error la mole,
quand’ei di sangue il feritore aperse
e a chi gli aperse il cor le ciglia aperse.
59Va’ dunque a Boemondo, e vostra cura
estrarla or sia da quel sepolcro fuore:
fin ch’ella in grembo a l’assediate mura
serbata fia dal cristian valore,
franca ogni gente e la città sicura
sempre sarà dal persian furore -.
Sparve ciò detto, et io rimasi a l’ora
stupido e muto, e tal son oggi ancora.
60Or già tu senti e già comprendi, o sire,
ciò ch’esequir per nostra man si deve».
Mostrasi il capitan pronto al suo dire,Trovano la lancia e la pongono al tempio, ma Arnolfo istiga una sedizione: non supera però la prova del fuoco a differenza di Pietro
e le grazie del Ciel lieto riceve,
e poiché di sua piaga il gran martire
rendesi omai men periglioso e greve,
lascia le piume, e fatto a gli altri esempio
chiama il romito e vanno insieme al tempio.
61Corron le turbe a la solenne pompa
e nel suo core ogni fedel ne gode,
lo stesso Boemondo avvien che rompa
l’aspre del limitar selci più sode,
e ben ch’altri ne ’l turbi e l’interrompa
pur vuole in ciò di guastator la lode,
e dietro lui ne la gran cava anch’essi
movono i duci ad impiegar se stessi.
62Et ecco già fuor de la cieca tromba
sgorga un fiume di raggi e di faville.
Festivi carmi a l’or canta ogni tromba
e lieta sinfonia suonan le squille.
L’asta, de le cui glorie il suol rimbomba,
rubineggia così d’alquante stille,
stille che far il Ciel contento e pago
potevan sole, e pur ne sciolse un lago.
63L’adora pria quel santo vecchio e poi
l’alza a vista di tutti e la palesa.
Vanno a baciarla i più famosi eroi
e mostran di pietà l’anima accesa.
Mercé chiede la plebe a i falli suoi
e fortunato fin priega a l’impresa,
e un sacro inno devoto in suon più chiaro
intuonano Guglielmo et Ademaro.
64Esce il vessil de la celeste corte,
misteriosa insegna e riverita,
per cui l’eterna vita ebbe la morte
e diede l’altrui morte a noi la vita,
cerro beato, a cui fu dato in sorte
il fonte aprir di quella gran ferita,
onde a purgar gli originari errori
vermigli usciro e cristallini umori.
65Per te adempiti i già fedeli accenti
del davidico son lirico ingegno,
quand’ei diceva a le straniere genti
che regnerebbe Dio sol da un sol regno.
Di purpurei abbagliato alti ornamenti
in tra i tronchi tu sei tronco il più degno,
scelto a piegar con duplicato onore
il fianco a Cristo et a l’Inferno il core.
66Così cantando a l’alte mura intorno
portan la gloriosa asta felice.
Mira Corban dal suo real soggiorno
con gli altri eroi la strana pompa e dice:
«Machina a noi qualche tormento e scorno
certo quell’empia gente ingannatrice;
udite come van lieti e festanti
canti a suoni intrecciando e suoni a canti.
67I più cupi pensieri or che si bada
a penetrar de i perfidi ladroni?
Veglisi adunque, et a spirar si vada
gli effetti di quel canto e le cagioni.
Recide ogni armonia colpo di spada,
né convengon tra lor guerre e canzoni,
e ben ne farem noi publica fede
con le nostr’armi a chi di lor no ’l crede».
68S’imbruna intanto e già l’etera mole
sparsa così di qualche stilla appare,
già riposta è nel tempio e già si scote
l’asta fatal su prezioso altare,
e, qual ne le gran feste usar si suole,
già desta il vulgo immense fiamme e chiare,
e per le piazze intorno e per le vie
fa su ’l morir del sol nascere il die.
69Or mentre sollazzevole e festante
disciorsi in gioia ogni cristian si mira,
con temerario ardir gli occhi e le piante
tartareo mostro in fra di lor raggira:
irto il crin, smunto il sen, torvo il sembiante,
ceffo ha di vecchia, e fumo e foco spira,
più d’una serpe ingiuriosa e fella
si stringe al pugno, et Eresia s’appella.
70Uom di perversi e perfidi costumi
era fra lor, e per natali indegno,
ma che sovente in su gli altrui volumi
stancò le ciglia e distillò l’ingegno.
Empio di lingua e torbido di lumi,
lacera più chi più di lode è degno,
mormorator sacrilego e loquace,
sofista menzogner, critico audace.
71Arnolfo egli si chiama; or in costui
gli angui ella vibra e di velen l’infetta,
sì che già ruinosi a danno altrui
s’arma di dialetica saetta.
Scorre per la cittade e dietro lui
sconsigliata se ’n va credula setta,
e per le strade ei sparge e per li tempi
di falso error barbari semi ed empi.
72Dice che quel terren legno profano
l’asta non è che il Redentor ferio,
ma una finta chimera, un sogno vano
d’un romitel che si fa servo a Dio,
che per pascer le genti il capitano
sì folle opinion sparse e nodrio,
e ch’è ragion politica e civile
più che religion frode sì vile.
73Indi con sì bei detti orna e dipinge
la sua menzogna e con parlar sì culto
che, in se stesso diviso, urta e si spinge
già già ondeggiando il popolar tumulto.
I primi germi il capitan s’accinge
ad estirpar di quel nascente insulto,
e in atto sdegnosissimo e severo
tosto si tragge al venerabil Piero.
74Ma il santo cordiglier, ch’ogni sua fede
ha in Dio riposta, a pena il caso intende
che move al tempio frettoloso il piede
vèr la grand’asta, e da l’altar la prende;
ne la piazza maggior poscia se ’n riede,
là ’ve la plebe un’alta fiamma accende,
e con pietosi e sovr’umani accenti
così ragiona a l’agitate genti:
75«Cessi ogni rissa, e in fra di voi più loco
non abbian no sofistiche ragioni,
questo sen, questa lancia e questo foco
de l’innocenza mia fian testimoni.
Il Cielo, il Ciel mallevadore invoco
de’ miei veraci e candidi sermoni».
E mentre le ginocchia a terra piega
con puro zel, così piangendo il prega:
76«Signor, che i tre fanciulli i quai negaro
di Babilonia idolatrar le leggi
salvasti sì che in fra gli ardor scherzaro
intrecciando fra lor danze e passeggi,
se questo il legno è pur, questo l’acciaro
che ti ferì, Tu da’ celesti seggi
or debil vecchio ancor salva e riguarda
sì che ’l foco per me splenda e non arda».
77Così dicendo intrepido s’aventa
(o gran fiducia!) a quell’incendio in grembo.
Viva per altri e per lui fredda e spenta
sembra la fiamma, e più che fiamma un nembo.
Non solo avien che nulla offesa ei senta,
ma né pur tocco ha de la veste il lembo;
vi sta lung’ora, e riverente e pio
al fin se n’esce e ne dà grazie a Dio.
78Stupiscon tutti; Arnolfo sol sembiante
fa di disprezzo e contradir procura.
Pietro gli dice a l’or: «Ferma arrogante,
ricrediti fellon, perfido, abiura».
Ma ne la sua follia fermo e costante
si sta l’iniquo e i detti altrui non cura,
e il capitan, che un sì spietato eccesso
pur vede, il danna a quell’incendio istesso.
79Con duplicato error quel miscredente
di pertinacia e d’eresia convinto,
tosto riman da la più folta gente
catenato le braccia, i piedi avvinto;
poi d’un grand’urto in quella pira ardente
vien di ciascun precipitato e spinto,
se ’l bee la fiamma, e se ’l divora in brani;
apprendete pietà quinci, o profani!
80Ma di quell’asta ha già Corbano inteso,
che tale il crede, il magico successo,
e tra vari pensier dubbio e sospeso
egli stesso così parla a se stesso:
– Dunque a quel ferro c’ha il lor Cristo offeso
difendere i cristian sarà concesso?
Ah no, creder no ’l vuo’, strano mi sembra
che se diè morte al cor sani le membra -.
Clorinda si finge Erminia e si fa aprire le porte con il beneplacito di Boemondo, e sottrae la lancia
81In sì reo soliloquio a lui se ’n venne
Clorinda, la guerriera, e sì gli disse:
«Fin che ’l Palladio entro il suo sen ritenne
fu sicuro Ilion, Priamo già visse,
ma poiché trarlo da le mura ottenne
l’astuta man de l’ingegnoso Ulisse,
con chiare e memorabili ruine
vinti cadero e trionfanti al fine.
82Se dunque non me ’l vieti, io l’alte frodi
rinovarò de l’ittaco guerriero,
e con più saggi e più sagaci modi
portarti in don quella grand’asta or spero;
né vo’ che tu me ’n premi o che me ’n lodi:
premio fia di se stesso il mio pensiero,
e lode da sé sol l’opera aspetta,
gloria l’inspira et il valor la detta».
83Corban l’abbraccia, e placido e cortese
«Vergine coraggiosa,» indi le dice,
«che di sublimi e non vulgari imprese
fosti ogni or ne le guerre architettrice,
per quel sentier che già da te si prese
movi pur lieta omai, vanne felice,
e, di superbe e nove spoglie adorna,
con fausta sorte al campo mio ritorna».
84In atto ossequiosa, umil commiato
prende a l’or al fortissima donzella.
Pronto di lingua e lievemente armato
indi veloce un suo scudiero appella,
ratto così che ’l giureresti alato
se ’n viene il servo, et essa a lui favella:
«Vanne al campion de gli europei campioni
e in breve stil questa ambasciata esponi:
85dì ch’Erminia il saluta, e che nel petto
vivi serbando i già pietosi uffici,
ond’ella accolta entro il paterno tetto
fu già da le cristiane arme vittrici;
mossa da grato e generoso affetto
pregò sempre al suo regno anni felici,
e ch’oggi più che mai brama che siegua
in pro di lui pace, vittoria o triegua.
86Che però d’abboccarsi agio gli chiede
e occulta palesargli alta congiura,
e moverà con un scudiere il piede,
quand’ella il possa, a le guardate mura;
ma per non dar a i Persi ombra di fede
convien che ciò si faccia a notte oscura,
e che sola a lui solo in sì grand’opra
condur si vuol senza ch’alcun lo scopra.
87Ch’egli per tanto a i guardian commetta
ch’a una sola sua voce apran le porte,
e le permettan gir così soletta,
a lei ben nota, a ritrovar la corte.
Soggiungi poi che certa notte eletta
da lei non fu perché l’uscir fia sorte,
ché mal si puote abbandonar la tenda
senza ch’altri no ’l veggia o no ’l comprenda».
88Parte il fido messaggio, et intromesso
in Antiochia a Boemondo avante,
già gli ha il tenor de l’ambasciata espresso,
riverente di lingua e di sembiante.
Volge egli la proposta entro se stesso
de la sua vita e de l’altrui zelante,
e così poscia al messaggier pagano
risponde, affabilissimo et umano:
89«A nostro nome la real fanciulla
risaluta e abbraccia, e dille poi
che venir può senza temer di nulla,
a suo buon agio, isconosciuta a noi,
ché nella reggia ov’ebber già la culla
e in cui regnaro i genitori suoi
la raccorrem, né saran già le guarde
ad ubbidirla o renitenti o tarde.
90Clorinda, poi che dal suo servo intende
la risposta gentil, più non s’arresta,
ma la gran tela a riordir riprende
e l’alta impresa a proseguir s’appresta.
Quando Erminia partì ne le sue tende
rigida d’or, più d’una ricca vesta
lasciata in cura a la guerriera avea,
che poi mandarle entro Sion dovea.
91Olezzano colà d’arabi unguenti
per l’ossequio d’un sen puri alabastri,
s’armano di minuti indici denti
per l’ordine d’un crin candidi rastri,
balenano fra lor gli ostri e gli argenti
disciolti in fiocchi, imprigionati in nastri,
e vi lampeggian d’ogn’intorno appesi
aspri di gemme e preziosi arnesi.
92Quivi se n’entra, e quivi gli occhi aggira
ne la molle de i bissi alta orditura,
e tutto al fin lussureggiar vi mira
ciò ch’è più d’uopo a feminil cultura.
Se ’n duole la forte e nel suo cor sospira
che prevaglia cotanto arte a natura,
e in guisa tal quelle molezze aborre
che, pentita, così seco discorre:
93- Ah Clorinda, Clorinda, e pur fia vero
ch’oggi tu voglia effeminar te stessa?
dov’è quel tuo viril spirto guerriero,
dove la gloria a la tua man concessa?
dunque in vece d’usbergo e di cimiero
porpora et or fia che per te s’intessa?
Ah no, fuggi le pompe e quelle indegne
spoglie di vanità, misere insegne -.
94Ma quando poi rammenta il nobil vanto
che generosa avanti al re se ’n diede,
si tempra a l’ora e s’ammollisce alquanto
e i propri geni a se medesma cede;
a due damigelle impone intanto
che movan ratte ad abbigliarla il piede,
e tutta maestà, tutta decoro
soppon se stessa a i ministeri loro.
95Tre volte l’elmo si disfibbia e scioglie
e tre se ’l lega e se ’l ripon su ’l crine,
ma pur se ’l tragge, et a più lievi spoglie
con miglior culto il fa soggetto al fine.
In folta treccia d’or parte n’accoglie
con barbare divise e peregrine,
parte ne sparge in una lunga ciocca
che su ’l tergo e nel sen bionda trabocca.
96Scingerle il brando le dilette ancelle
tentano poi, ma il tentan sempre in vano,
ch’ella un grido funesto alza a le stelle
qual uom faria per grave doglia insano:
«Io senza spada? io tra le guerre imbelle?
No no, pria senza cor, pria senza mano.
Sotto la veste ella s’asconda, e sopra
con varie piaghe il manto d’or la copra».
97Viene ubbidita, e di superbi arredi
armato insieme et abbigliato ha il fianco,
due gran coturni d’or calzano i piedi,
ond’ella ha il passo affaticato e stanco;
pender sovente e traballar la vedi,
quinci su ’l destro, indi su ’l lato manco,
né sa cinger il vel, portar la gonna,
smemorato ha così d’esser più donna.
98Poi tra sé dice: – Il servo mio fedele
meco verranne a così grande impresa,
ei ne la regia corte, ove si cele
sa l’ignoto sentier ch’a la gran chiesa
altri n’adduce, e vuo’ che me ’l rivele,
la rapina così non fia contesa.
Scaltro è costui, e in Antiochia nato
seguì un tempo ad Erminia e le fu grato -.
99Eletto a parte de’ suoi gravi arcani
l’accompagna e la serve il buon scudiero.
Per lo più cieco ciel taciti e piani
han già vèr la città preso il sentiero,
né si trovan da lei guari lontani
quando la guardia li discopre, e ’n fiero
suono lor grida: «O v’arrestate o dite
chi siete, onde partiste, a che venite».
100«Erminia io son». Quell’apre; ella, ch’entrata
si mira già, pria vèr la regia sede,
indi a l’augusto tempio ov’è serbata
l’asta immortal volge furtivo il piede.
Lunga pezza si sta quivi celata
et osservando va s’alcun la vede,
indi s’inoltra e sconosciuta e sola
dal sacro altar la santa lancia invola.
101Et in sua vece un picciol cerro e vile
che portò seco il suo scudier ripone,
e, perch’opra sì degna e sì virile
a volgar non s’ascriva umil campione,
a note di Soria, con breve stile
in forma di trofeo sotto n’espone:
Ne gli abiti d’Erminia il tergo avvolta,
Clorinda a voi la nobil’asta ha tolta.
102Riede a la porta, e da le fide guarde
inchinata se n’esce e riverita,
né v’è più chi la noti o la riguarde
ne l’improvisa e momentanea uscita.
Non son le piante o neghittose o tarde
al corso a l’or de la guerriera ardita,
ma giunge al campo e di sua propria mano
fa del gran furto suo dono a Corbano.
103Ne gode il fiero, e vuol ch’indi si faccia
un gran pilastro a la sua tenda avanti,
e per più scorno a la cittade in faccia
la ricca preda ivi si drizzi e pianti.
Di sostenerla incontra chi procaccia
ritorla mai son di Clorinda i vanti,
che a guardar sola et a difender basta
un regno intier, non che una picciol’asta.
Si estrae un campione che vada a recuperare la lancia ma prorompe San Giorgio e la riporta in città
104Ecco che rugiadosa in ciel risorge
con roseo crin la sonnacchiosa aurora,
più d’un fedel vassene al tempio e porge
a Dio preghiere, e ’n su ’l mattin l’adora,
ma poiché del gran furto al fin s’accorge,
geme ogni un d’essi, si dibatte e plora,
e intimar s’ode a suon di trombe e grida
che Clorinda i cristiani a giostra sfida.
105Cruccioso a l’ora il capitan sovrano
la sua credulità danna et accusa
poi dice: «Ahi dunque da l’ardir pagano
soffrirò ch’ella sia così delusa?
Anch’essa la mia spada e la mia mano
nel sangue ostile a imporporarsi è usa,
né men qui venni a sostener gl’imperi
che disfide e tenzoni, arme o scudieri».
106L’ubbidiscono i servi e l’armadura
gli recan, cui nulla tempra agguaglia;
si cinge al petto aspra lorica e dura
e noderosa impugna alta zagaglia,
e su lieve corsier fuor de le mura
uscir già pensa a singolar battaglia,
ma rattenuto ne’ gran moti suoi
vien da i più cari e da i più saggi eroi.
107Strano a ciascuno e inconvenevol sembra
ch’egli ch’è duce e non guerrier privato
voglia nel capo avventurar le membra
e far il suo destin publico fato.
«Ah ti soggiunga, o sire, ah ti rimembra
qual sia» Pietro gli dice «oggi il tuo stato:
opra degna non è de la tua vita
quella che può per altri esser compita».
108In alto suon, de l’eremita a i detti
applaudon tutti i cristian guerrieri,
et ambiscono a gara in fra gli eletti
nel glorioso agon scender primieri.
Altri veston gli usberghi, altri gli elmetti,
altri prendon gli scudi, altri i cimieri,
ma li raffrena il capitano, e loro
così ragiona, in maestà sonoro:
109«Se il principe ha ceduto oggi al vassallo,
giust’è ch’anche il vassallo al prince or ceda:
ad ammendar di mia credenza il fallo
vadane un solo, e vincitor se ’n rieda,
ché se pur tutti entro il nemico vallo
ite a ritor la grande ingiusta preda,
tra voi che sète i più famosi, in cura
chi resterà de le difese mura?
110Nel grembo a picciol urna i nomi vostri
pongansi quindi, e a chi di voi la sorte
arriderà, quei se ne vada e giostri
contra il nemico, e un bel trofeo riporte».
D’un vaso alabastrin ne i ciechi chiostri
son brevi carte in sé piegate e torte;
piegolle ei stesso il sommo duce, e in esse
di propria mano i pretensori impresse.
111Clorinda intanto in su ’l destriero armata
passeggia intorno al piedestallo e dice:
«Rimira, capitan, l’asta fatata
che può ne l’opre tue farti felice.
Io la difenderò s’io l’ho furata,
predatrice ad un tempo e schermitrice.
Tu vienne, o manda, ecco già già m’accingo
contra i più forti a sostener l’arringo».
112Stassi con fronte torbida e funesta
Arsete il fido eunuco, il qual bambina
nutrilla in fasce, e nel suo cor detesta
l’ingiusta ch’ella fece empia rapina.
Gli conturba il pensier, l’alma gl’infesta
l’innocente etiopica reina,
ma più l’affligge il minacciar severo
di quel ch’ei vide in sonno alto guerriero.
113Ma già già Boemondo apre e dispiega
l’incluse carte, e nulla al fin vi trova;
stupisce, e le ripiglia, e le ripiega,
e i caratteri primi in lor rinova.
Poi del suo voto il Ciel priega e ripriega
con iterate voci, e nulla giova,
ché da l’urna fatal, né si sa come,
sempre i brevi egli estrae senz’alcun nome.
114Gridano a l’ora i principi cristiani:
«Vuol ch’andiam tutti il Cielo, or che si bada?
Su su, selle a i destrier, briglie a le mani,
piedi a le staffe omai, mani a la spada».
«Anzi no, con portenti a noi sì strani
non vuole il Ciel ch’alcun di noi se ’n vada»
dice il buon Pier «ch’armati d’aureo telo
ha ben anch’egli i suoi campioni il Cielo».
115Ciò detto a pena ecco volar si mira
dal sinistro orizzonte un cavaliero.
Raggi in vece di piastre al tergo aggira,
e una pioggia di raggi ha per cimiero.
Va di raggi bardato, e soffia e spira
da le narici sue raggi il destriero,
e raggi d’ogn’intorno avventa e scote,
raggi il crin, raggi il sen, raggi le gote.
116Il forte è questi e divo eroe ch’estinse
l’assalitor venefico serpente,
ch’a verginella insidie tese, e spinse
nel placido d’un sen l’ira d’un dente;
ne le tribune sue tale il dipinse
devota a lui già l’Etiopia ardente,
e tale oggi l’adora e tal l’inchina
del ligustico mar l’alta reina.
117Scende librato a due grand’ali, e svelle
la sacra lancia a i Persiani in faccia,
indi con luci disdegnose e felle
riguarda Arsete, e torbido il minaccia.
Trema l’eunuco, e fatta quasi imbelle
Clorinda istessa ancor torpe et agghiaccia.
Poi vola in Antiochia e la restaura
del nobil furto, e si dilegua in aura.
118Al gran portento attoniti et immoti
restan quinci i fedeli, indi i pagani.
quelli dan grazie al Ciel chini e devoti,
e lo bestemmian questi empi e profani.
Providenza di Dio, come remoti
de l’opre tue son gl’intelletti umani!
Ne le sue varie il mondo alte vicende
quanto ti piova più, men ti comprende.