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Il Boemondo, overo Antiochia difesa

di Giovan Leone Sempronio

Canto XI

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 1.05.15 8:48

ARGOMENTO
Odoardo in un’isola felice
ove son numi i fior giunto si vede.
Alisa, di que’ lidi imperatrice,
l’impero del suo cor pronto li cede;
sacrilega, a’ suoi cenni esecutrice,
profana il tempio e ’l giglio a lui concede.
Si disperde oltraggiato ogn’altro fiore,
tra spine espiatrici ella se ’n more.

Odoardo termina il proprio viaggio alle Isole dei Giardini, è trovato e curato dalla principessa Alisa

1Là dove spira il sol gli ultimi raggi
ne le continue sue belle agonie,
e, stanco de i perpetui alti viaggi,
morto ogni dì cade dal cielo il die,
esposto intanto a i rigorosi oltraggi
de l’onde ogni ora ingiuriose e rie
Odoardo si sta, sì che languente
tramonta un doppio sol ne l’Occidente.

2De l’ocean ne gli ultimi confini
un groppo appar di picciole isolette
cui ride eterna calma e che Giardini
da i moderni cosmografi son dette.
Qui stan votivi a dea fior peregrini
e sacre al ciel religiose erbette,
et in imago d’or la gente adora
co i figli suoi la bella madre Flora.

3Leggiadra idolatria! S’a l’uom disdetto
per le cose create il Creatore
lasciar non fosse, e qual più vago oggetto
s’adoraria de la beltà d’un fiore?
Ogni germe, ogni stelo è un idoletto,
tanta in sé tien divinità d’odore,
e perché nulla manchi a farli tali
han di vivo color tempre immortali.

4Quivi i bei parti suoi concepe e figlia
senza seme o cultor celibe il suolo.
Su la nascente e tenera famiglia
scendon soavi i zeffiretti a volo,
or con bianca divisa or con vermiglia
lieto campeggia il pargoletto stuolo,
e fassi a pro di sì vezzosa prole
levadrice l’aurora et aio il sole.

5Fior non v’alligna mai, se non gentile
e nobil di legnaggio e di sembiante,
né ammette qui tra i suoi vassalli aprile
se non il fior de’ fiori e de le piante.
Basso rampollo, over germoglio vile
spuntar non osa a sì bel trono avante,
né prende audace ad occupar le glebe
l’umile de’ fioretti ultima plebe.

6Or tra sì vaghi e gloriosi numi
ossequiose ancelle e riverenti
in ciò seguendo i soliti costumi
idolatre de i fior vivon le genti.
Siepe a questi non fan vincastri e dumi
ma verghe di massicci e puri argenti,
et a i cancelli intorno ardono appese
auree lumiere e lampadette accese.

7Quinci gli auguri lor, quindi gli auspici
traggon sovente i creduli devoti,
e feste a giochi e giochi a sagrifici
vanno intessendo, e sagrifici a voti.
Nel ministero de’ pietosi uffici
sol se n’ornàr le tempie i sacerdoti,
e se profano altri ne fura, ascritto
gli viene il furto a capital delitto.

8Metropoli de l’altre una se ’n vede
ch’esente è da ogni gel, da ogni procella,
e dove in soglio d’or regna e risiede
sira reina, altera donna e bella.
A genitor caduto unica erede
nacque, et Alisa in suo sermon s’appella,
bizzarra di maniere e di sembiante
ch’amor non cura e non conosce amante.

9Su i tersi del bel collo intatti avori
le piove in preziosissime ruine
la bionda chioma, e d’eritrei splendori
grave le grava aura corona il crine.
Discerner non si può s’abbian pur gli ori
del diadema o del crin tempre più fine,
né ben si sa qual più prevaglia in merto
l’ornato o l’ornamento, il capo o ’l serto.

10Son gli studi suoi, sono le cure
l’erger gli altari e ’l venerar gli dèi,
e le sacre de i fior belle colture
sovra ogni culto uman piacciono a lei.
Scolpite in luci d’or ricche figure
appendendo lor va quasi in trofei,
e cento gli offre urne gemmate e cento
dona per innaffiarli idrie d’argento.

11Casta così nel suo romito letto
traendo va gelide notti e sole,
umil la prega il popol suo diletto
ad accoppiarsi, e del rigor si duole;
ma pur da lei vien Imeneo negletto,
né cura ha di marito, amor di prole,
e come vili e come impure e sozze
aborrisce i connubi, odia le nozze.

12Ma no ’l consente Amore, Amor ch’al varco
meno aspettato i più rubelli aspetta,
sempre teso ha lo stral, curvato ha l’arco,
et opportuno i cori altrui saetta.
Detto le vien che d’arme ornato e carco
nel picciol sen di povera barchetta
là ’ve di spume incanutisce il lito
stassi languendo un cavalier ferito.

13Curiosa v’accorre, e l’auree spoglie
non più vedute e le bell’armi ammira,
ma quando poi di propria man gli scioglie
l’elmo e l’usbergo, e sanguinoso il mira,
langue a i languori suoi, duolsi a le doglie,
e pietosetta a i suoi sospir sospira,
e le serpeggia un spiritel nel petto
non sa se di pietade o se d’affetto.

14E perché nulla a lei cela e nasconde
quanto ha in sé di salubre arte o natura,
dittamo e panacea stempra e confonde
in molle e preziosissima mistura,
poi ne le piaghe il buon licor gl’infonde
indi il commette a i suoi più fidi in cura,
e su le braccia lor vuol che si porte
nel ricco sen de la sua regia corte.

15Ma quando a ripigliar gli usati onori
comincian poi de la beltà natia
l’egre sue membra, e gli apprestati umori
sanano in loro ogni aspra piaga e ria,
abbandona gli altar, lascia de’ fiori
il nobil culto e i sagrifici oblia,
e sol rivolge il cor, drizza il pensiero
la real donna al semidio straniero.

16Così in lei la pietade a poco a poco
senza che se n’aveda amor diviene,
e le germoglia un ramoscel di foco
non ben inteso ancor dentro le vene.
Ma il cavalier, benché tremante e fioco,
pur se medesmo al fin regge e sostiene,
e per sua man rinvigorito e sano
così le parla placido et umano:

17«Ospite generosa, a cui fu dato
raccormi peregrino, egro sanarmi,
se nulla a pro del tuo felice stato
varrà mia destra e potran mai quest’armi,
segni ogni or ti darò d’animo grato
né fia ch’al proprio sangue anche risparmi.
Ben è di gentil cor giusta vicenda
ch’ad altrui, se la diè, la vita renda».

Alisa chiede a Odoardo di sconfiggere un suo scomodo pretendente

18«Poiché tua cortesia così m’affida
bramo ch’oggi sì impieghi il tuo valore»,
ella dice «e l’ardir ch’in te s’annida
per dar degno castigo a un traditore,
che sol ne le sue frodi empio si fida
e, sprezzando le leggi e ’l proprio onore,
ognor con onte ingiuriose e felle
vanta al proprio signor d’esser rubelle.

19Trifon si chiama, uom fiero et inumano,
ch’a pro di questo regno in varie imprese
contro i nemici insanguinò la mano,
onde sì caro al padre mio si rese
che di sua guarda il fe’ gran capitano;
aggrandito così, di me s’accese
e a tanto ardire il folle ardor lo spinse
ch’a insidiarmi l’onor poscia s’accinse.

20Ma veggendo d’usare in vano ogn’arte
per rendermi cortese a le sue voglie,
indi ch’il genitor da me diparte
severa Parca e ch’ei da queste soglie
fia costretto a partir, irato parte
pria che congedo egl’abbia, e alcuno in moglie
giura che non m’avrà finché vigore
avrà nel braccio, e in sen spirito e core.

21Giunge a’ suoi stati, e molte schiere aduna
di gente a lui soggetta e bellicosa,
né l’inquieto core ha pace alcuna
tra sdegnosi pensieri o trova posa,
pria che l’adduca in mostra ad una ad una
e a’ danni miei il rio fellon la mova;
le spinge poi vèr la città più forte
ch’a lui come ad amico apre le porte.

22A l’Idaspe, a l’Eufrate, al Gange, al Xanto,
ove più d’un monarca altrui sovrasti
porta su l’ale sue la fama intanto
ch’orfana principessa io son rimasta,
e che qual io mi sia, tra l’altre il vanto
d’esser bella ho non sol, ma d’esser casta,
onde meco d’unirsi in un tenace
e sacro nodo a molti re non spiace.

23Ben noto è lor quanto sia il cor festante
in odiar d’Imeneo le faci e i lacci,
ma credon ch’io divenga un giorno amante
e amor co’ suoi legami al fin m’allacci,
giungon perciò messaggi a me davante
che mi recano in un doni e dispacci,
e con maniere affabili e cortesi
le brame fan de i lor signor palesi.

24Trifon n’ode i susurri, e l’ira ardente
nel fiero petto ognor vie più s’accende.
A i confin di quest’isola repente
si porta, e quivi il lor ritorno attende;
giunti che sono al varco, arditamente
si scopre a quei, ma non però gl’offende,
e con aspetto intrepido e feroce
discioglie al favellar così la voce:

25- Alisa a me si deve, e s’altri aspira
a le sue nozze, è temerario ardire.
Se dal folle desio non si ritira
prova meco farà s’io so ferire,
e se sprezza il mio sdegno e la giust’ira
il fio ne pagarà co ’l suo morire.
Qui son signore, e ’l fier Trifon m’appello,
qui l’attendo a cimento et a duello -.

26Restaro i messaggieri a l’improviso
e duro incontro attoniti e confusi,
e a chiare note lesser nel suo viso
gl’insani affetti ch’avea in sen racchiusi.
– Sarà dal brando ogni piatir deciso
né fia ch’alcuno il duellar ricusi,
s’il richieda ragion, s’il giusto il voglia
(risposer poi), e con tua estrema doglia -».

27Qui tacque Alisa, e fisso in lui lo sguardo
in atto umile a la risposta attende.
«Eccomi a’ cenni tuoi,» disse Odoardo,
«da te l’arbitrio e questa vita pende,
né sarò mai ad impiegarla tardo
contro de’ tuoi rubelli e chi t’offende.
Pugnerò, vincerò, al traditore
trarrò dal sen non men che l’alma il core».

28«Vanne, campione invitto e generoso,»
ella soggiunse «e ’l Ciel benigno arrida
a’ miei e tuoi desir, ch’in te riposo,
vanne e Trifon tua forte destra uccida.
Già vincitor ti scorgo e glorioso».
«Andronne (ei dice), e da te solo in guida
chieggio un scudier, ch’al coraggioso, al forte
sol la spada e ’l valor son fide scorte.

29Ma in qual parte del mondo io mi ritrove
spiegami intanto, e la provincia e ’l sito;
dimmi qual clima oggi m’accolga e dove
mi spinse il fato, e come è detto il lito.
Dimmi se Cristo o pur Macone o Giove
da voi s’adori, e ’l sacrificio e ’l rito».
Stupisce a la richiesta e si confonde
la real donzella, e poi così risponde:

30«Ti ritrovi, o signor, fin su gli estremi
del gran mar d’Occidente orli gemmati,
e i nostri tempi e i nostri altar tu premi
se col leggiadro piè tu premi i prati.
Qui regno in pace e qui per dèi supremi
i più vezzosi fior sono adorati,
ma poiché tu vi giungi e vi dimori,
di tua beltà sono idolatri i fiori.

31Pur, qual ei sia questo mio regio trono
e queste ricche mie belle isolette,
già ti prestano omaggio e tue già sono,
a te vassalle e non a me soggette.
Ti do con lor gli aviti censi in dono
e le più care a me gemme dilette,
e ti darei … » ma un gelido timore
legolle il labro, e volea dirgli: “il core”.

32Soggiunge Alisa: «Qual da noi distante
e remota provincia a te diè cuna?».
«Gallia (dic’ei) già nutricommi infante,
e trassi da quel ciel fato e fortuna».
Replica a l’or la timidetta amante,
da un soave desio fatta importuna:
«Beata region, terra felice
ch’a sì bel cavalier fu genitrice.

33Ahi così vaghi in così vago clima
tutti ancor, qual tu sei, nascon gli eroi,
o la beltà che tra le prime è prima
è fatal privilegio a i merti tuoi?».
Così dic’ella, e ’l cavaliero estima
fumi d’un chiaro incendio i detti suoi,
et a i sospiri et al pallor del volto
ben s’aved’ei d’un vivo incendio accolto.

34Ma poiché solo in olocausto il core
a la cara Gildippe offrì primiero,
d’esser d’altra bellezza adoratore
non che lo stabil sen, niega il pensiero.
Finge simplicità, mostra timore,
e pur vive d’amor sotto l’impero,
né lascia egli però, come è suo stile,
d’usar ogni atto urbanamente umile.

Odoardo vince Trifone, al suo ritorno Alisa gli offre il proprio talamo

35Al fin se ’n gìo, pugnò, vinse et uccise
in fiera pugna il misleal Trifone,
restàr sue schiere attonite e conquise
a l’ardir, al valor del gran campione,
e de l’ignote a lor armi e improvise
schivàr la pugna e ricusàr l’agone.
Poi co ’l partir si procacciàr lo scampo
abbandonando la cittade e ’l campo.

36Giunse su ’l dorso de i destrier veloci
a la regina di Trifon la morte,
e tutta risonar di liete voci
al grato aviso s’ode a l’or la corte.
Brillan di gioia ancora i più feroci
tale è il piacer che loro avien ch’apporte,
e con gran pompa in portamento altero
accoglie Alisa il vincitor guerriero.

37Gli vuol donar la bella un prezioso
purpureo manto onde s’adorni il tergo,
ma no ’l riceve il giovine ritroso,
cui sol piace vestir rigido usbergo.
Non come ospite suo ma come sposo
raccorre il brama entro il suo regio albergo,
et ei no ’l soffre, e rispettoso ad arte
dimora sol ne la men nobil parte.

38Poi, ripensando in qual mortal periglio
lasciasse già la sua primiera amante,
et al fatale e violento esiglio
ond’ei lunge da lei tragge le piante,
scioglie i labri in sospiri, in pianto il ciglio,
in fiamme il core, in ceneri il sembiante,
e querulo così, flebile e solo
accusa il suo destin, sfoga il suo duolo:

39«Dove sei, mia Gildippe, e qual remoto
mi divide da te vasto oceano?
qual rio pianeta, a mio sol danno immoto,
viver mi fa da l’alma mia lontano?
Forse altro cielo al nostro cielo ignoto,
forse altro mare al nostro mare estrano
te qual son io, dentro l’angusta terra
d’un’isoletta umil chiude e riserra?

40Dura division trar la radice
dal proprio tronco e creder poi ch’ei viva,
sterpar da gli occhi la virtù ch’elice
lo sguardo e chieder poi virtù visiva,
sveller da un egro cor l’anima altrice
e immaginarsi in lei l’anima attiva,
da l’ecclitica sua schiodare il sole
e ’l dì sperar su la terran mole.

41Ma cento mondi e mille cieli insieme,
formando un vasto margine, fra noi
si frapongano pur, ch’un giorno ho speme
rigoder vagheggiando i raggi tuoi.
Gran lontananza il vol d’amor non teme
sia dal sen de l’Esperia a i lidi eoi,
ma in ogni parte ad ogni stesso punto
lieve se ’n vola e pria che voli è giunto.

42D’altra rara bellezza un dolce oggetto
ben oggi s’appresenta a gli occhi miei,
ma non può nova imago aver ricetto
in questo sen dove scolpita sei.
Non son capace no di doppio affetto,
né s’essere il potessi anche il vorrei,
che ne l’impero altissimo d’un core
non vuol compagni et è monarca Amore.

43Su questa spada mia fede ti giuro,
fede immortal, fede che mai non erra,
e se ti son già mai falso e spergiuro
non possa io più mirar l’assiria terra,
il regno antiochen goda sicuro
senza di me l’oste fedele in guerra,
et a me sol nel glorioso acquisto
si dinieghi adorar l’urna di Cristo».

44Da l’altra parte l’infelice Alisa
tragge morbidi i dì, fredde le notti,
dorme talor su dure piume assisa
da vigile martir sonni interrotti;
non ha quiete, e di torrenti in guisa
diluvia su ’l bel sen pianti dirotti.
Or sorge or si ricorca, or le sue spoglie
si cinge or scinge, or lega il crine or scioglie.

45Di pianger sempre e di pensar non cessa
ma di mille pensier nullo le piace,
de gli altri impaziente e di se stessa
non dona a i suoi desir tregua né pace.
Langue d’un bel pallor la gota oppressa,
né i labri pinge più grana vivace,
e poco in sé ritien l’occhio amoroso
di lieto, di soave e di vezzoso.

46S’ange a l’angoscie sue, piange al suo pianto
Tisbe, la vecchia a lei cara nodrice,
e sterpandosi il crin, squarciando il manto,
tutta colma di duol così le dice:
«E fin quando senza sposo a canto
agghiacciata trarrai vita infelice?
sarà dunque da te sempre aborrito
il bel nome di madre e di marito?

47Ah figlia, ah figlia, intenerisci e piega
il tuo pur troppo adamantino ingegno:
senza ragion dal tuo rigor si niega
a te l’erede, il successore al regno;
se te ’l detta natura, Amor te ’n prega,
guarda, o crudel, non irritarli a sdegno;
sol ne gli amati figli a noi dal fato
rinovellar la nostra vita è dato.

48Che pensi? che vaneggi? ove t’aggiri?
Lascia il folle rigor, gradisci et ama.
Fievolezze d’un cor sono i ritiri
e in van donna senz’uom donna si chiama.
S’avien ch’altri ti brami e ti rimiri
miral tu ancor con lieto ciglio e ’l brama,
e a chi gode servirti in vassallaggio
da’ pegni di progenie e di legnaggio».

49Aggiungon questi detti esca a l’ardore,
sicurezza al timor, speme al desio,
sì che scosso dal volto ogni rossore,
più non mostra a le nozze il cor restio.
«Nodrice,» ella risponde «il mio rigore
ecco a i consigli tuoi pongo in oblio;
oggi ad Amore il natural tributo
vuo’ dare anch’io, né più Imeneo rifiuto.

50Ma dimmi: a un cor pudico, a un’alma amante
lice amar quel che lice o quel che piace?».
«Quel che piace (dic’ella); or qual sembiante
è de gli affetti tuoi fatto capace?».
«Quel vago eroe, quel cavaliero errante»
replica l’altra «oggi mi strugge e sface.
Riverisco lui sol, lui solo adoro,
lui chiedo, lui desio, per lui mi moro».

51Stupisce la nutrice a i novi accenti,
de la reina, e poi così ragiona:
«Del tuo bel regno e che diran le genti
se porgi a uno stranier la tua corona?
Vi son ben altri eroi che riverenti
bramano unirsi a tua real persona,
ned è giusto ch’a’ tuoi tu tolga il trono
per darlo poscia a un peregrino in dono».

52«Se giusto non ti sembra, or non si faccia,
che nulla curo o successori o figli.
Non men da te che da ciascun si taccia,
né più d’Amor né d’imeneo consigli»,
sì parla la fanciulla, e la minaccia
con occhi d’ira e di furor vermigli,
ond’ella cede, e poiché nulla giova
il contradirle, il suo pensiero approva.

53Ma dispongono prima irne a gli altari
e trarne auspici avventurosi e lieti,
indi in pensier così dubbiosi e vari
de i lor numi esequir gli alti decreti.
Vuole Alisa però che si prepari
ne i siti più riposti e più secreti
gran sacrificio, e ne i più aperti lochi
mille s’intreccin poi carole e giochi.

54E per ridurlo a riamarla amato
a la gran pompa il cavaliero invita.
Ecco s’appresta omai l’alto apparato
che sol se stesso in regio lusso imita;
a spettacol sì vago in ogni lato
corre la gente in vari groppi unita,
e pria s’odon sonar timpani e sistri
da squadra di bracmani e di ministri.

55Altri portan di lor rastri e bidenti
d’ebani oscuri e biancheggianti avori,
altri di terso acciar sarchi taglienti
o marre di massicci e solid’ori,
altri erpici e roncon di puri argenti
e seghe acute in peregrin lavori,
altri clepsidri anguste, onde in più spilli
qual da poppa fedel l’acqua zampilli.

56Canuto il manto e più canuto il crine
d’argentee vitte e d’auree stole adorno,
in contegno senil viensene al fine
il maggior sacerdote a l’ara intorno,
e sciolte a gran tribuna alte cortine
tre volte gira ov’ha sepolcro il giorno,
e tre volte ove fanciul rinasce
dal mar il sol che bambineggia in fasce.

57Indi in urna tersissima e gentile
d’ambra e di mirra un ricco misto accoglie,
e su tripode d’or, come è suo stile,
mille ardenti fiammelle in fumo scioglie.
Con novo ardor de l’adorato aprile
al sacro culto olezzano le soglie,
e par che quel soave arabo fiato
quasi bell’alma ad ogni fior sia grato.

58Compiti i sagrifici, in prato ameno
quasi cento fanciulli ed altre tante
fanciulle ancor, nude le braccia e ’l seno,
a l’impero d’un’arpa alzan le piante.
Sotto il candido piè ride il terreno,
e de i vestigi suoi par che si vante;
poi con carmi dolcissimi e canori
a le danze così tessono i cori:

59«Egli è biondo di crine e non canuto,
e si pinge fanciul, non vecchio, Amore;
chi li brama pagar grato tributo
gli dà tenero un seno e molle un core;
fa tra le fiamme sue giusto rifiuto
ne la decrepità d’un sciocco ardore,
e stima sol ne’ delicati petti
morbidezza d’etade atta a gli affetti.

60Non s’innestan fra lor gioia e vecchiezza
né convengono insiem piaceri et anni,
che da noi porta lunge ogni dolcezza
il tempo edace su volanti vanni.
Son de l’umana e natural bellezza
nemici i lustri e i secoli tiranni,
giovine cavalier prenda opportuna
offerta in fresca età bella fortuna».

61«Senti, Odoardo,» a l’or soggiunge Alisa,
«chi sia che t’instruisce e t’ammaestra
amorose dottrine in dolce guisa
di fanciulli t’espon schiera maestra:
e tu porti da me l’alma divisa
e sol nata a pugnar vanti la destra?
Ti giuro, e in testimon chiamo il tuo merto,
ch’arderò in tomba ancor cener coperto,

62che se pur del mio amor dubbio tu sei
e degni premi al tuo valor richiedi,
mallevadrici de gli affetti miei
io ti prometto in don regie mercedi.
Fian de le brame tue spoglie e trofei
i miei più ricchi e preziosi arredi,
chiedi il regno, egli è tuo; chiedi me stessa,
serva m’hai, già mi ti son ancella».

Odoardo per aggirare la proposta con eleganza le propone una prova impossibile: deve raccogliere il giglio proibito e portarglielo. Alisa lo fa, nonostante il divieto

63Ma il cauto eroe, che vuol con saggie frodi
pur de l’ospite sua nutrir la speme,
e lieto fin con ingegnosi modi
brama sortir d’un suo disegno insieme,
lodi accoppiando industrioso a lodi
finger non sdegna e simular non teme,
«Parte vorrei di que’ leggiadri fiori»
le dice poi «che per tuoi numi adori.

64D’un chiaro oltramarin sparsi e dipinti
nel bel giardin zaffireggiar vid’io
non so ben dir se gigli o se giacinti
e mi nacque di lor nobil desio.
Oh come fanno in vago groppo avvinti
pompa gentil del bel color natio!
Oh come sovra gli altri in lor prevale
un non so che di maestà reale!

65Questi chiedo da te in guiderdone
di quanto oprò mia destra a tuo favore,
e più che scettri e che real corone
caro lo stel mi fia d’un sì bel fiore.
Le gemme più pregiate in paragone
di lor mi sembran di verun valore,
e sol mi stimarò pago e felice
s’innestarli al mio scudo oggi mi lice.

66Or se questi mi dai, lieto e festante
tutto in lor vece io l’amor mio ti dono».
Pensa in suo cor l’irresoluta amante
quanto sia grave e la richiesta e ’l dono;
pur dal mondo e dal ciel l’anima errante
spera trovar pietà non che perdono,
e già notturna e solitaria e mesta
la man profana al sacro furto appresta.

67Tre volte poi su la fatal rapina
stende il braccio tremante e tre il ritira,
or l’aborrisce, or a la preda inclina,
e se medesma in vari moti aggira.
– Dunque (seco diceva) io che reina
feci il divieto, io che ciascuno in ira
che trasgredisse i miei decreti avrei,
sarò primiera ad oltraggiar gli dèi?

68No, ch’a l’istesse leggi a cui tenuti
sono i vassalli è il prince anch’ei soggetto,
sì ch’a i volgari popolar statuti
non fu già mai legislator ristretto.
No, che ’l tòrre a gli dèi gli onor devuti
a i supremi monarchi anche è disdetto,
sì che chiamarsi può lecito ogni atto
in cor gentil che per amor sia fatto -.

69Così dicendo apre i cancelli e svelle
dal sacro stelo il tenero virgulto,
e per fuggir l’impetuose e felle
temerità del publico tumulto,
per le reali e più riposte celle
il porta a lui segretamente occulto.
Entra anelante, e giunta avanti al vago
«Eccoti pago,» esclama «eccoti pago».

70Prend’egli il dono e in un bell’atto onesto
il giusto le ne dà merto infinito,
indi ne forma un glorioso innesto
in su lo scudo suo d’oro forbito,
e con un vel di puro argento intesto
e di canuti e fini bissi ordito
l’ammanta intorno, e lo ricopre al fine
onde celate sian l’alte rapine.

71Ma la gentil, che ’l prezioso prezzo
de gli amor suoi dal caro eroe desia,
tutta ardor, tutta grazia e tutta vezzo
un umil priego al cavalier n’invia.
In atto ei di contegno e di disprezzo
compone a l’or l’affabiltà natia,
e «Quai ricerchi tu nove mercedi
(le dice poi) se l’amor mio ti diedi?».

72«Real sostanza e non astratta idea»
risponde al sagace «è al mondo amore,
e in darno l’uom ne la sua mente il crea
se non lo prova ancor pratico il core.
Ben quella pianta e quella terra è rea
che non rende al cultor frutto né fiore,
non ti vuo’, cavalier, bramoti sposo,
meco congiunto in imeneo pietoso».

73Ma il saggio e buon guerriero, a cui sovviene
ch’al servigio di Cristo è pria tenuto,
e ch’a Gildippe sol render conviene
de la sua pura fé giusto tributo,
benché si trovi in su straniere arene
esule peregrino e sconosciuto,
più d’onor che d’amor servo a la scola
diniega il compiacerla e la consola:

74«Datti pace, o reina: a me non lice
teco qui star, benché d’onori avvinto.
Altra terra mi chiama, altra pendice
et a glorie europee sentomi spinto.
Ne l’Assiria a rotar spada vittrice
voto m’astringe o a rimanervi estinto,
ma dovunque n’andrò vivi sicura
cara d’essermi sempre e dolce cura».

Dall’isola scompare la primavera eterna e il fiore viene trovato sullo scudo di Odoardo: i cittadini cercano di linciarlo, lui è rapito e salvato da una nube

75Strano fra tanto e portentoso orrore
inferocir ne l’isola si mira,
arida ogni erba e languido ogni fiore,
già ne gli ultimi odor l’anima spira,
agonizza l’aprile, il maggio more,
il proprio funeral Flora sospira,
e piange primavera oscuri e bruni
i gigli suoi degenerati in pruni.

76Carco d’acute spine aspro roveto
d’aghi pungenti il bel giardin diviene,
e quel che fu sì prezioso e lieto
duri et ispidi roghi in sé contiene.
Serpe a chi ’l mira un certo orror segreto
per le fibre del sangue e de le vene:
i precetti celesti alcun non tronchi,
son fiori interi e rotti a noi son bronchi.

77Corre la plebe intimorita e mesta
e a la reina sua chiede vendetta;
del sacro furto immobile ella resta
né sa ben se la nieghi o la prometta.
Dovuto zel la spinge e la molesta
a vendicar la deità negletta,
ma tempestosa il cor, torbida il ciglio,
gli affetti suoi la chiamano a consiglio,

78e fra sé dice: – Or che dei fare, Alisa?
Se celi la sacrilega rapina
il regno tuo con lagrimevol guisa
la giusta struggeratti ira divina;
se poi la scopri, eccoti al fine uccisa,
e nulla ti varrà l’esser reina,
ma converratti, da gran pena oppressa,
giudice insieme e rea punir te stessa.

79Ahi che dico me stessa?, anzi colui
ond’ebbe il furto original cagione,
l’esecutrice e la ministra io fui
di ciò che chiese il seduttor campione.
Dunque in lui cada e si rovesci in lui
ciò che di pena a un tanto error s’impone.
mora, mora il crudel, mora il rubello
disprezzator del mio reale ostello.

80Ma morrà la mia vita? e fia pur vero
che involontaria amanticida io fia?
avrà duri castighi il cavaliero,
s’io feci il fallo e se la colpa è mia?
tanto or puote in un cor sdegno severo
e sì tosto in un’alma amor s’oblia?
e ’l mio cocente affetto ad una breve
rassomigliarsi effimera si deve?

81Infelice reina, entro il tuo petto
ecco serpe il furore, eccomi irata.
Chi già del regio e marital mio letto
la dotal ricusò sorte apprestata
tra catene durissime ristretto
senta pena crudel, morte spietata,
e chi beffando la mia gloria antica
amica non mi vuol m’abbia nemica.

82Andrò; ma dove andrò? Fermati, o sciocca,
né fabbricarti i precipizi al piede.
Dirò; ma che dirò? Taci mia bocca,
né romper de l’ospizio a lui la fede.
Forse fra noi non si saprà chi tocca
ha la grand’ara e fatte in lei sue prede -.
Così dicendo, torbida e confusa
or piega a la difesa or a l’accusa.

83Ma ecco torna a lei turba di gente
che già trovato il nobil furto avea,
e prigioniero il giovine innocente
al regio tribunal seco traea.
Ahi qual non ha possanza in core ardente
amato oggetto e riverita idea?
Alisa a pena il cavalier rimira
ch’un tacito sospir tra i labbri aggira,

84poi chiede lor: «Questi ch’a me s’inchina
perché fu preso? e di che colpa è reo?».
Gridan tutti altamente: «Ei la rapina
de i sacri fiori a i nostri altar già feo».
Risponde quei: «Magnanima reina,
le rapine fa sol braccio plebeo,
te stessa in testimon chiamo e ’l tuo trono
che questi fior furto non son ma dono».

85Mostrasi in atto intenerita e pia
la bella a i detti suoi giudice amante,
e dice a le sue genti: «Ahi ver non fia
che chi non fece error tengasi errante.
Innocente è il guerriero, io son la ria,
se colpevol può dirsi alma regnante,
ma quando in regio cor cadan difetti
lascisi lui, la pena in me si getti».

86Stima così la generosa un giorno
comprarsi intero il di lui vivo affetto,
e il cavalier, di nove grazie adorno
di novo obligo ancor sentesi stretto.
Ma corre cieco e incredulo d’intorno
e si reputa il vulgo esser negletto,
credendo sol che per salvar l’amato
ruini appassionata ella il suo stato.

87Poi con impetuoso urto ferino
diluvia sovra lui turba infinita,
sì ch’egli stassi a traboccar vicino,
dubbio de la salute e de la vita,
quand’ecco man celeste, occhio divino
strana gli danno et opportuna aita.
Sorge improvisa e nel più fiero assalto
nube il ricopre e lo solleva in alto.

Alisa si immola per espiare il peccato comune

88Stupiscon tutti e sovra tutti anch’essa
insassita di mente e di sembiante
stupisce Alisa, e da gran duolo oppressa
scaglia un querulo al ciel strido sonante:
«Cessa di più volar, cessa, deh cessa,
spirito peregrino, alma vagante,
qual insolita a noi machina ignota
per l’aereo sentier t’agita e rota?

89Opra ella fu del Ciel, ch’ebbe in sua cura
la tua salute e che serbar ti volle.
A lui do grazie, che per via sicura
da i perigli a gli onor lieto t’estolle.
Va’ pur felice a l’assediate mura,
difendile, trionfa. Agiata e molle
io qui ti pregarò fama e vittoria,
tu riserba di me colà memoria.

90Le donne qui de gl’indiani chiostri
stimasti a i tuoi pensieri indegne idee,
tutte l’altre in amor dunque son mostri
e sol quelle d’Europa a te son dee?
L’esserti stata io tal ne’ regni nostri
a mio difetto ascriversi non dèe,
vie più si sprezza in amoroso oggetto
titol di fé che leggiadria d’aspetto.

91Godi pur d’esse, e pronto a i di lor cenni
gli alti demerti miei fa’ pur palesi,
narra quanto t’amai, come ti tenni,
come t’accolsi e come ti difesi;
in dignità real non mi contenni,
in molto t’esibii, poco ti chiesi,
sprezzasti le mie nozze, altre migliori
donin le stelle a i tuoi primieri amori».

92Così dic’ella, e poi ch’al fin si vede
priva restar de i sospirati lumi
e ch’al giardin l’antico onor non riede
ma sol s’armano in lui triboli e dumi,
espiator de le commesse prede
vuol che ’l suo sangue implacidisca i numi,
e per dar di pietà gran paragone
al publico perdon morir dispone.

93Le braccia e i piedi a fiero scempio ignuda
e il resto poi di sottil vel ricinta
perch’altri non la tenga e la deluda
al roveto mortal sola s’è spinta.
Entra animosa ov’è ch’ei più si chiuda
a i propri scempi immobilmente accinta,
et a l’estreme sue meste ruine
le più dure brandisce acute spine.

94Due se ’n pon ne le tempia et altre tante
manda il centro a investir de le pupille,
due n’affigge a le mamme, et ondeggiante
fa il bianco sen di porporine stille;
quelle poi che calpesta il piè costante
son schiere insieme unite a mille a mille,
e con tenace presa altre ne tiene
ne’ muscoli, ne’ polsi e ne le vene.

95Due sopra tutte al fin grosse et acute
da me le man brandiscono le dita,
et alto esclama: «Ecco a la tua salute
offeso popol mio, sacro la vita.
La sacro ancor se pur non la rifiute
a te, Odoardo, e se pur t’è gradita,
ch’amo di pari et egualmente degno
è di mia morte il cavaliero e il regno.

96S’io qui mi sveno in tepidi torrenti
l’ire a placar de gli oltraggiati dèi,
son i fatali miei duri accidenti
di pietade e d’amor giusti trofei.
Nome di pia mi donaran le genti
e dirà il modo: oh quanto amò costei!
S’errò pagò morendo anche gli errori
et ebbe come i fior numi gli amori.

97Sacra religione a i vostri affetti
da le sventure mie, donne apprendete:
amanti idolatri e dèi negletti
non pon dare ad un cor gioia e quiete.
De i desir più ferventi e men perfetti
mirate nel mio sen quai sian le mente».
Qui una spina a la gola e l’altra al core
s’inchioda invitta, e tace e cade e more.

98Giace traffitto il nobil corpo e scioglie
sopra un monte di pruni un mar di sangue.
Tra i vassalli sonar publiche doglie
s’udìr, vedendo la reina esangue;
su le sanguigne sue lacere spoglie
l’isola tutta impietosita langue,
e gran tomba ideando a la sua fama
di fé la loda e di pietà l’acclama.

99Intanto il bel giardin lascia gli orrori
e si ringemma d’odorosa prole,
corre intorno la gente a i novi fiori
e lieta li rimira, umil li cole.
Senza figli al suo regno e successori
la perduta reina a lor sol duole,
e i ricchi d’olocausti e sagrifici
fanno a l’esequie sue pietosi uffici.

100In quell’istesso luogo, ove la bella
a sé diè morte, a lei dan tomba ancora
di propria mano la real donzella
ricopre il sacerdote e poi l’infiora.
V’appende sopra al fin ricca tabella
e questi gran caratteri v’indora:
Chi a bella penitenza ha ’l cor rivolto
muor tra le spine, indi è tra i fior sepolto.