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Il Boemondo, overo Antiochia difesa

di Giovan Leone Sempronio

Canto XII

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 1.05.15 8:52

ARGOMENTO
Gildippe tratta a l’isola del sole,
ove scettro Alidor tiene e corona,
vaga di gir ne la vietata mole
v’entra profana e rea vi s’imprigiona.
Ch’il re stesso l’uccida il rito vuole,
amante ei sé trafigge e a lei perdona,
ma pur mentre su l’ara il colpo attende
nube l’invola e un’aquila vi scende.

Gidippe giunge all’isola del Sole, viene curata dal suo regnante, Alidoro, che le spiega il culto solare della sua gente

1Ma in clima diseguale egual fortuna
ne gli amor suoi prova Gildippe anch’ella;
giace là dove giace il sole in cuna
un’isoletta che del Sol s’appella,
qui semiviva, a l’ombra cieca e bruna,
sotto le piaghe sue langue la bella,
e a le ferite ond’è traffitta implora
chirurga l’alba e medica l’aurora.

2Et ecco a punto in su l’aprir del giorno
quand’è più l’aria candida e vermiglia,
gira sospesa i languid’occhi intorno
e grato oggetto al fin trova a le ciglia:
giovine altier, di ricche spoglie adorno,
cui fa nobil corona ampia famiglia
tra le selve cacciar mira dal lido
onde oppressa dal duolo alza uno strido.

3Beltà maggior de la beltà di lui
de l’uom già mai non concepì l’idea;
ciò ch’è più di gentil sparso in altrui
epilogato ei nel suo volto avea.
Sembran di terso avorio i membri sui
e ’l suo bel crin di lucid’or parea;
su le molli dirai gote amorose
stillossi un giglio e si svenàr due rose.

4Per farsi a gli occhi suoi vaghe pupille
volontarie dal ciel cadder due stelle,
che con brillanti e tremule faville
ne gli orbi de la fronte ardon gemelle.
Gli scherzan su ’l bel labro a mille a mille
valletti gli Amorin, le Grazie ancelle,
e spira ogni suo moto, ogni suo gesto
un non so che di grave e di modesto.

5Non per elezion ma per retaggio
signore è questi in su le patrie arene,
e come è suo costume il primo raggio
del sol nascente ad adorar se ’n viene,
ma colà volge il piè, drizza il viaggio
dove colei geme, agonizza e sviene,
e tosto grida a i suoi: «Venga chi vuole
veder in riva al mar un altro sole».

6Ma quando poi s’inoltra e che vicine
scopre le luci amorosette e vaghe,
e le sembianze angeliche e divine
tutte sangue vagheggia e tutte piaghe,
ponsi a sciugar le vermigliette brine,
ond’ella avien che ’l bianco petto allaghe,
e in pochi giorni a le di lei ferute
con empirica man reca salute.

7A lei reca salute e al proprio core
ne la salute altrui porta la morte,
perdon le gote il lor natio rossore,
gelide, esangui, incenerite e smorte.
Sana la bella e ’l miserel si more,
fabbro a se stesso di nemica sorte;
la serve umil, l’ama pudico e tace
anche il morir, tanto onestà gli piace.

8Se volge un guardo timidetto e lieve
rotto il rivolge e non intier di giro,
e se sospira un momentaneo breve
gli germoglia dal cor semisospiro.
Tutto foco sovente e tutto neve
non cura i suoi martir posa o respiro,
e senza svaporar gli cova al petto
cieca fiamma d’amore, ignoto affetto.

9Ma la sagace donna, a cui palese
è il chiuso ardor ch’ei tien nel cor sepolto,
vuol il foco temprar ch’ella gli accese,
e placidetto a lui raggira il volto,
modesta insieme e pia, casta e cortese,
lento gli brama almen, se non disciolto,
il nobil laccio ond’ei fu preso e l’ama,
e il serve sol quanto conviensi a dama.

10Poi del suo nome e del suo stato il chiede,
e qual sia la sua patria e la sua gente,
s’egli è cristiano o se pagan di fede
d’intender curiosa ancor si sente,
e poiché bello oltre ogni bello il vede
poco riman che non se ’n mostri ardente,
e n’arderebbe ancor se non avesse
le fiamme d’Odoardo al core impresse.

11Tutto sospeso il timidetto amante
d’un modesto rossor tinge le gote,
e, neve al tatto e cenere al sembiante,
gela, ammutisce e respirar non puote,
ma pur al suon di tante grazie e tante
si rinfranca animoso e si riscote,
poi di novo si turba e si confonde
e, rincorato al fin, così risponde:

12«Donna, se donna pur chiamar si deve
chi nulla ha di terreno e di mortale,
Alidoro i’ m’appello, e in questa breve
isola preziosa ebbi il natale;
qui da gli imperi miei legge riceve
vassalla nazion, turba leale,
e qui s’inchina e qui si cole un nume
tutto rai, tutto luce e tutto lume.

13Su quale incude e dentro qual fucina
e da che man fosse formato il sole
con varia e dialetica dottrina
duellan fra di lor dubbie le scole:
chi diafana palla e cristallina,
chi nube accesa o ardente sasso il vuole,
e chi de la celeste intelligenza
un puro astratto et una quinta essenza.

14Nel torto cerchio suo molti gli danno
duo moti, un naturale, un violento;
principe de le stelle alcuni il fanno,
e facella maggior d’ogni elemento;
altri norma del dì, legge de l’anno
il credon poscia, or ravvivato or spento,
ma di novella opinion più vaga
la nostra mente e ’l nostro cor s’appaga.

15Immortale in se stesso et increato
quel vasto luminar da noi si crede,
feconda è la sua luce e generato
pria del sol, poi da l’uom, l’uomo si vede;
né già romito intorno e sbandeggiato
volge pe ’l ciel com’altri pensa il piede,
ma tien là su la bionda fronte immota
e qui la terra intorno a lui si rota.

16Il centro lucidissimo del polo
ei qui si stima, immobilmente eterno,
intorno a cui lieve s’aggira il suolo,
qual s’aggira talor machina a perno;
né a l’Occaso se ’n va ramingo e solo,
lento l’estate e frettoloso il verno,
ma in fra gli orror più tenebrosi e bui
più ch’egli a noi, noi tramontiamo a lui.

17Ché se ’l guardo n’adula e se ci pare
che sia mobile il sol, vano è ’l pensiero:
così movesi il lido e sovra il mare
star fermo il lieve pin sembra al nocchiero,
e gir correndo al viandante appare
il sentiero così più che ’l destriero,
ma quell’occulta e strana meraviglia
è un inganno de gli occhi e de le ciglia.

18Or tal nel cielo è il nostro nume e tale
la deità ch’oggi da noi s’adora».
«Fallace deità, nume mortale»,
la donzella gentil soggiunse a l’ora,
«poiché nel dì novissimo e fatale
cadrà con l’altre stelle il sole ancora.
O di vana follia misero stato,
sprezzar il Creator, darsi al creato!

19Ma tanto al mondo è nostra mente ignara
e ne gli error così scioccheggia il core
ch’a l’altrui sguardo, a l’altrui mano è cara
la pittura talor più che ’l pittore.
Dunque si riverisce, e un tempio, un’ara
s’erge al mosso qua giù più ch’al Motore?
Ahi pensier poco saggio e poco pio,
il mosso è il sole, il suo motore è Dio.

20Non sarà dunque stabile e costante
globo che dal suo pondo è in sé librato?
né si dirà da noi pianeta errante
quel che fu già da Giosuè fermato?».
Così dic’ella, e ’l dubbioso amante
rimansi a i detti suoi muto e gelato,
e, idolatra di lei che ’l cor gli accende,
la sua religion più non difende.

21«Ma dimmi» ella soggiunge «il tempo e ’l sito
a gli olocausti, a i sagrifici eletto,
e se solennizzato è il sacro rito,
a cielo aperto o sotto ascoso tetto».
«Giganteggia gran tempio in questo lito,
con strana forma» ei le risponde «eretto,
che non so ben se più da noi s’apprezza
per vastità, per lusso o per ricchezza,

22par un mondo nel mondo, e in queste arene
maggior del continente è il contenuto;
non fu già mai su le terrene scene
miracolo più bel da te veduto,
né i navigati marmi a lui le vene
l’Asia svenaro e l’Affrica in tributo,
ma la beata sua soglia felice
a pianta feminil toccar non lice.

23Or qui si suol, su ’l maturar del giorno,
sagrificar da i popoli devoti
e qui se ’n van sinfoneggiando intorno
a più cori e più suoni i sacerdoti.
Qui de gli altar su l’uno e l’altro corno
svenansi gli olocausti, offronsi i voti,
e un’aquila real ch’a lui s’affisa
è la più cara al sol vittima uccisa».

Ansie notturne di Alidoro e Gildippe

24Parton, ciò detto, et a goder se ’n vanno
entro gli alberghi lor posa e quiete,
ma rotte pur da l’animoso affanno
restan l’ore del sonno umide e chete.
Pace e ristoro i lor pensier non hanno
ne le più cupe ancora ombre secrete,
e la notte, che a tutti esser benigna
suol, madre di riposo, è a lor matrigna.

25Dentro il suo cor con tacite parole
seco stesso così parla Alidoro:
– Io dunque sono adorator del sole?
Ah no, ma il sol del sole amo et adoro.
Modestia e purità d’amor le scole
m’insegna solo, onde tacendo io moro.
O follia miserabile e inudita,
per tacer il suo mal perder la vita!

26Deh getta omai, getta i rossori, o fronte,
lascia il timor, lascia i rispetti, o core,
le ciglia no, ma ben le labbra ha pronte
che cieco è sì ma non già muto Amore.
Non chieder acqua un sitibondo al fonte
chi vide mai simplicità maggiore?
Non offende il signor se ’l servo chiede
a la sua servitù premio e mercede.

27Ma che? Non porta seco il pentimento
unqua il tacer, ben il parlar il porta;
tacciasi dunque il mio mortal tormento
e, morto il cor, la lingua ancor sia morta.
A gli amanti è velen troppo ardimento
e loquace importun nulla riporta,
ma talor pudicissimo e modesto
forza ha di voce un movimento, un gesto.

28Opri altri pur con le parole, io voglio
parlar con l’opre, e a l’opre già m’acingo.
Dicami che da un colle o da uno scoglio
me stesso io getti, e giù da lor mi spingo;
dicami che di Marte al fero orgoglio
il petto esponga, et entro or or l’arringo;
dicami ch’a le fiamme in seno io vada,
et ecco m’apro in fra gli ardor la strada.

29L’impossibil mi chieda, e per me fatto
possibile il vedrà; tacito e solo
in pioggia lucidissima disfatto
l’or de le stelle io scioglierò del polo.
Di propria man, benché veloce e ratto
fermarò il moto al mare, al vento il volo,
e fatto a le mie braccia un lieve pondo
il mondo intier divellerò dal mondo -.

30Ma d’altra parte sospirosa e mesta
la fanciulla gentil così favella:
«Ahi dunque il Cielo in sì bel corpo innesta
spirto a lui contumace, alma rubella?
cor sì pudico e fronte sì modesta
impressa ha in sé religion sì fella?
come quella beltà ch’a Dio somiglia
non ha Dio ne le lebbra e ne le ciglia?

31S’ei cristian fosse di fede e s’io
sciolta di cor, ne languirei d’amore,
ma culto ei siegue insidioso e rio
e d’altro laccio io catenato ho il core.
Odoardo è il mio ben, l’idolo mio,
di bellezza minor, non di valore,
un non so che di più ne gli altrui petti
portan di tenerezza i primi affetti.

32Altri dicano pur ch’è men cocente
e men riscalda altrui fiamma lontana,
che ne la tormentosa egra mia mente
lontananza per me piaga non sana.
Bramo il futuro ben, sprezzo il presente,
né già taccia ho per ciò d’anima insana.
Sazia l’aspetto, e per virtù natia
ciò che si vieta più, più si desia.

33E quando egli non viva, e che speranza
non abbia mai di più veder l’uom forte,
qual raggio di conforto oggi m’avanza
ne la nubila mia torbida sorte?
Amoroso calor cresce e s’avanza
tra le ceneri ancor gelide e smorte.
Non si lasci d’amar perché si mora,
il vero amor varca le tombe ancora.

34Ma s’avvien ch’ei sia vivo e che procuri
le nostre nozze e a gli amor miei si serbi,
pria che sian dunque in lor stagion maturi
raccorrò i frutti e sterparolli acerbi?
Ah no, ma speri, et a i piacer futuri
se stessa un dì l’anima mia riserbi:
più grato un core e più gradito giunge
anelato gioir quanto è più lunge».

Gildippe vuole vedere il tempio, proibito alle donne, Alidoro le apre le porte: il sole si oscura, i cittadini lo interpretano come un presagio, vanno al tempio e trovano la donna

35Già d’ombre il ciel si spoglia, e vago lume
per farne pompa al dì già sparge il sole,
lascia Alidoro l’inquiete piume
e corre umile a la sacrata mole,
ma giunto al tempio ov’il suo patrio nume
placar co’ voti e riverir si suole,
in su ’l toccar del limitare ei vede
l’amata donna, e vi sospende il piede.

36Sazia del sonno e curiosa, anch’ella
vèr la solenne pompa il passo invia,
e da l’ospite suo l’alta donzella
entrar nel sacro asil chiede e desia.
Priega e ripriega il giovine la bella
et ei mostra a ciò far l’alma restia,
ché de l’imposte e rigorose pene
il dolente tenor bel gli sovviene.

37Compiacerla vorria, che se lo merta
quel puro e casto affetto ond’ei l’adora,
ma teme poi non resti al fin scoperta
la lor diffalta e che ciascun ne mora.
Dubbia gli ondeggia e ne’ suoi moti incerta
la volontà, che non ha calma ancora,
e naufragando il torbido pensiero
né sì né no nel cor gli sona intiero.

38Ma che non pon d’amata donna i prieghi?
Beltà sol non ottien quel che non chiede.
Già sembra già che ’l cavalier si pieghi
a le sue brame, e tutto a lei concede.
«Nulla» dic’egli «a te, mio ben, si nieghi».
Mov’ella ratta a l’alta mole il piede,
ma pria giusto desio le persuade
a vagheggiar l’esterior beltade.

39Smisurato di sito e di sembiante
e di modello sferico e ritondo;
su ’l gran tergo il gran tempio a un gran gigante
appoggia altier di sé medesmo il pondo.
Tal ne la Libia il mauritano Atlante
base facea de le sue spalle al mondo,
e ne l’Egeo con somiglianti modi
giganteggiava il gran Colosso a Rodi.

40Due gran porte ha ne’ piedi, e due gran scale
tien ne le gambe e ne le coscie ascose,
onde per cento gradi ogni or si sale
a le parti più ricche e più fastose;
ma la sala maggior de l’altre sale
nel cavo ventre alto ingegner ripose,
varie stanze formogli in mezzo al petto
e nel centro del core un gabinetto.

41Nel globo poi che su le terga ei tiene
stassi racchiusa una real tribuna,
dove devoto stuol spesso se ’n viene
a chieder grazie, a supplicar fortuna.
Son di vasella d’or l’are ripiene
in cui scolpito ogni splendor s’aduna,
e, qual su ’l Tebro al Panteon si scorge,
gran foro vertical lume gli porge.

42Di cristallo montan tutto il formaro
gli alti architetti e gli ingegnosi mastri,
se non sol quanto un prezioso e raro
ordin d’intorno ha di gemmati incastri.
Tien di zaffiro rilucente e chiaro
e di purissim’or le sfere e gl’astri,
e sì mirabil luce in sen riserra
che ’l giuraresti un ciel disceso in terra.

43Entrano poscia a vagheggiar quei chiostri
e nel centro di lor ciascun s’aggira,
e quanto avvien che quel signor le mostri
tutto in suo cor la bella donna ammira.
Qui meco or voi deh lagrimate inchiostri,
e tu agghiacciati o man, penna sospira:
entrano sì, ma nella mesta entrata
v’è chi gli osserva ascoso e chi li guata.

Gildippe è condannata a morte, nonostante le rimostranze di Alidoro

44Nel seno intanto a l’isola succede
solito al mondo e naturale evento,
raro ben sì, ma che da lor si crede
non più visto nel ciel novo portento:
sanguigno la fronte errar si vede
nel cielo il sol con cento macchie e cento,
e si stima in tal guisa e si presume
offeso insieme et adirato il nume.

45Ignoranza pagana, in quanti errori
co ’l cieco ingegno a traboccar te ’n vai?
Non sol Dio non intendi e non onori,
ma di natura i termini non sai:
da rosse pietre fervidi vapori
a stessi del sol traggon i rai,
che la faccia di lui turbano, e sembra
sparso nel ciel sangue d’umane membra.

46Ma tratti pur da quel fallace inganno,
pensan sdegno celeste il gran successo,
e diligenti ad ispiar se ’n vanno
se ’l tempio sia da piè femineo impresso.
Vi ritrovan Gildippe, e tosto fanno
al sommo sacerdote il caso espresso,
e, catenata il sen, l’alta donzella
traggono a lui, mesta non men che bella.

47Ei pria la mira rigido e severo,
poi le dice: «Sei tu l’empia ch’ardio
fermar licenziosa il piede altero
dentro il tempio maggior del nostro dio?».
Risponde la fanciulla: «Il vidi, è vero,
v’entrai, vi dimorai, quella son io».
Replica il fier: «Gli alti decreti miei
ti dannan dunque, e rea di morte sei».

48Ella soggiunge a l’or: «E quando mai
degno di morte un peregrin si stima
che cerchi meraviglie? Io qui v’entrai
per celebrarle entro il mio patrio clima;
s’entrai, signor, sol curiosa errai
e in tale error non son già io la prima».
«La prima sei che ne la sacra sede»
egli le dice «hai posto audace il piede».

49«In van (quella ripiglia), in van mi danni,
che dove è privilegio ivi è perdono».
Quegli adirato: «O come mal t’inganni!
Ma chi ti diè tai privilegi in dono?».
«Benché ravvolta entro feminei panni
da chi ’l potea privilegiata io sono»,
replica l’altra, e inviperito e rio
grid’egli: «E chi ’l può far se no ’l son io?».

50Mentre parlan così giunge veloce
del gran periglio ad Alidor l’aviso,
ond’egli a la novella empia ed atroce
si sterpa il crin, bagna di pianto il viso,
e il regio suon de la temuta voce,
trattosi al sacerdote, alza improviso:
«Sciolgasi l’innocente e non s’uccida,
io la condussi al tempio, io le fui giuda».

51Stupisce il buon ministro a l’or che vede
complice il re de la celeste offesa,
ma non per tanto ei s’avvilisce o cede,
né la causa commun lascia indifesa.
«Sire (gli dice, indi perdon gli chiede),
corregger chi mi regge oggi mi pesa,
ma chi dà legge ancor al fin conviene
ch’ei soggiaccia a le leggi et a le pene.

52Mira il ciel che s’oscura, il sol che langue,
quai vuoi de l’ira sua segni più mesti?
aspetterai che incenerito, esangue,
senza vassalli il regno tuo si resti?
No no, signor, de la fanciulla il sangue
l’offeso nume a sodisfar s’appresti,
e per l’istessa man svenata e morta
rimanga che a l’error le fu già sorta».

53«Ritrattati del voto empio et insano,
giudice temerario», il re risponde,
e a percoterlo in faccia alza la mano,
ma quegli se ’n sottragge e si nasconde.
A l’atto disdicevole e profano
corre il vulgo adirato e si confonde,
e lo fa prigioniero e vuol che senza
indugio adempia omai l’alta sentenza.

54Come restasse il giovinetto amante
sol no ’l sa dir chi non conosce Amore:
vorrebbe a un punto istesso esser zelante
del sacro culto e del reale onore, ma si
reca ad orror la man tremante
che sia de la sua donna ei l’uccisore,
ed esser contra lei crudo e severo
sdegna non che la destra anche il pensiero.

55Così con vari gesti e vari moti
s’agita, si dibatte e s’inquieta,
porge preghiere a mondo, al ciel fa voti,
chiede perdono al lucido pianeta;
ma nulla giova umil richiesta, e vuoti
vanno i suoi prieghi e non ritrovan meta,
e lo flagella in cento modi e cento
la speranza non men che lo spavento.

Alidoro uccide se stesso per salvare l’amata

56Ma in publico teatro a l’altrui pene
il sacro altar già si rimira eletto,
e con la scure in man già già se ’n viene,
tutto duol, tutto pianto il giovinetto.
Ma tace la fanciulla e si contiene
e il men perfetto sesso è più perfetto,
e con la mente in su l’empireo assisa
poco le cal se qui rimansi uccisa.

57Prostrata a i piè de l’amador gentile
intrepida si getta e coraggiosa,
e gli ragiona in così dolce stile
che farebbe una selce anche pietosa:
«Signor, su ’l collo a peregrina umile
alza pur franco il duro ferro et osa:
giusto non è che caso sì sinistro
se non duole a la rea, dolga al ministro.

58Benché, se pure il mio pensier non erra,
né carnefice tu né rea son io:
entrar qua giù del sol nel tempio in terra
fu curioso, è vero, uman desio,
ma quel tempio immortal per me disserra,
s’io moro, il Ciel, che per suo sole ha Dio.
Là con avide ciglia e piè satollo
mirarlo ogni ora e passeggiar potrollo.

59Tu resta in pace, io ti perdono, amico;
noto m’è ben che involontaria è l’opra,
priegoti sol che ’l corpo mio pudico
di poca terra e pochi fior tu copra».
Poi, rammentando de l’affetto antico
la cara fiamma, arte novella adopra,
e con tronca favella e voce bassa
nel nome d’Odoardo il capo abbassa.

60Al flebil atto et al parlar soave
resta Alidoro immobile, insensato,
e sol di se medesmo onusto e grave
un duro ei sembra altrui sasso gelato.
Or spera et or dispera, or osa or pave,
or di pietade or di rigore armato;
pur fra i tormenti ancora è così scaltro
che l’una abbraccia e par ch’inclini a l’altro.

61Poi co ’l mondo e co ’l ciel mesto e tremante
sfoga in questi lamenti il suo dolore:
«Re dunque io sono? io cavaliero amante?
Menti, o fortuna: e non di vero amore
servo son io d’un cieco vulgo errante,
traditor di mia donna e feritore,
son del mio regno un vil ministro, e nulla
resta in me di real fuor che la culla.

62Or quando è mai che di gran pena degno
e di mortal et empio error si faccia
re che serva una dama entro il suo regno
o cittadin ch’uno stranier compiaccia?
Peregrina è costei, saggia d’ingegno,
spiritosa di cor, bella di faccia,
e forse in me sarebbe stato eccesso
l’aver negato e non l’aver concesso.

63Se l’introdussi al tempio e se palesi
gli fei gli altar, per nostra gloria il fei.
V’entrò la bella, e non per tanto offesi
i sacri riti ivi restàr da lei.
Tornando un giorno a i suoi natii paesi
lo splendor lodaria de i nostri dèi,
e, a l’Asia ignoto et a l’Europa occulto,
narrerebbe a que’ climi il nostro culto.

64Mira o ciel, mira o sol, mirate o genti
la candidetta sua pura beltade:
vi paion que’ begli occhi esser nocenti?
rei vi sembran quel sesso e quell’etade?
Spiran gli sguardi, i gesti, i movimenti
umiltà, candidezza et onestade;
degno è ben di pietà, merta clemenza
chi scritta ne la fronte ha l’innocenza.

65Ma poi che l’empietà de la mia sorte
vuol pur che ’l reo per le mie man si mora,
eccol sagrificato, eccolo a morte,
ecc’alzo il braccio, ecco il ferisco or ora».
Così dic’egli, e coraggioso e forte
se stesso fère, e langue e si scolora;
già chiude i lumi, e sanguinoso e stanco
in su ’l duro terren già batte il fianco.

I cittadini cercano ugualmente di metterla a morte, ma è rapita da una nube e sostituita con un’aquila

66Corre la turba impetuosa e folta
al mesto caso, e freme irata e grida,
e non si mira intorno e non s’ascolta
altro ch’orrore, altro che pianti e strida.
A la mesta fanciulla ogni un si volta,
vuole ogni un che si sveni e che s’uccida,
e paghi ancor, per doppio error punita,
co ’l capo suo del morto re la vita.

67Di barbara tiara il crine avvinto,
a i cenni de la plebe il sacerdote
già si dimostra a la grand’opra accinto
e già mormora al ciel voci devote.
Tace la bella, e di pallor dipinto
porta il sembiante, et ha le ciglia immote,
ma così, muta ancor, dal re de l’etra
vita, franchigia e libertade impetra.

68Alza il ministro al grave colpo il braccio
e già su ’l collo a la donzella il vibra,
ma diviengli a la man rigido impaccio
e se medesmo in aria il ferro libra.
Gli si fa il sen di neve, il cor di ghiaccio,
e se gli stringe il sangue in ogni fibra;
scender poi bianca nube egli rimira,
che la donna rapisce e ’n ciel s’aggira.

69Et in sua vece un’aquila reale
su l’apprestato altar vede improvisa,
onde legge fermissima e fatale
stima del Ciel ch’ella rimanga uccisa.
O fallace de l’uom mente mortale,
come sei tu dal rio demon derisa!
Par che vittima umana abbia in orrore
e brami solo un augelletto, un fiore.

70Purgasi intanto, e a i primi onor se stessa
la gran luce solar dona e ripone,
si scioglie il denso de’ vapori e cessa
quella d’orrore elementar cagione.
Gode l’isola tutta, e vien che in essa
un lieto festeggiar mormori e suone,
e tutto brilla a sì gran gioia il regno:
cotanto può simplicità d’ingegno.