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Il Boemondo, overo Antiochia difesa

di Giovan Leone Sempronio

Canto XIX

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 2.05.15 7:36

ARGOMENTO
Pugnano i Franchi e col favor divino
vincon, fugati i Sciti e i Persi oppressi.
Il conte di Carnuti e Baldovino
giungono a pro de la vittoria anch’essi.
Vèr la città con trionfal camino
sen vanno i cristian lieti e dimessi,
mentre s’intuona con divoto zelo
inno di grazie a la pietà del Cielo.

La vittoria è dubbia, sopraggiungono il Conte di Carnuti e Baldovino

1Alternando così stato e vicende
librate in lance egual varian le cose;
or su questi or su quei ferma e sospende
la bellica fortuna ali dubbiose.
Ondeggia il fato e la vittoria pende
or con liete sembianze or con dogliose,
e stanno appesi ancor fatti sì grandi
su ’l volo a dardi e su le punte a i brandi,

2quand’ecco Boemondo alza la fronte
e quinci al destro indi al sinistro lato
in su le ciglia a l’un e l’altro monte
rimira un doppio esercito schierato.
Pentito l’uno è di Carnuti il conte
e l’altro è Baldovin, non più sdegnato,
e con le genti sue giunge ciascuno
nel più dubbioso a lui punto opportuno.

3Pria fissa in loro il capitan gli sguardi
per veder se vi covi ombra di frode;
a l’armi usate, a i soliti stendardi
poi li ravisa, e ne gioisce e gode,
e d’aver racquistati, ancorché tardi,
gli smarriti campioni al Ciel dà lode,
e in voce tranquillissima e sonora
così gridando i suoi guerrier rincora:

4«Spirito, generosi, animo o forti,
macello, uccision, strage e ruina
mirate qual soccorso il Ciel vi porti,
vedete a che trofei Dio vi destina.
Vengono questi a farsi a voi consorti
e già stende ciascun, già s’avicina,
su dunque, a novo assalto, a nova gloria
lena, forza, vigor, palma, vittoria».

5Un festivo saluto al lor ritorno
in alto suon da i cristian s’estolle,
e con lieto clamor s’odono intorno
risalutarsi ancor da quei del colle.
Bolle fra tanto in su ’l merigge il giorno
e ne gli animi lor lo sdegno bolle,
né il periglio commun par che si curi,
di vincer certi o di morir sicuri.

I Persiani tentano di fugare i cristiani con del fumo, grazie all’intervento di Pietro gira il vento e loro stessi rompono le file

6Ma gli astuti pagani, i quai non sanno
che con frode pugnar timidi e vili,
traggon se stessi in quella parte ov’hanno
ad uso de i destrier vasti senili,
e per poter con sì fallace inganno
da gli estremi sottrarsi impeti ostili,
fan con funesti et improvisi orrori
quell’arida materia esca a gli ardori.

7In più d’un globo tortuoso e folto
caliginosi al ciel s’alzano i fumi,
spira Aquilon de i cristian nel volto
e porta in loro i torbidi volumi.
L’uso già de la luce a gli occhi è tolto,
in lagrimoso umor grondano i lumi,
e così denso è quel vapor mortale
che respirarlo omai bocca non vale.

8Senza ciel, senza sol, confusi e misti
errano i Franchi a l’ombre cieche in braccio,
e non veggion pugnando e non son visti
scherno a i nemici e a se medesmi impaccio.
Erran d’intorno dolorosi e tristi
et han di neve il cor, le man di ghiaccio,
né più miran l’insegne a cui ritrarsi
e corron già disordinati e sparsi.

9Ben se ne duol, ma de le sciolte genti
frenare il corso è al capitan negato,
ché scorre anch’ei da i torbidi torrenti
de l’istessa caligine acciecato,
ma il buon romito, a cui dar legge a i venti
vassalli a Dio con la grand’asta è dato,
inalza il sacro cerro e benedice
tre volte l’aria, e così prega e dice:

10«Signor, che imperi a le tempeste, a i mari,
e l’aure a tuo voler disciogli e leghi,
se pon nulla appo te de’ tuoi più cari
figli d’ardente cor teneri preghi,
a render questi orror lucidi e chiari
fa’ che venti miglior l’ali dispieghi,
e ridonando a noi l’aria serena
ne l’attica prigion Borea incatena».

11Così dic’egli, e a i detti suoi repente
ecco l’Austro spiegar tepide piume,
e rivoltar ne la pagana gente
quel di torbide nebbie oscuro fiume.
Ahi che non fa di Dio la man possente
se dona e toglie altrui tenebre e lume?
Ei volger sa ne l’offensor l’offese
e ritorcer la rete in chi la tese.

12Nel fumo che destàr morti e sepolti
restano a l’ora i saracini in campo,
e rotti e sparsi e in fuga vil disciolti
dan la salute al corso, a i piè lo scampo.
Ma gli estremi rimedi a lor son tolti
e fatto in guerra è l’uno a l’altro inciampo,
e, tremanti le man, ciechi le fronti,
caggiono in mucchi omai, s’alzano in monti.

Grandi gesta di Guelfo e Tancredi

13Seguendo a l’or de la vittoria il corso
s’avanza Boemondo e i suoi rinforza.
Battono i Franchi a gl’infedeli il dorso,
e giungon speme a speme e forza a forza.
A chieder vita, ad implorar soccorso
destin gli trae, necessità gli sforza,
ma chi ha desio di marzial corona
in publica tenzon raro perdona.

14Move Tancredi e move Guelfo intorno
le sue squadre in un punto agili e preste,
e de i pagan ne l’un e l’altro corno
Gostavo insieme e Albumazaro investe.
Più chiaro al mondo e memorabil giorno
non raggirò già mai l’orbe celeste:
l’Asia e l’Europa entro l’assiria terra
in picciol campo or si cimenta in guerra.

15Albumazar, ch’a l’aquila d’argento
l’estense cavalier scopre e ravisa,
sente d’occulto e insolito spavento
serpeggiarsi nel cor larva improvisa;
pur, svegliando il nativo alto ardimento,
il gira intorno e fermo in lui s’affisa,
e mentre incauto a le sue schiere attende
d’un gran fendente in su ’l cimier l’offende.

16Rinaldo a l’or, che nel suo proprio zio
si mira offeso, a punir lui s’affretta,
e grida irato: «Oggi farò ben io
del temerario ardir giusta vendetta.
Signor, vie più che tuo l’oltraggio è mio,
e ’l castigar quell’empio a me s’aspetta;
mostrarò ciò che vale e ciò che pote
a pro del sangue suo cor di nipote».

17Sprona il destrier così dicendo, e brama
al reo portar le meritate pene,
ma da sì grave impresa a sé lo chiama
il suo buon Guelfo, e parla e lo rattiene:
«Giovine generoso, in cui la fama
con immaturo vol gli anni previene,
oggi con lievi e piccioli preludi
le men dubbie tenzon siano i tuoi studi.

18Quasi in scola d’onor cerca e procura
apprender qui del buon valor la strada,
fin che in età più ferma e più matura
fia che da te ne la Giudea si vada.
Instrutto a l’or, là di Sion le mura
espugnerai con l’erudita spada,
e i più sublimi e più robusti eroi
saran debile oggetto a i colpi tuoi».

19Così dice il buon vecchio, indi rallenta
al brillante corsier l’oro del freno,
ei co ’l corno del piè tosto s’aventa
a l’amata tenzon, quasi baleno.
Tre volte il franco al saracin presenta
lo stocco ne la fronte e tre nel seno,
ma quegli a proprio schermo alza uno scudo
che in sé non tiene orma di ferro ignudo.

20Sferico è questi, e di cent’orbi e cento
di solido metallo ha gli orbi suoi,
tutto di tori un numeroso armento
per lui svenossi e si disciolse in cuoi,
sicuro sì, ma ignobile stromento,
difesa a i più vulgar, peso a gli eroi,
ch’a buon guerrier che vincer vuol pugnando
non è scudo lo scudo, e scudo è il brando.

21Di sdegno a l’ora il pio campion s’accende,
la spada inalza et a due man la piomba,
la bipartita targa incide e fende
il ferro, ed ella in alto suon rimbomba,
con fendente novel poscia discende,
e su ’l capo al destrier sibilla e romba
e ’l fiero colpo e rio fin ne la bocca
il fren gli taglia, ond’egli al suol trabocca.

22Caduto, Albumazar tosto risorge
fermo in su i piedi, e dal corsier si scioglie,
ma poiché Guelfo esser pedon s’accorge
il suo nemico, da l’arcion si toglie.
Vili s’a la sua man pur non le porge
guerriera egualità stima le spoglie,
sitibondo di gloria, ebro di fama,
buon cavalier soverchieria non ama.

23Pari d’arme così, ma più di core,
incomincian fra lor pugna pedestre,
quinci l’arte preval, quindi il furore,
e due fulmini etnei sembran le destre.
Pratiche de la gloria e del valore
trattan con forza egual spade maestre;
è già ciascuno affaticato e stanco,
né tinto han pur di poco sangue il fianco.

24L’investe al fin ne la sinistra coscia
il duce estense, e nel ginocchio il piaga,
ne sgorga il sangue e con mortale angoscia
già largamente il su ’l tallon gli allaga.
S’avanza il saracin, né perché poscia
gravissima ella sia, cura la piaga;
ma in sembianza terribile e feroce
così Guelfo vèr lui scioglie la voce:

25«Inginocchiati, altier, ch’io qui la vita
in don ti do, se tu da me la chiedi».
«Non fia (dic’ei) sì gran vergogna udita
che supplicante un re giaccia a’ tuoi piedi».
«Nel loco istesso or tu nova ferita
da me girarsi e raddoppiarsi vedi»
soggiunge il franco; ei dal gran colpo oppresso,
benché forza pur fia, muor genuflesso.

26Tancredi intanto, il principe tirreno,
cerca co ’l fier Gostavo alta contesa,
e di sì gran trofeo sentesi al seno
una guerriera impazienza accesa,
quindi, d’ampia speranza il cor ripieno,
se ’n corre invitto a la fatale offesa,
ma il trova poi sì vigoroso e fermo
che intracciare a l’offesa uopo è lo schermo.

27Su l’assirio Scamandro ecco a cimento
l’Ettor pagan co ’l cristiano Achille.
Fanno gli stocchi un barbaro concento
e rintuonan gli elmetti in suon di squille.
Ardon gli usberghi e desta a cento a cento
un sol colpo di ferro auree faville,
e al martellar de i fieri brandi ignudi
rassembran l’armi assai più ch’armi incudi.

28Punte a gara si dan, tagli a vicende,
et è de l’altra ogni percossa erede.
Quei ch’una ne sostien mille ne rende,
e per molto ferir nulla si cede.
Or s’avanza animoso, or si sospende
ma vil già mai non si ritira il piede,
e passeggiar del vero onor la via
o con palma o senz’alma ama e desia.

29Ma sia voler del Cielo o sua sventura
si spezza al fine a l’empio scita il brando,
e benché pur di fina tempra e dura
se ’n va in più scheggie da la mano in bando.
Novo stocco il pagan cerca e procura
ma non sa ben come ottenerlo e quando;
sospende a l’ora il guerreggiar Tancredi
e «Il mio» gli dice «io ti darò se ’l chiedi».

30«Il chiedo» ei gli risponde, «e ben m’è noto
che sol per lui trionfator tu sei:
sempr’ei colpisce, e mai non cade a vuoto
e certi nel suo fil porta i trofei».
Replica l’altro: «Indissolubil voto
di sol trattarlo in guerra al Cielo io fei,
pur a gloria maggior del Cielo istesso,
poiché già te l’offrii, ti sia concesso».

31Così detto gliel porge, e ’l rio pagano
con temerario ardir tosto l’impugna.
D’un suo valletto a l’or stende l amano
Tancredi al ferro, e torna invitto in pugna,
indi soggiunge: «Or t’avedrai che invano
pugna l’acciar se seco il cor non pugna:
con la mano in battaglia armano i brandi
non co i brandi la man gli eroi più grandi».

32Or qui di polve a l’altrui sangue intrisa
ricomincian fra lor nova tenzone,
ma la gorgiera al saracin recisa
mirasi già dal cristian campione.
In su ’l tergo a Gostao tronca e divisa
pende la testa a insanguinar l’arcione,
e mostra altrui ch’ovunque in campo ei vada
il braccio fa il guerrier più che la spada.

33Il proprio stocco il principe ripiglia
e là si drizza ove più d’uopo ei vede.
Ma, morti i duci lor, già si scompigliaFuga totale e macello dei Persiani
l’una e l’altr’ala, e volge in fuga il piede.
Tenta a i vicini monti ogni squadriglia
ritrar se stessa e là salvar si crede,
ma giunti i fuggitivi a le pendici
trovan non visti pria novi nemici.

34Stefano quindi in su ’l sinistro colle
indi su ’l destro Baldovin gli assale.
Calde del sangue lor fuman le zolle
con macello orridissimo e mortale.
Corre ciascuno timoroso e folle,
ma trovar al suo mal schermo non vale,
e dovunque al morir cerca lo scampo
appunto là fan ne la morte inciampo.

35Fa Boemondo anch’egli a un tempo istesso
de i Persian guerrier strage funesta.
Giace il cavallo al cavaliero appresso
e ’l suo proprio signor preme e calpesta.
Qua con sciolte minugia un ventre stesso
là con sparse cervella aperta testa,
e d’ogn’intorno in dolorose guise
tronchi i piè, monche man, braccia recise.

36Se rivolgi il pensier, gli occhi raggiri
al numero de gli egri e de’ languenti,
d’un picciol piano in fra gli angusti giri
agonizzar dirai tutti i viventi.
Fuor che ’l sangue e che l’ossa altro non miri
fuor che gemiti e strida altro non senti,
e par colà di pochi colpi al pondo
spopolata la terra, ucciso il mondo.

37Già già tutte le schiere eran disfatte
né a l’aure più si dispiegava insegna,
sol da i Parti si fugge e si combatte,
come stil di battaglia a loro insegna.
Han le piante i corsier rapide e ratte
e lunate vestigia unghia non segna,
né vien che scocchi alcun de i dardi a vuoto
tal portan seco egualità di moto.

38Fan le fugaci truppe alte contese
e Demofonte a la tenzon le guida,
e di vederle in fra mill’altre illese
par che in suo cor tutto gioisca e rida,
ma l’invitto Ruggier da gravi offese
punto si sente et a pugnar lo sfida;
quegli accetta l’invito e poscia il dorso
dona fuggendo e combattendo al corso.

39Ma gl’incalza così con le sue genti
di Balnavilla il prince e sì li preme
che i fuggitivi invidian l’ali a i venti
né ancor volando di salvarsi han speme.
Spinto ciascun da insoliti spaventi
non corre perché vuol ma perché teme,
e ne le schiere lor lacere e sparte
fatto è il fuggir necessità, non arte.

40Or nel concavo sen d’angusta valle
cercan celarsi, or fan ricorso al monte,
ma dovunque se ’n van sempre a le spalle
hanno i nemici e sempre gli hanno a fronte.
Per le man di Ruggier su ’l duro calle
il primiero a morir fu Demofonte:
il giunge, il fère, et ha d’onor rimorso
non poterlo piagar che sol nel dorso.

41Muovonsi i fieri in un gran cerchio uniti
tutti d’intorno i cristiani al fine,
e portan quindi a i miseri smarriti
gli estremi scempi e l’ultime ruine.
Altri caggiono estinti, altri feriti,
aperti il seno e lacerati il crine.
D’oste immensa così vivo uno solo
appena resta, e d’ogni stuolo un solo.

Cala la notte, tramite una preghiera di Pietro Boemondo ottiene un prolungamento del giorno per poter recuperare i feriti

42Disfatta già la persiana gente,
la cristiana vittoria era in sicuro,
quando nel lembo al pallido Occidente
langue l’oro del sol lucido e puro,
naufraga in seno al mare il dì cadente
e ’l ciel comincia a divenire oscuro.
i lor chiari trofei notte ricopre
e toglie di pietà le più bell’opre.

43Portata a lieto fin sì grave mole
ne gode Boemondo e ne festeggia,
ma fra i diletti suoi solo si duole
che sì ratta spuntar l’ombra si veggia:
stabil vorrebbe et inchiodato il sole
che pur troppo per lui ratto passeggia,
e ricorrendo al suo diletto Piero
scioglie in queste parole il pio pensiero:

44«Abbiam vinto, o buon Pietro, e ’l ciel ne diede
espugnar bellicosa oste infinita,
per l’onor, per la gloria e per la fede
vi sparser molti e v’impegàr la vita;
che si doni da me pietà richiede
tomba a gli estinti, a i moribondi aita,
ma l’esequir le mie sì giuste voglie
se me ’l detta pietà l’ombra me ’l toglie.

45Chi sceglier qui sotto il notturno velo
le nostre or può de le pagane genti?
S’inaspriranno al vespertino gielo
le piaghe loro et al rigor de’ venti,
e su ’l duro terreno a nudo il cielo
l’anima spireran gli egri languenti,
né pur fasciate a i martiri felici
fian da medica man le cicatrici.

46S’aggiunge ancor che se qui fermo stassi,
benché si serbi pur vigile il ciglio,
in sì cieca stagion correr potrassi
forse da noi qualche mortal periglio.
Se poi ritrar vèr la cittade i passi
vorremo, a pro commun, prender consiglio,
quando il novello dì fia che sen rieda
avrem perduto e vettovaglia e preda.

47O perché non poss’io come Ezechia
non per me, che no ’l merto e non lo spero,
ma per quest’oste gloriosa e pia
ritrar a forza il sol ne l’emispero?
Tu m’impetra qua giù, novo Isaia,
da chi là suso ha i su i pianeti impero
grazia sì grande, a’ tuoi possente prieghi
nulla fia mai che dal mio Dio si nieghi».

48Risponde il santo vecchio: «A i miei desiri
tanto ottener, tanto esequir non lece:
move le sfere e può gli eterni giri
regger a voglia sua sol chi li fece;
pur a i doni del Ciel da noi s’aspiri,
sciogliam le ciglia in pianto, i cori in prece»,
e in atto profondissimo e devoto
genuflesso così spiega il suo voto:

49«Architetto del Ciel, fabro del sole,
che prefiggesti a l’etra ordine e meta,
et al cui piè ne la stellata mole
ubbidisce vassallo ogni pianeta,
tu ch’un sospiro e a poche preci sole
ciò festi già d’un umil tuo profeta
impon, Signor, che redivivo il giorno
con retrogradi rai faccia ritorno».

50E così prega et a le sue preghiere
son l’orecchie di Dio tenere e pronte.
Ubbidiscono a l’or serve le sfere
e ’l gran corpo solar cangia orizzonte.
Ne la culla non sua, strano a vedere,
bambinella innalzar l’alba la fronte,
e variando a noi l’albergo e l’ora
ospite de l’Occaso esser l’aurora.

51Il crestato forier del dì nascente
prevenuto da lui, le penne scote;
di sonnacchiosi augei schiera si sente
dormendo cinguettar musiche note.
Chiusa poc’anzi a la fucina ardente
ritorna il fabro e ’l duro acciar percote,
e intempestivo al praticello, al solco
quinci corre il pastor quindi il bifolco.

52Non ben calcate ancor lascia le piume
mezzo discinta il sen la vecchierella.
Prendon confusi al repentino lume
l’auriga il carro e ’l palafren la sella.
S’ingemma il bosco e s’inargenta il fiume
a l’improvisa in lor luce novella,
e d’oro opportun cinti le fronti
crollan dal crin le lor grand’ombre i monti.

53Spogliando il manto suo torbido e nero
Espero da Lucifero si veste,
e ne l’opposto a noi cieco emispero
fan gli antipodi al ciel dure proteste.
Ritorna il giorno a lor, ma non intero,
né serba i patti suoi l’orbe celeste,
e per le tenebrose orfane vie
piangon sepolto ancora in fascie il die.

54Veggiono errar gli astrologi più saggi
de i gran calcoli lor l’ordine eterno,
e a contemplar di sregolati i raggi
l’ombra di Tolomeo vien da l’Inferno.
Diversi moti, insoliti viaggi
mira là su sovra il non proprio perno,
e poiché nulla i novi giri intende
l’astrolabio per duol lacera e fende.

55Molti pensàr che in un contrario corso
se stesso il primo mobile movesse,
e rivolgendo in vèr l’Occaso il dorso
ogni sfera minor seco traesse,
sì che rapito anch’ei fosse trascorso
in dietro il sol per le vestigia istesse,
né dal segno partisse o da quell’arco
ond’ei salì de l’Oriente al varco.

56Altri stimàr che stabile et immoto
per breve spazio ogn’orbe a l’or restasse,
e in vèr l’Eoo co ’l natural suo moto
per l’ecclitica sua Febo tornasse,
né prendesse il sentiero a lui già noto
del globo elementar d’intorno a l’asse,
ma per li segni suoi se ’n gisse solo
del gran Zodiaco a raggirarsi al polo.

57Ahi cieco ingegno uman, che in ciel le sfere
moltiplicate a voglia tua figuri,
immaginarie idee, vane chimere
son gli Equatori, i Tropici, i Coluri!
Quel braccio eterno e quel divin potere
ch’architettò pria de l’empireo i muri,
le stelle ei gira, il sole ei regge, e dove
gli aggrada più di propria mano il move.

Si curano i feriti e si fa preda, ma Tancredi è dato per disperso

58Intanto il capitan gli egri e i feriti
indi gli estinti ancor sceglier procura,
e quei de la pietà chieggiono i riti
vuol ch’abbian medicina o sepoltura.
Poi su gran carri in varie torme uniti
li fa portar ne le guardate mura,
ma sol fra tanti ei ritrovar non pote
il buon Tancredi, il suo gentil nipote.

59Di sì gran cavalier vedove e prive
stan le sue genti, e manca Marte a Marte,
né san dir s’egli è morto o s’egli vive
ne i dubbi corsi lor vaganti e sparte.
Per più colli d’intorno e per più rive
diverse schiere il zio manda e comparte,
e che si cerchi il nobile campione
con ogni industria in ogni lato impone.

60Scudi, usberghi, cimieri, insegne e spoglie
insieme ammassa a i trionfali onori,
e ad appagar l’altrui digiune voglie
raduna in larga copia esche e licori.
Ricco bottino e nobil preda accoglie
di carri e di destrier, d’argenti e d’ori,
e tutte al fin per la men dubbia via
con fide scorte in Antiochia invia.

61Le ricetta Raimondo, e di sua mano
fascia e cura i languenti e li ricrea.
Ei con festivo cor fin di lontano
veduta già la gran vittoria avea,
ma di caso più degno, ancorché strano,
ne i regressi del dì lieto godea,
e nel candor de i lineati sassi
dal tempo impressi iva tracciando i passi.

62Trafigge il sen d’un marmo un ferro acuto
ch’a l’or favella più quando più tace,
et ha labbro ben sì gelido e muto
ma scioglie da la bocca ombra loquace.
interprete fedel, messaggio arguto
in terra il ciel de le sue cifre il face,
e ne i numeri suoi nota e descrive
aritmetico il sol l’ore a chi vive.

63Qui con la mente a specolare intesa
si tragge il conte e gli occhi intorno aggira,
e per l’istesse linee, ond’er ascesa,
cinque gradi a tornar l’ombra rimira.
Tiene in cupo stupor l’alma sospesa
e in sé confuso il gran portento ammira,
poi così dice: «In su l’eterea mole
a chi pugna per Dio milita il sole».

64Restava sol tra le più degne prede
a saccheggiarsi il padiglion reale.
Vasto è così ch’ogni grandezza eccede
e par di forma a una cittade eguale.
A lui rivolge Boemondo il piede
né ben co ’l ciglio a misurarsi il vale:
torri, mura e difese in sé comprende,
tenda fra i campi e rocca in fra le tende.

65Opra d’industriosi alti architetti
e gran sudor di nobili ingegneri,
qui linee al centro, obliqui no ma retti,
van la piazza a ferir tutti i sentieri
ampi così che ne i lor folti tetti
pon duo mila albergar chiusi guerrieri,
né d’aspri sassi o di robusti abeti
ma sol d’argento e d’or son le pareti.

66Tessuti a Sirio bisso, a lana ibera
tramò belgica spola anglici strami.
L’alme in seta a spirar corsero a schiera
de i vermi esperii i preziosi esami.
Un’ampia del Perù vasta miniera
le gran viscere sue sciolse in ricami,
e lineàr con barbare orditure
i pettini d’Aras vive figure.

67Nel giro esterior tutte distinte
le provincie di Persia il subbio impresse:
non sai dir se sian vere o se pur finte
sì bell’ordine a lor l’arte concesse.
Di grosse mura ampie città ricinte
in superbi palagi ergon se stesse,
e giaccion sparse in questa parte e in quella
mezzo lacere il sen ville e castella.

68D’alti monti colà lunga catena
vestita d’ombre, aspra di selci appare,
qua con le calme sue bacia l’arena
immoto un lago e tremolante un mare.
prodigo altrove il fonticel si svena
in puri argenti, in limpid’acque e chiare,
e, sparso il crin d’incanutite spume,
inaffia il pian, lava le valli il fiume.

69Ma ne la parte interior si scorge
l’istoria poi del maggior Ciro ordita:
giace esposto il bambin dove più sorge
intrattabile al piè selva romita;
pietosa al suo vagir corre e gli porge
latte una cagna, e lo sostiene in vita,
e da gl’insulti ingiuriosi e felli
de le fere il difende e de gli augelli.

70Fanciullo poi tra i pastorelli infanti
un cespuglio di fior preme per trono.
Gli stan danzando i forosetti avanti
e più d’un frutticel gli offrono i dono.
Qui parte a gl’innocenti, ivi a gli erranti
per trastullo talor pena e perdono,
e mentre così scherza a poco a poco
nel regno persian termina il gioco.

71S’arma adulto in battaglia e guerra move
a l’oro insieme et al valor di Creso,
e in gran tenzon con generose prove
seco se ’l tragge incatenato e preso.
Poi con rigor non più sentito altrove
danna il nemico ad un incendio acceso,
ma il toglie al rogo et a gli ardor di grembo
sciolto dal ciel prodigioso un nembo.

72Maturo al fin vien ch’a la Scizia aspiri,
e in giornata campal morto vi resta,
gli tronca a l’or la vedova Tomiri
di propria man la formidabil testa,
e, in ciò seguendo i suoi natii desiri,
in sanguigna la chiude utre funesta,
e sembra dir con modi iniqui e rei:
«Di sangue eri assetato, or sangue bei».

73Così ogni tela effigiata splende
e se medesma in troppo lusso eccede.
Stupido il guardo il capitan sospende
e tardo gira al ricco oggetto il piede.
Qui la materia co ’l lavor contende
e vinto a l’altro alcun di lor non cede,
ma di studio sì nobile e sì vago
è geografo un fil, cronista un ago.

74S’inoltra Boemondo e a i più remoti
recessi omai de la gran tenda è spinto,
mira giacere in lei muti et immoti
quattro re, tre feriti et uno estinto.
Arconte è l’un che i freddi membri ha vòti
quasi di sangue e d’alte fasce è cinto,
l’altro ch’egro languisce è Radamasto,
cui troppo opprime il corpo immenso e vasto.

75Terzo è il fiero Almanzor, ch’anch’ei non sano,
porta di largo piaga il sen vermiglio,
e l’estinto in fra loro è il gran Corbano,
del gran signor de’ Persi unico figlio.
Volge ne gl’infelici il capitano
grave non men che curioso il ciglio,
e poiché per lor bocca ascolta et ode
chi sian gli eroi, lieto ne brilla e gode.

76- Signor de le vittorie e de’ trofei
(poi seco dice), io rendo a te gli onori.
Tu sol festi, pietoso a i prieghi miei,
sorger le palme e germogliar gli allori.
io nulla oprai, pugnando, io nulla fei
di grande e di sublime onde mi glori,
ma son trionfi tuoi più che miei pregi
trar prigioni i monarchi, uccisi i regi -.

77Che si spianti la tenda e sian raccolte
le preziose tele ordina al fine,
e son repente in ricchi invogli avvolte
le barbare orditure e peregrine.
S’invian le turbe numerose e folteCattura e morte terribile di Zoroastro
a le sì care al Ciel mura vicine,
e Boemondo a la città diletta
già trionfante il suo ritorno affretta,

78quand’ecco, orrido il crine, ispido il mento,
gli vien condotto un prigionier davante.
Ha torvo il guardo e grave il passo e lento
et aspro è di maniere e di sembiante;
povera di colore e d’ornamento
gli piove fin su ’l piè toga ondeggiante;
tien le furie ne gli occhi, e da l’interno
spira pe ’l volto un non so che d’Inferno.

79«Come costui si noma? ove il prendeste?»
a i condottieri il capitan richiede.
«Egli spada non cinge, elmo non veste,
e nulla di guerriero in lui si vede
(rispondon quei); de la sua man son queste
l’armi temute, ed egli a noi le diede:
sol fra la turba fuggitiva e rea,
stocco una verga e scudo un libro avea».

80Grida a l’or Boemondo: «A gli atti, a i segni
lo raviso ben io: mago è costui,
e forse quel che spesso i miei disegni
romper tentò con gl’incantesmi sui».
«Son quel (dic’egli); a pro de i propri regni
fui tuo nemico, e tal sarò qual fui:
non è d’alma e di core unqua avvilito
chi ha per mallevador Stige e Cocito».

81«Dunque da i duri lacci ei ti difenda
(replica l’altro) onde legato or sei,
ei ti disciolga, ei libertà ti renda,
ei ti sottragga a i giusti sdegni miei».
D’un interno rancor vien che s’accenda
a l’or quel fiero, e gli empi spirti e rei
chiama in soccorso al suo mortal timore,
se non può con la verga, almen co ’l core.

82Et ecco da gli aperti angusti pori
de l’arsa terra intorno a i piè del mago
si miran trapellar lievi vapori
e condensarsi in cavo ardente e vago.
Son duo spirti d’Averno i conduttori,
ciascun de’ quali è trasformato in drago,
e di mezzo a i cristian l’ergon dal suolo
e ’l tragon seco in un istante a volo.

83Su la biga infernal più volte gira
pe ’l ciel quell’empio, e se ne beffa e ride.
Muto il gran caso ogni fedel ammira
e in dubbiosi pensier l’alma divide,
ma de l’oltraggio il capitan s’adira
et impenna a più dardi ali omicide,
pur nulla fa, ch’avvicinar non vale
vol di demon velocità di strale.

84V’accorre il buon romito e un santo sdegno
ne sente anch’ei, che fin su ’l core il tocca,
e in lui vibrando il glorioso legno
a’ temuti esorcismi apre la bocca.
Senza riparo a l’or, senza sostegno
il perfido stregon cade e trabocca,
e tosto in aura, in men ch’altrui no ’l narro,
sciolgonsi i draghi e si dilegua il carro.

85Per l’aria rotolar miran le membra
et al vento spirar l’alma tapina.
Applaude al fatto ogni cristiano e sembra
struggersi in gioia a la mortal ruina.
Il cadavere suo lacera e smembra
da lui percossa una gran cote alpina,
e l’ossa de le gambe e de le braccia
come mola suol far stritola e schiaccia.

86Così d’eguale allor la sacra chioma
cinser duo Pietri, un Franco, un Galileo,
turbàr di pari e d’Antiochia e Roma
Simon l’iniquo e Zoroastro il reo,
ma con l’istessa morte oppressa e doma
l’alta empietà d’ogni un di lor cadeo,
e duo magni portàr rotta la fronte
quinci il Tebro mirò, quindi l’Oronte.

Preghiera dei crociati al tempio

87Ma il capitan vèr la città reale
già già co’ suoi guerrier move se stesso,
e con ordin superbo e trionfale
vuol che si faccia il glorioso ingresso.
la fanteria pria s’incamina e l’ale
poscia de i cavalier traggonsi appresso,
e in mezzo de i destrieri e de i pedoni
catenati le man vanno i prigioni.

88Esce Raimondo e lietamente umile
l’incontra, il riverisce e lo riceve,
et ei l’abbraccia affabile e gentile
come a l’amor d’un buon guerrier si deve.
Giolivi poi, qual ne i trionfi è stile,
a l’amata città giungono in breve,
et ivi un lieto fremito di gente
e d’oricalchi un alto suon si sente.

89Pier li precede, e se ne va con essi
nel tempio, ov’ei prima i suoi voti offrio,
e poiché quei trionfi ha Dio concessi
vuol che le grazie ancor rendansi a Dio.
Quinci in gesti umilissimi e dimessi
rivolti a Lui, che sì gran tela ordio,
cantan da duo gran santi in dolci modi
dialogate in Ciel liriche lodi:

90«Te Dio lodiamo e te, Signore e Padre,
il mondo tutto osequioso adora.
De i Cherubin, de i Serafin le squadre
ti gridan santo, e ’l Cielo e ’l suol t’onora.
Te ne la fede tua, ch’a loro è madre,
l’apostolico coro orando implora,
e uniti in ampio stuol t’applaudon lieti
quinci i martiri ogni or, quindi i profeti.

91Te genitor, te figlio e te confessa
spirto la Chiesa unico insieme e trino;
Cristo re de la gloria in te non cessa,
perché tu nasca uman, l’esser divino,
tu per salvar la cieca gente oppressa
ti festi in sen virgineo umil bambino,
e tu co ’l tuo morir, vinta la morte,
apristi a i fidi tuoi del Ciel le porte.

92Tu a la destra di Dio sedendo imperi,
arbitro insieme e giudice del mondo.
Sovieni a i servi tuoi che prigionieri
già sottraesti de le colpe al pondo,
e tu fra i più sublimi alti guerrieri
danne albergo nel Ciel lieto e giocondo.
Tu salva il popol tuo, tu piovi un raggio
de la luce immortal su ’l tuo retaggio.

93T’acclamiamo ogni giorno, e al tuo gran nome
porgiamo eterni i sagrifici e i voti.
Libera tu da le funeste some
de’ più gravi misfatti i tuoi devoti,
difendi noi com’abbiam speme e come
teniamo i piè nel tuo servigio immoti.
A te ricorsi, in te, Signor, sperai,
e nulla il cor confonderà già mai».

94Così, ricinto il sen di sacro ammanto,
cantando va de’ sacerdoti il coro.
Taccion poi tutti e già succede al canto
di timpani e di trombe un tuon sonoro.
Gli affaticati eroi se ’n vanno intanto
il bramato a goder giusto ristoro,
e al ricader del vespertino lume
pria si danno a la mensa, indi a le piume.