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Il Boemondo, overo Antiochia difesa

di Giovan Leone Sempronio

Canto XV

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 2.05.15 7:21

ARGOMENTO
Il conte di Carnuti, al fin pentito,
l’error confessa ed il perdon n’ottiene;
per tornar in Soria scioglie dal lito,
ma de l’Accidia a l’isola perviene,
ivi de i vaghi lochi al dolce invito
n’appaga il gusto e stolido diviene.
Piange Guglielmo, e la pietà sovrana
quel suol deserta e ’l cavalier risana.

Il Conte di Carnuti è rimproverato dalla Verità, che gli appare da un sepolro, e si redime

1Vivea fra tanto entro la greca corte
il conte di Carnuti afflitto e lasso,
e stancando co ’l piè le regie porte
movea devoto a vani ossequi il passo.
Or calva et or comata avea la sorte,
or vile or caro, or sollevato or basso,
e fra turba ravvolto invida e rea
giorni di ferro in mura d’or traea.

2Sorge l’imperial machina augusta
quanto immensa d’altezza ampia di giro;
non si sa ben se ne l’età venusta
da Serse architettata o pur da Ciro.
A fronte a lei pare ogni mole angusta,
siasi pur de l’Acaia o de l’Epiro,
e vasta è sì ch’io non ben dir potrei
s’ella è in Bisanzio o pur Bisanzio in lei.

3Atrio ha fra gli altri il cui grand’orbe è cinto
da uno stuol di colonne elette e rare,
viscere già di Paro e di Corinto
traghettate colà dal tracio mare.
Guglia è in disparte che di rege estinto
ricco sepolcro e nobil urna appare:
lunge da i regi alberghi è posta in sito,
per li cipressi suoi, quasi romito.

4Or qui soletto in fra quell’ombre oscure,
giuste compagne al grave suo tormento,
stavasi un giorno a passeggiar le cure
pensoso il conte, accidioso e lento,
quando fra lor l’antiche selci e dure
del grande avello (o sovr’uman portento!)
traballan prima, e poi cadendo al fine
traboccan con aperte alte ruine.

5Stupisce al caso e, di terror ripieno,
le braccia allarga e poi le ciglia inarca;
s’accosta, e vede a quella tomba in seno
non la salma mortal d’alto monarca
ma, cinta d’un fulgor chiaro e sereno,
farsi donna gentil trono de l’arca,
e da’ begli occhi e dal bel volto fuori
seminar luce e saettar splendori.

6Bionda ha la chioma e libera la scioglie
su ’l molle sen senz’artifici o studi;
biancheggia il corpo e non ha veli o spoglie,
ricchi sol di se stessi i membri ignudi;
solo un terso cristal nel sen raccoglie,
opra non so se di celesti incudi,
dal cui puro diafano trapela
espresso altrui ciò che nel cor si cela.

7Inalza un braccio, e con la destra mano
lucido impugna e d’or massiccio un sole,
un oristuol tien la sinistra, e al piano
calca di libri un’erudita mole.
Poco le siede un bambinel lontano,
primogenito figlio, unica prole,
che da lei sugge e con natia fierezza
volge il tergo a la madre e la disprezza.

8Nel muto cavalier fisse ha le ciglia
la maestosa affabile matrona,
e mentre ne ’l riprende e ne ’l consiglia
con purissimo stil sì gli ragiona:
«La Verità son io, postuma figlia
del Tempo, ch’a scoprirmi al fin mi sprona,
né cerco l’ombre no, ma ben m’è cara
la serena del sol luce più chiara.

9A i greci, a i lazi, a gl’itali scrittori
segretaria fedel detto l’istorie
e, i folli error tramando e i veri onori,
a le future altrui vive memorie.
Sol con l’acerbità de’ suoi rigori
le mie gioie avvelena e le mie glorie,
e sol turba il seren de la mia fama
questo figlio crudel ch’Odio si chiama.

10Già nel secol primier da i re più degni
vissi ne i ricchi alberghi anch’io raccolta,
ma, colpa sol d’ambiziosi ingegni
or giaccio, come vedi, in lor sepolta,
et in mia vece a por la norma a i regni
vi sta l’Adulazion perfida e stolta,
c’ha una figlia nel sen candida e bella
che tutto ottiene e Grazia il vulgo appella.

11S’errasti, il sai; se gravemente offeso
ebbi gli uomini e Dio, dillo a te stesso;
come scusato andrai, come difeso,
reo cavalier, da così grave eccesso?
forse dirai che renderatti illeso
l’aver occulto un tanto error commesso?
e che con modi inusitati e scaltri
consapevol ne sei tu sol, non altri?

12Quanto t’aduli? Il Cielo, il tempo, il mondo
discopriran le tue menzogne un giorno,
e da uno stuol di penne alto e facondo
trarransi a volo i tuoi misfatti intorno.
Vinto cadrai de’ propri biasmi al pondo,
de i falli tuoi t’abbatterà lo scorno,
e parleran de le tue glorie oscure
vergognose fra lor l’età future.

13Falsissimo precetto, empia dottrina
che nobil uom sia de la fede assente;
cavalleresca scola e peregrina
insegna altrui che manca a sé chi mente,
e, non ch’altri, l’impon legge divina,
che sol l’esser veraci a noi consente.
La verità nel Cielo è Dio
e de’ suoi chiari lumi ombra son io.

14Or se fuggire a un punto sol tu vuoi
con l’obbrobrio mondan l’ire celesti,
a piè sacerdotal gli errori tuoi
spiega con voci dolorose e meste,
e, fatto ubbidiente a i cenni suoi,
con ciglia profondissime e modeste,
dì ch’offendesti il Ciel, empio campione,
né ricusare umil ciò ch’ei t’impone».

15Ciò detto, ecco d’intorno i rotti sassi
(incredibile a dirsi) insieme uniti,
e sì com’abbian pur le piante e i passi
l’un sovra l’altro in fra di lor saliti.
Già l’istessa piramide ristassi
de i gran macigni in alte mura orditi,
e nel suo grembo in nove guise e strane
la matrona gentil chiusa rimane.

Si confessa con un prete e con Alessio, quindi raccoglie delle truppe e salpa verso Antiochia

16Meravigliasi il conte, e ripensando
a i propri falli in se medesmo riede;
poi, per mandar l’antiche colpe in bando,
volge veloce a i sacri piedi il piede,
e l’empio tradimento a lui narrando
che tien vece di Dio, perdon gli chiede.
Pietoso in volto il gran misfatto intende
il sacerdote, e placido il riprende.

17Indi gl’impon ch’al grande Alessio ei vada
e la perfidia sua nota gli faccia,
poi, ripigliando la calcata strada,
del primiero camin siegua la traccia,
ché de i fedeli in pro roti la spada
là ’ve più fiero il Persian minaccia,
e genuflesso a Boemondo avante
pianga il suo fallo e si confessi errante.

18Quinci la sacra mano assolutrice
gli alza su ’l capo a la grand’opra accinto,
e «In nome del gran Dio tutti» gli dice
«ti disciolgo i legami ond’eri avvinto;
vanne in pace», soggiunge, e ’l benedice,
«né più peccar, di fellonia convinto».
Mov’egli umile ad ubbidirlo il piede
e gli promette e penitenza e fede.

19Entra nel maggior tempio e quivi in vista
del popol tutto al sacro altar s’inchina,
e con la faccia lagrimosa e trista
prende orando a placar l’ira divina,
e qual già fece l’epico salmista
sovr’arpe preziosa e peregrina,
così prostrato al suo gran Dio davanti
col profeta real canta i suoi pianti:

20«Perdono, o mio Signore, mercé, mio Dio,
et a misura de la tua bontade
cancella omai, cancella il fallo mio
con la tua generosa alta pietade.
Tu lava questo sen fetido e rio
che d’errore in error trabocca e cade;
conosco i miei demerti, e ’l mio peccato
guerreggia ogni or contra me stesso armato.

21Te solo offesi, al tuo divin cospetto,
empio, commisi il forsennato errore,
per avverar ciò c’hai promesso e detto
e ’l gran giudizio tuo far vincitore.
Io son d’iniquità nato e concetto
figlio antico del pianto e del dolore,
e perché sol la verità ti piace
m’hai de’ misteri tuoi fatto capace.

22Tu d’isopo m’aspergi e superate
fian da me di candor le nevi alpine;
gioiran le mie fredde ossa gelate
a l’udite da me voci divine;
da le mie vergognose opre insensate
volgi la faccia e le disperdi al fine;
rifammi un core intatto e ne la mente
spirami una novella alma innocente.

23Non mi gettar da gli occhi tuoi ma rendi
a me l’antica gioia e mi conferma,
aprirò le tue strade e a i tuoi stipendi
convertirò la cieca gente inferma.
Sottraggimi dal sangue e da gl’incendi
e la giustizia tua stabile e ferma
lodarà la mia lingua, e pure e pie
fian aperte da te le labbra mie.

24Se i sagrifici a te fossero accetti
d’arabo odor farei fumar gli altari;
gli spirti afflitti, i calpestati affetti
e i cori umiliati a Dio son cari:
sian di Sion da la tua mano eretti
di sacre gemme i muri alteri e chiari,
et a l’or ti vedrai candidi e belli
su l’are tue sacrificar vitelli.

25Se ’n va poscia ad Alessio, e a lui espone
l’empio misfatto e geme e prega e plora.
Compatisce il pentito umil campione
il generoso augusto e l’avvalora,
poi che raduni ogni guerrier gl’impone
ch’ozioso colà giace e dimora,
e de’ suoi falli a far con essi ei prenda
pugnando in Siria una pietosa ammenda.

Una tempesta infernale lo scaglia sull’Isola dell’Accidia, dove assaggia il fiore del loto e perde la memoria di sé

26Molti de i già segnati in Chiaramonte
stavan fra lor ne la cittade uniti,
altri infermi restati et altri a l’onte
de la terra e del ciel tardi partiti,
or questi prende ad arrolare il conte
con larghi premi e con benigni inviti,
e al servigio di Cristo e a le sue voglie
sei milla in campo e forse più n’accoglie.

27A la cristiana armata ivi d’intorno
per tal cagion lunga stagione errante
in su ’l vagir del redivivo giorno
con quel gregario stuol volge le piante.
Entran l’armate schiere et al ritorno
impenna ogni nocchier prora volante,
e in braccio a l’onde salse, a i venti infidi
del sirio mar van costeggiando i lidi.

28Ma, figlia de l’Inferno, atra tempesta
già il sole accieca e tesse d’ombre un velo,
e in preda a una mortal notte funesta
s’arma di tuoni e di saette il cielo.
Ribolle il mare, e l’acqua a l’aria innesta,
come stelo talor legasi a stelo,
e a duri appelli, ad orridi cimenti
per duellare un pin citansi i venti.

29Gl’imperi rabbiosissimi e baccanti
siegue d’un fiato, e, del futuro incerta,
talor traballa e non sa ben fra tanti
a chi deggia ubbidir l’onda inesperta.
or s’alza in moti orribili e giganti
et or s’avvalla in cupi abissi aperta,
e, laceri le vele et inquieti,
vacillan seco i flagellati abeti.

30Già l’arte del nocchier perde il nocchiero
e poco manca a rimanerne oppressi,
e già par che con urto ognor più fiero
onda che li sommerga a lor s’appressi,
quand’ecco per obliquo ampio sentiero
presso il seno african portan se stessi,
e approdan, non so come, ove soletta
giace fra due gran scogli un’isoletta.

31Piena d’abitator, d’alberghi vòta,
l’Isola de l’Accidia ella si chiama,
non conosciuta al mondo, o se pur nota
a le memorie altrui nota per fama.
Qui sta gente eternamente immota
e qui nulla si vuol, nulla si brama;
inutil torpe e giace ogni uomo astratto
di stupidezza e di riposo in atto.

32Altri boccone a terra, altri supino
al ciel si stende, altri su ’l fianco siede,
altri co ’l capo neghittoso e chino
con la destra a la gota altri si vede;
se camina talun, breve è il camino
e lento move a pochi passi il piede,
e raro inalzan mai per pioggia o sole
l’oziosa del corpo e tarda mole.

33Non san ciò che sia mondo, o se pur sanno
no ’l curan poi, né punto a lor ne cale.
Arte alcuna non san, studi non hanno,
né si cambia fra lor merce venale.
Regnar su l’alme altrui duce e tiranno
qui l’argento non può, l’oro non vale.
Non usan spoglie al seno e sol nasconde
ciò ch’asconder convien cespo di fronde.

34Qui de le labbra a saziar le brame
non vien Cerere mai, Bacco o Pomona,
né mai pesce od augel l’avida fame
co’ suoi grati sapor stimola e sprona,
né d’immondi giovenchi avvien che sfame
il cupo ventre uman carne men buona,
ma scalco il prato eternamente serba
a gli alimenti lor provida un’erba.

35Pria nasce infante e bambineggia in culla,
molle di stelo e tenera di foglia,
indi in vago arboscel cresce fanciulla
che purpuree granella apre e germoglia,
Nulla l’offende estivo raggio e nulla
rigido gel di gioventù la spoglia,
ma porta i ramoscei carichi e gravi
di condite di miel bacche soavi.

36Virtù, se pur virtù chiamar si dèe,
a frutto sì gentil diede natura
che chi ne coglie e chi ne mangia o bee
tutto obliando indi partir non cura,
ma in quelle arene inospitali e ree
vive una vita ignobilmente oscura,
e cangi in quei stranieri inculti lidi,
cittadino de l’ozio, i patri nidi.

37Loto il frutto s’appella, e Lotofàgi
dal nome suo gli abitator son detti.
Or qui da i venti perfidi e malvagi
giungono i legni a ripararsi astretti,
e quinci da i perigli e da i disagi
con duo scudieri a sua difesa eletti
discende il conte, e cupido e vagante
curiose fra lor drizza le piante.

38Ma quando poscia a penetrar col piede
e col ciglio a spiar l’isola ei prende
e fuor ch’alberi e prati in lei non vede
né voce d’uom né d’animali intende,
de la sua vanità tosto s’avvede
e deserta la stima e la comprende,
ma veggendo i bei frutti ond’ella abbonda
«O lieta» esclama «e fortunata sponda!

39Com’esser può che prodighe le stelle
ti desser già tanti tesori e tanti,
poi per goder amenità sì belle
ti spogliasser d’alberghi e d’abitanti?».
Così dicendo si concentra in quelle
pianure preziose e verdeggianti,
e giacer nudi ei mira e neghittosi
tra quei molli cespugli uomini ascosi.

40Non si muovon già quei ma van scotendo
i saporosi e teneri rubini,
e di lor man le molli buccie aprendo
suggonsi i dolci succhi e porporini,
né li spaventan l’armi e l’elmo orrendo
de i novelli guerrieri e peregrini,
né lascia il cibo alcun di lor, né meno
volgonsi pure a rimirarli almeno.

41Vecchio che nulla cura e nulla pave
stassi fra lor, su ’l cui rugoso mento
nevica gli anni, e da la chioma grave
bella decrepità piove in argento.
A lui si volge, e placido e soave
gli parla il conte et ei l’ascolta intento,
«Padre (gli dice), e qual acciar, qual muro
qui da bellica man fatti sicuro?

42È repubblica questa? e quai costumi
v’usan le genti? e che signor la regge?
avete i vostri tempi, idoli e numi?
serbate a i vostri fori ordini o legge?
trattate a pro commun carte e volumi?
pascete a proprio lusso armento o gregge?
vivete di fatiche o pur di prede?
e chi v’alberga qui, chi vi provede?».

43«Figlio (risponde), inglorioso e vile
io, senza nulla aver, di tutto abbondo,
e scioperato in un perpetuo aprile
qui da commercio uman fuggo e m’ascondo.
Non so né vuol saper di ferro ostile
e fuor che me nulla m’è caro al mondo,
guerre non temo e senza muro o vallo
di me stesso son io rege e vassallo.

44Non alzo tempi al ciel, dèi non adoro,
né vani studi entro la mente aggiro,
poco mi cal s’io vivo o s’io mi moro,
e tanto vivo sol quanto respiro.
Povero d’intelletto e di tesoro,
nulla fo, nulla penso, a nulla aspiro,
ma pochi frutti al vitto mio dispensa
provido il Cielo e non ho letto o mensa.

45Così me ’n giaccio in solitarie arene
nel mondo, e fuor del mondo uomo e non uomo,
e in questi lidi e in queste piaggie amene
con la pigrizia mai me stesso io domo;
non che celato a gli altri, ei non è bene
il nome anche a me noto onde mi nomo,
e queste caccolette ogni or mature
son le delizie mie, son le mie cure.

46Se una sol ne libassi, oh come grave
la trovaresti poi d’alta dolcezza!
Tutto in sé chiude il frutticel soave
ciò che di più gentile il mondo apprezza».
Coglierne a l’ora il cavalier non pave
poche granella, e di sua man le spezza,
e ne fa parte a i suoi, e con lor sugge
l’empio licor che la memoria addugge.

47Curiosa vaghezza, e in quale errore
cader non fai fin le più scaltre genti?
Gustato a pena hanno il mortal sapore
che muti se ne stan, stupidi e lenti;
poi, tratti da fatal strano furore
gettan gli usberghi al suol, gli elmetti a i venti,
e pigri anch’essi e senza spade o scudi
giacciono inermi e poco men ch’ignudi.

48Non sovviene ad alcun né si rammenta
dove vada, onde vegna e dove stia,
e mentre l’ozio il molle fren rallenta
Siria, Antiochia e se medesmo oblia.
Già tutta in lor l’antica luce è spenta
de la pietà, de la virtù natia,
né più lor preme o più riscalda il core
zel di religion, cura d’onore.

Guglielmo lo cerca di persuadere a tornare ai propri doveri, ma invano

49Ma già di stagno in forma, umile e mite
stassene il mare, e spiran l’aure eguali;
lieta nel letto suo dorme Amfitrite,
e non più l’onde i piedi e i venti han l’ali.
Già terminata è la cerulea lite
e già chiusi de l’acque i tribunali,
e già tranquillo in una bella pace
a i lidi in seno il sirio sen si giace.

50Or mentre in ozio il liquido elemento
composti i sensi, umiliata ha l’alma,
e bocca di zaffir, labbra d’argento
apre a riso gentil tremula canna,
ciascun le navi a risarcire intento
di sua man le ristora e le rispalma,
e, citate da i zefiri, già pronte
sono al partire e sol vi manca il conte.

51Guglielmo a l’ora, un cavalier cristiano,
già di Soria con esso lui fuggito,
e che per Cristo ad impiegar la mano
tornava anch’ei, de l’error suo pentito,
con provido pensier, tacito e piano,
per richiamarlo a i suoi scende su ’l lito.
Il sieguon molti, e l’arenoso lembo
ei lascia, ed entra a l’isoletta in grembo.

52Spiumato in su ’l sentier mira l’elmetto
e ’l terso usbergo entro la polve intriso,
onde gl’ingombra alto timore il petto
ch’ivi non giaccia il gran campione ucciso.
In crescendo il camin cresce il sospetto,
e vie più sempre a rintracciarlo è fiso.
Ignudo al fin sovra la terra il vede,
poi grida: «È morto» e vola a lui co ’l piede.

53Ma quando s’avvicina e che s’accorge
ch’ei pur respira e non ancor vien meno,
la speme in lui del viver suo risorge
quasi tra cieche nubi aureo baleno;
poi, fido, il braccio a sollevarlo porge,
e di sua man tutto gli palpa il seno,
ma per indi sottrarlo arte non giova,
e ne le membra sue piaga non trova.

54«Conte,» gli dice al fin «chi ti tradio?
di ferro a terra o di velen qui giaci?
chi fu quel misfattor, chi fu quel rio
che sì fieri mostrò spiriti audaci?
Lo sdegno ei proverà del braccio mio,
rotarò contra lui l’arme e le faci,
non andrà guari il traditore occulto,
ne fia, no no, che tu qui mora inulto».

55Molte fra tanto ivi giacer rimira
di quell’inculte e solitarie genti,
e, spinto dal furor, tratto da l’ira,
impenna i passi a lacerarle intenti,
ma lo rattiene il conte, e lo ritira
dal ferir, dal piagar quegl’innocenti,
e grida: «Io vivo, e cittadini miei
tutti son questi, e non nemici o rei».

56Stupisce il cavalier, che risoluto
con franco stil così parlar l’ascolta,
e sta lunga stagion tacito e muto
sì la risposta è forsennata e stolta;
poi gli soggiunge: «O sovr’ogn’altro astuto,
chi t’ha la mente in cieche larve involta?
in che folle pensier te stesso aggiri?
che parli? dove sei? scherzi o deliri?

57Dunque ti fermi in isola straniera
e amici tuoi, tuoi cittadin son questi?
né ti sovien d’una tua sola schiera,
e più guerra non vuoi, ferro non vesti?
dunque nel grembo de la Gallia altera
tu l’origine tua già non traesti?
no guerreggi in Soria? non fai ritorno
in Antiochia? Ah tua vergogna, ahi scorno!».

58Risponde il conte: «Io non so d’armi, e mai
Antiochia, Soria, Gallia non vidi;
qui nacqui e qui me ’n vissi, e nudo amai
sempre giacer su questi patri lidi.
Del viver mio più ch’io non so tu sai,
e stranier mi beffeggi e mi deridi,
ma tu chi sei, ch’alto destin qui tragge
da stranio clima in queste nostre piagge?».

59«Non conosci Guglielmo, il tuo fedele»
replica quei «ch’al tuo partir partio?
quel che già teco le fallaci vele
contra i cristian là ne la Grecia ordio?
quel che, pentito, le veloci vele
con te spiegò per riunirsi a Dio?
e quello, al fin, ch’a te congiunto in questa
isoletta portò dura tempesta?».

60Ripiglia il conte a l’or: «Non mi soviene
d’averti in altro luogo unqua veduto,
né teco fui, né su le greche arene
ho inganno alcuno a i cristian tessuto.
Per aure tempestose o per serene
con te non sono in questo mar venuto,
e mentre o non mi credi o non m’intendi
favole narri e la mia pace offendi».

61Ma di giusto furor, di santo zelo
acceso il saggio eroe, sì gli ragiona:
«Tu recidivo in nove guise il Cielo
oltraggi, e novamente ei ti perdona?
e ’l rigoroso suo vindice telo
in su l’alma e su ’l cor nulla ti suona?
né ben disciolto ancor del primo errore
covi nel petto iniquità maggiore?

62Così paghi i tuoi voti? e in questi modi
le penitenze tue sono esequite?
così tessendo vai frodi su frodi
e aggiungi a danno tuo colpe infinite?
queste le glorie son, queste le lodi
de le rigenerate alme pentite?
Torna, ah torna in te stesso, e una sì bassa
e vergognosa vita a i bruti lassa.

63Su, ripiglia il cimier, vesti l’usbergo,
ricingi il brando, alza lo scudo e vieni;
è natural sol di ferino tergo
la nudità, che per tuo lusso or tieni.
Sprezza sì molle e lusinghiero albergo
ch’a tuo danno (chi sa?) cova i veleni,
e corri omai, che di te degni sono
a le navi, a le tende, al campo, al trono».

64Così dic’egli, et a cibarsi intento
l’incantato signor nulla risponde,
ma raccoglie nel sen, scosse dal vento,
a gli alimenti suoi bacche feconde.
Agghiaccia a l’impensato alto portento
Guglielmo, e più si turba e si confonde,
poi mira ignudi ivi non lunge anch’essi
i duo scudier, da simil fato oppressi.

65Molto richiede lor ma nulla intende,
ch’egual tutti gli assedia alta follia;
vacilla poi, né ben fra sé comprende
s’effetto è di viltade o di malia.
Ma già il funesto aviso oltre si stendeDio interviene, distrugge tutti i fiori sull’isola e fa rinsavire la popolazione: il conte di Carnuti li convince a battezzarsi e a partire con lui alla volta di Antiochia
che vile ei torpe e ’l suo ritorno oblia,
se n’affligge l’armata, e s’ella deggia
indi partirsi irresoluta ondeggia.

66Ma il giusto Dio, che liberare il conte
desia da l’oziosa empia magione,
e che sottrar del paganesmo a l’onte
quel popolo infelice al fin dispone,
che perda il verde e con schiomata fronte
l’isola tutta inaridisca impone,
e in purpuree ruine arsi e distrutti
per più non rosseggiar caggiono i frutti.

67Et ecco in fredde ceneri si solve
ogni fronda, ogni tronco, ogni radice,
e si consuma ogni arboscello in polve
né de l’erbe la terra è più nodrice.
Il molle sen de i fraticelli involve
arena sterilissima infelice,
e di pianta sì rea perdesi insieme,
a pro del mondo, e la virtude e ’l seme.

68La smarrita memoria e ’l san discorso
l’affascinato eroe tosto racquista,
e qui cedendo a la vergogna il morso
de la sua nudità s’ange e s’attrista.
Indi si move, e scaglia i passi al corso,
confuso in atto e disdegnoso in vista,
e dal terren con man spedite e preste
riprende l’armi a un punto e le riveste.

69S’armano anch’essi i suoi scudieri, e vanno
il buon Guglielmo ad incontrare uniti.
Ei gli abbraccia, e qui si fanno
palesi a lui del novo clima i riti;
gli narran quegli il lusinghiero inganno
de gli empi cibi onde si son nodriti,
e con la lingua insieme e con le ciglia
pietà l’altro ne mostra e meraviglia.

70Ma quell’ignuda et affamata gente,
che più non mira intorno arbore o stelo,
o sia necessità che no ’l consente
o, qual si creder dèe, forza del Cielo,
già di luce miglior sparsa la mente
e già squarciato a l’intelletto il velo
chiede dal conte a l’egro corpo afflitto
albergo insieme e vestimento e vitto.

71Il buon guerrier, che già mirò se stesso
in pari affanno et in miseria eguale,
mentre con lor se ’n giacque anch’egli oppresso
da quel frutto pestifero e mortale,
gli accoglie pietosissimo e sommesso,
e quasi il pianto a raffrenar non vale.
Poi fra sé pensa un glorioso acquisto,
un sacro don far di quell’alme a Cristo,

72e dice lor: «Vien da più alta mensa
il cibo ond’abbiam noi spirito e vita:
quel Dio che l’uom creò l’esca dispensa
per cui l’umana prole anche è nodrita.
Quella virtù, quella bontade immensa
ch’è senza estremità linea infinita
con larga man, con providenza eterna
tutti pasce qua giù, tutti governa».

73Indi con stil religioso e pio
tutti di nostra fé spiega i misteri,
narra che regna onnipotente un Dio
primiero creator de gli emisferi,
che per pagar di nostre colpe il fio
fin di là da gli empirei alti sentieri
mandò nel puro sen d’una donzella
un figlio suo, che Cristo il mondo appella;

74che, fatto di Giudea ludibrio e scherno,
crocefisso vi fu, morto e sepolto;
che sceso in terra a trionfar l’Inferno
lasciò dal limbo ogni fedel disciolto;
ch’asceso al Ciel, del caro Padre eterno
siede a la destra, in un sol trono accolto,
e ch’indi verrà poi fra gli elementi
giudice de gli estinti e de’ viventi;

75che sempre è spirto, e ovunque vuole ei spira,
e cattolica a noi Chiesa architetta,
che ciò ne l’uom di santo e pio s’ammira
a commun pro per sua bontà s’accetta;
che rimette le colpe a chi sospira
e i peccatori a penitenza aspetta,
e che da i ciechi avelli al sol risorti
promette in Cielo eterna vita a i morti.

76Conchiude al fin che tutto in terra ottiene
e nulla manca a chi tien Dio nel core.
E a queste voci ognun di lor le vene
sente infiammarsi di celeste ardore,
già trabocca in sospir, né si contiene
ne’ suoi confin l’impetuoso amore,
e anelando ciascun la nova fede
già Cristo adora e già battesmo chiede.

77Chiam’egli a l’ora il sacerdote, e vuole
che senza indugio in quell’istesso lito
pria che ricaggia in Occidente il sole
resti il gran ministero ivi esequito.
Cinto il candido sen di sacre stole
ei già se ’n vien, qual di tant’opra è il rito,
e a schierar di sua man fermasi intento
sovra tripode d’or vasi d’argento.

78Giolivo in vista e placido in sembiante
li padroneggia il conte e li precede.
Dice il ministro a l’or, grave e zelante,
da la Chiesa di Dio che si richiede;
con riverente piè trattosi avante
tosto risponde il buon padrin: «La fede».
«E che ti dà la fé?» l’uno soggiunge;
replica l’altro: «Al Ciel per li si giunge».

79«S’eterna vita aver in Ciel bramate,
custodite i precetti e sì l’avrete:
il vostro Dio di tutto spirto amate,
né l’uomo prossimo vostro unqua offendete.
Questi i cardini son dove fondate
stan le leggi del Ciel ch’or voi chiedete.
Unica Trinità, trina unitade
venerar in un Dio, questa è pietade».

80Sì parla il sacerdote, indi tre volte
se rinunziato hanno a Satan dimanda,
et a le pompe sue fragili e stolte
e ad ogni sua profana opra nefanda,
ma già le labbra ha il cavalier disciolte
e sodisfà tre volte a la dimanda,
Del simbolo apostolico lor chiede
quinci quel saggio, e ognun di loro il crede.

81Poi tre fiate un alito fecondo
soffia, devoto, a ciascun d’essi in faccia,
e dice: «Esci da lor spirito immondo,
che spirto difensor quindi ti caccia».
E il nobil segno ond’ebbe vita il mondo
e che sì lieto il cristiano abbraccia,
in ogni fronte, in ogni petto imprime
col maggior dito, e questi detti esprime:

82«Riceverete il carattere divino
e i celesti costumi e i culti sacri,
e ognun di voi con atto umile e chino
in tempio a Cristo il proprio cor consacri.
novo calcate e più fedel camino
e gl’idoli aborrite e i simolacri».
Così gli esorta, e fa con puro zelo
esorcismi a l’Inferno e prieghi al Cielo.

83Al fin di sacro sal poche granella
lor ne la bocca e su le labbra infonde,
et a più salutar vita novella
su ’l tergo e ’l sen l’olio vital diffonde.
Poi, guerniti la man d’aurea facella,
li chiama al fonte e li conduce a l’onde,
e a tutti lor de la gran Triade in nome
co ’l lavacro divin bagna le chiome.

84Aspersi d’acqua e di pietade accesi
di bianche lane indi li veste il conte,
e di superbi e bellicosi arnesi
vuol che gravin le terga, armin la fronte.
Corrono uniti et a gli amati pesi
porgon le braccia ubbidienti e pronte,
e salito in su i rostri ogni fedele
subita libertà danno a le vele.