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Il Boemondo, overo Antiochia difesa

di Giovan Leone Sempronio

Canto XVI

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 2.05.15 7:25

ARGOMENTO
Alceo narra a Corban le sue disdette
e d’esser tal qual dice i segni addita,
ma pur ch’egli s’uccida il re commette,
Clorinda il riconosce e ’l serba in vita.
Trofei su ’l Nilo a Baldovin promette
del macedone eroe l’ombra mentita;
ei mentre l’asta rinverdirsi vede
il pensier volge ad Antiochia e ’l piede.

Alceo, fratello di Erminia, si presenta al campo di Corbano in vesti pastorali

1Corban fra tanto entro la vana idea
chimerizzando gìa palme e vittorie,
e «Sì lunga stagion dunque» dicea,
«lente per me zoppicaran le glorie?
Ah non fia no che l’empia gente e rea
resister più solo un sol dì si glorie;
io già trionfo, e già per loro è giunto,
né il pon fugir, l’inevitabil punto.

2Verran, tanto i perigli han già vicini,
non andrà molto a supplicar pietade,
e a i nostri piè famelici e tapini
piegaran gli elmi e gettaran le spade;
lasciaran di Soria gli ampi confini,
cederan la campagna e la cittade,
e assai gloriosa lor fia, nudi et inermi,
quindi partirsi o qui servire infermi.

3Oh la reina e la sua figlia almeno
a i communi trofei fosser presenti,
ond’io potessi al patrio trono in seno
riporle, ove regnaro i lor parenti!».
Così ragiona, e rilassando il freno
al soverchio desio conta i momenti,
e seco gli altri eroi siedono accinti
a consultar come trattar co i vinti,

4quand’ecco arriva al campo e al sommo duce
più volte il varco un pastorel richiede.
Tra i rozzi arnesi un non so che di luce
più che vulgar da lui spirar si vede,
sì che ’l guida la guarda e lo conduce
ne la gran tenda ove Corban risiede.
Egli entra, e lievemente a terra piega
la fronte, e grave i sensi suoi dispiega:

5«Sire, se spesso in pastorali spoglie
non si chiudesse ancor spirto gentile
già non avrei di tue superbe voglie
tocco i confini umil bifolco e vile;
so ben che da i gran re mal si raccoglie
chi nacque abietto in boscareccio ovile,
ma già tal non son io, cui la fortuna
ravvolse già tra regie fasce in cuna.

6Sono il principe Alceo, l’amato figlio,
l’unico erede al morto re Cassano,
già d’arme poderoso e di consiglio
e d’Erminia gentil maggior germano.
Vissi tra i boschi in solitario esiglio
da la vinta città finor lontano,
e in tuo servigio e per la patria terra
oggi ritorno a cimentarmi in guerra».

7Stupido il ciglio immobilmente inarca
Corbano a l’or del pellegrino a i detti,
et egli a lui: «Non istupir, monarca,
mirarmi avvolto in abiti negletti,
s’a le rozze capanne altri se ’n varca
da le pompe talor de i regi tetti
e se tapina un re, regna un tapino,
son vicende del fato e del destino».

8Scaltro risponde il persiano: «E quale
fu questa tua peripezia funesta?».
Replica quei: «La notte a me fatale
de la tragedia mia flebile e mesta,
quand’ebbe l’empia tela il disleale
e falso Pirro a danno mio contesta,
mi fe’ veder da le cristiane squadre
presa la reggia e lacerato il padre.

9Se di buon cavalier le parti io fessi
ne chiamo in testimon gli uomini e ’l Cielo,
ma poich’io vidi i cari muri oppressi
né scorsi intorno altro ch’orrore e gelo,
uscii con molti, e scampo al piè concessi
mentre ancor l’ombre avea su ’l volto il velo,
e procurammo unitamente insieme
sopravvivere al duol, non a la speme.

10Ma usciti in campo e tratti a pena fuora
de la città, demmo in nemica schiera,
e là fu d’uopo novamente ancora
mostrar cor bellicoso, alma guerriera.
Pur convien che si caggia e che si mora
così la turba è numerosa e fiera,
e in atto languidissimo e funesto
in fra i morti ancor io nudo mi resto.

11Riapro al fine in fra poc’ore il ciglio,
e mi scuoto e risorgo e m’incamino,
e a lenti passi dal mortal periglio
mi parto ove mi porta il mio destino.
Di sangue e di pallor sparso e vermiglio
mi riparo in un antro ivi vicino,
poi su i novelli albor là ’ve più fosco
ombreggia un collicel poggio e m’imbosco.

12Quivi mi fermo, e dietro a poca gregge
girsen cantando un villanel rimiro,
che la frena, la guida e la corregge
d’una picciola verga a un moto, a un giro.
Questi m’accoglie, mi sostiene e regge
e questi offre soccorso al mio martiro,
et a condurmi al suo tugurio intento
a me sol pensa e tutto oblia l’armento.

13Sovra le proprie piume indi mi pone
e mi fascia le piaghe e mi ristora,
poi la mia cura a i suoi famigli impone
e mi serve ciascun, ciascun m’onora.
Ma la contraria al mal fredda stagione
il ferito mio sen nulla avvalora:
ogni erba cerca, ogni radice trova
il selvaggio chirurgo e nulla giova.

14Immerso in un continuo atro pensiero
così me ’n giaccio immobile e languente,
e rimembrando il già perduto impero
vie più s’affligge torbida la mente.
Or spero la salute or la dispero,
amo solo il silenzio, odio la gente,
e co’ suoi negri umori il cor m’assale
arida inedia, ipocondria mortale.

15Giunge intanto un guerrier ch’ivi smarrito
avea ’l sentiero, e vi si ferma e dice
ch’Erminia vive, e che in amico lito
co ’l buon vecchio Aladin stassi felice,
che tu venisti in fin di Persia ardito
a rotar ne i cristian spada vittrice,
e ch’Antiochia anch’oggi assedi e in breve
l’affamata città render si deve.

16Parte ciò detto, e al lieto aviso il lume
racquistan gli occhi, e m’alzo e mi rinfranco.
Già sano ho il seno, e dalle molli piume
già fuor mi traggo estenuato e stanco.
Poi, qual è de i pastor stile e costume,
poche mi cingo e rozze lane al fianco,
e, benché nato al brando, uso a l’usbergo,
ravvolgo pur poveri velli al tergo.

17Ma poich’alquanto è stabilito il piede,
dal cortese pastor prendo commiato,
né potendo lasciargli altro in mercede
pur me gli mostro almen tenero e grato.
Un pietoso congedo ei mi concede,
geloso di mia vita e di mio stato,
e dal lungo camin fievole e lasso
qui volgo al fine a riverirti il passo».

18Figlio, soggiunge il re, benché verace
io creda ogni tuo vanto, ogni tuo merto,
pur richiede il dover, sia con tua pace,
ch’ei mi si mostri ad altri segni aperto.
Tu mai non fosti in Persia, e se fallace
non m’è il tuo dir, m’è pur almeno incerto.
Chi mai ti vide? e in tante schiere e tante,
chi ti ravvisa al natural sembiante?

19Se d’Antiochia il principe tu sei
e del morto Cassan la vera prole,
tue vittorie fian anche i miei trofei
e del regnar ti cederò la mole,
ma se con modi menzogneri e rei
tu mi vieni a narrar romanci e fole
da la mia giusta e real mano aspetta
durissimo castigo, aspra vendetta».

20Dic’egli: «È giusto», e così in lui risplende
la purità de l’animo innocente
che d’un nobil rossor tutto s’accende
e da sproni d’onor punger si sente.
Cerca chi lo ravvisi, e poscia intende
che schiera v’è d’antiochena gente,
e spera a un guardo sol riconosciuto
esser da lor, che già gli dier tributo.

Solimano lo accusa di non essere il vero Alceo, lui non passa la prova calligrafica ed è condannato a morte

21Ma v’è più d’un eroe cui molto cale
se in quelle spoglie il cavalier si cela,
e che, fatto de l’un l’altro rivale,
a le nozze d’Erminia intento anela:
l’usurpator del titolo reale
con rigida delude aspra querela,
e chiede al re che quell’altier, quel finto
sotto scure mortal svenisi estinto.

22Riman sospeso il gran Corbano e brama
che s’opri ogni arte a rintracciarne il vero,
quindi citato al proprio trono ei chiama
ogni nativo antiochen guerriero.
Vengono molti, e ogni un di loro acclama
l’unico successor del patrio impero,
e benché siasi in sozze pelli avvolto
da tutti è pur riconosciuto in volto.

23Qui Soliman, che più d’ogni altro ha speme
d’aver Erminia e ’l suo gran regno in dote,
e che vorria l’esser d’Alceo e insieme
le sembianze di lui rendere ignote,
s’agita irato, si contorce e freme
al novo caso, e sofferir non pote
che gli sia tolto da sì falsi inganni
il risarcir di sue sventure i danni.

24Poi grida: «O sire, in ogni età feconda
natura è ben di sempre nova idea,
e di sì vasti e gran fantasmi abbonda
che vari oggetti ogni or concepe e crea;
pur avien che talor turbi e confonda
l’imagini già fatte e le ricrea,
sì che a scherno de gli occhi e de le ciglia
spesso un volto fra noi l’altro somiglia.

25Da l’aspetto delusi o dal desio,
chi sa? forse in mirarlo eran costoro,
o in testimon de l’empio fatto e rio
da lui forse fur compri a prezzo d’oro;
ch’autenticato per signor natio
un basso pastorel resti da loro
strano mi sembra, e convien dir che sia
gran bontà, gran malizia o gran follia».

26Ode Alceo le calunnie e più costante
sempre si mostra a i fieri colpi altrui,
e ad un caro vassal trattosi avante
gli adduce in mente i chiusi detti sui:
«A l’or ch’io vissi ad Artemisia amante
per goder il mio ben, teco non fui?
e dal geloso padre ivi sorpreso
da l’armi tue non vi restai difeso?».

27A un altro indi si volge: «E tu non sei
quel che ’l ferro impugnasti ardito e forte
quando per secondar gli sdegni miei
detti notturno al grand’Osman la morte?
non ti donai gran gemme e non ti fei
mio caro serve e non ti accolsi in corte?
e sotto fida e impenetrabil chiave
chi tenne, fuor che noi, fatto sì grave?».

28Indi scendendo a i più leggieri affari
a chi raccorda i passi e le parole,
a chi gli allegri risi e i pianti amari
e a chi narrando va caccie e carole.
Spiega l’opre diverse e i casi vari
con lor veduti a l’ombra, a l’alba, al sole,
e non che l’ore e i dì vien che rammenti
anche i punti medesmi, anche i momenti.

29Confessan quei ciò ch’ei racconta, e fanno
fede a Corban de la sua pura fede,
ma vie più cresce in Soliman l’affanno
e s’oppon rigoroso e nulla cede:
«Ciò che dicon costor e ciò che sanno
è tutta falsità, tutto mercede.
Forse del buon Cassan questo protervo
era un valletto, uno scudiere, un servo».

30Coraggioso ripiglia il pastorello:
«Segno darò che non sarà servile:
di Cassano il segreto aureo flagello
era tra ʼl fango un armellin gentile,
la cifra poi carattere novello
in sé chiudeva, e strano avea lo stile,
e i dubbi sensi suoi tenea contesti
da le stellate imagini celesti».

31«Oh (risponde il soldan), l’astuzia e l’arte
comprendo io ben de i cupi inganni suoi!
D’un che de i regi affar ebbe già parte
segretario fedel era costui».
«Dettai, non scrissi, e di segrete carte
signor (dic’egli) e non ministro io fui,
e darò se fia d’uopo il contrasegno
de l’imperio di Persia e del mio regno».

32A gli occhi del re poscia s’appressa
e breve gliel espon, tacito e piano.
Stupisce al certo indicio e lo confessa
di regia stirpe entro il suo cor Corbano,
pur contra lui di mormorar non cessa
e beffeggiando il va l’empio soldano,
ma nulla ei se n’offende, e più opportuna
attende in tanto e men crudel fortuna.

33Ahi ma con novi e gravi colpi ei sente
vie più spietata inferocir la sorte:
un eroe di suo regno e di sua gente,
suo caro amico e suo compagno in corte,
cauto si giura, e in quanto a sé non mente,
unico testimon de la sua morte,
e ne fa risoluto a chi ne ’l chiede
a stil di cavalier publica fede.

34Dice che seco al general conflitto
ei si trovò de l’espugnate mura,
e seco se n’uscì mesto et afflitto
da la cittade, a l’ombra cieca e scura,
ch’ivi in nova tenzon morto e trafitto
Alceo restossi, e ch’ei sol l’ebbe in cura,
gli occhi gli chiuse, e in poco lino avvolto
il pianse estinto e ’l sospirò sepolto.

35Soggiunge che di dardo aspro e mortale
sotto la manca mamma avea la piaga.
Gli scinge il re la spoglia pastorale,
e di mirarlo in sen l’anima ha vaga,
e trovando colà colpo di strale
palpa la cicatrice e se n’appaga,
e in tanta varietà, dubbio del vero,
sospeso in lance egual porta il pensiero.

36Pur gli sovien come far nova prova
s’egli si deggia o re chiamarsi o reo:
carta fra mille accidental ritrova
che scrisse in Persia a la gran corte Alceo,
altra mirarne in suo sermon gli giova
di quel tenor che in Antiochia ei feo,
per veder se ’l carattere e lo stile
sembri lo stesso o pur almen simile.

37A imprimere il pastor tosto si spinge
sovra candido lin picciole note,
ma in van la muta penna agita e stringe
che bench’alate, ha pur le dita immote:
o che non vuol l’astuto o che s’infinge,
o che non sa l’afflitto o che non pote,
forse la lunga infermità nocente
tolse l’arte a la man, l’uso a la mente.

38Grida a l’or Soliman: «Segni più certi
dunque, o signor, del suo mentire attendi?
e sì lunga stagion da te sofferti
sono i misfatti altrui, né te n’offendi?
or ch’inganni sì rei miransi espressi
il condegno flagello a che sospendi?
Muoia il bugiardo: eccesso è troppo indegno
che vil pastor tenti usurparsi un regno.

39Sta lung’ora Corban muto et immoto,
né sa ben se s’appone o se s’inganna,
ma pur, per general publico voto,
reo lo dichiara et a la scure il danna.
Al mesto aviso il miserello ignoto
del suo fiero destin s’ange e s’affanna,
e a l’apprestar de i rigidi stromenti
così le pene sue sfoga in lamenti:

40«Sprezza la rota omai, regia fortuna,
ch’oggi vedi il più bel de’ tuoi trofei:
da la natura uom coronato in cuna
s’adduce a insanguinar ferri plebei.
Non avesti qua giù vittoria alcuna
più nobil mai de i gravi oltraggi miei,
far rege un uomo, e perché re si chiama
torgli la vita poi, torgli la fama.

41Spietata, ah se ti trovi esser pentita
d’aver posto il mio piè su regal seggio
la corona al tuo crin restituita
ho già gran tempo, e in fra i pastor mi veggio,
ma con lo scettro a che mi tòr la vita
se non l’ebbi da te, s’altrui la deggio?
Deh, non curar moltiplicarmi ambascia
e se re non mi vuoi, servo mi lascia.

42Misero Alceo (se senza offesa altrui
pur co ’l nome d’Alceo chiamar mi lice),
ecco i tuoi regni, ecco gl’impero tui,
ecco l’antica tua reggia felice.
So ben che gran signor un tempo io fui
et or sono un negletto uomo infelice;
ma pur son uomo, or se nel patrio trono
non son re ned Alceo, dunque chi sono?

43Se dove più mortale era il periglio
caddi pugnando in su ’l terren piagato,
se fei del proprio sangue il suol vermiglio
e in grembo a l’erba agonizzai gelato,
se ufficioso altri mi chiuse il ciglio
e di sua man mi fe’ sepolcro il prato,
morto e sepolto a che voler ch’io mora
ombra real novellamente ancora?».

Clorinda prova la sua identità mostrando un neo sotto il seno, Solimano sobilla ancora sospetti e convince parte dell’esercito ad ammutinarsi: Corbano spedisce Alceo a Gerusalemme per sedare la rivolta

44Così si lagna, e al duro ufficio e rio
la manaia fatal già già s’appresta.
Giunge Clorinda, e in nobil atto e pio
al funebre apparecchio il passo arresta;
chiede chi si castighi e in che fallìo,
e sodisfa un sargente a la richiesta,
ch’uom senza nome a morte ivi è dannato
non si sa di chi figlio e dove nato.

45«È visibile almen» replica quella
«o dal corporeo vel spirto disciolto?».
«Miralo in vile e pastoral gonnella»
soggiunge quegli «ignobilmente avvolto».
Stupisce la fortissima donzella
al flebil caso, indi l’affisa in volto,
e a un guardo sol già riconosce il reo
et -«Ohimè (grida), ecco l’infante Alceo!

46Fermate e sospendente». Ubbidienti
si ferman quelli, ed ella al re ragiona:
«Che prodigi, o mio sire, e quai portenti
son questi? e chi li fa? chi li cagiona?
si danna un prince a gli ultimi tormenti
et a sangue real non si perdona?
Quello, se tu no ’l sai, ch’empio consiglio
or guida a morte è di Cassano il figlio».

47«Tal si finge costui, tal si professa
con falsi vanti» il capitan risponde,
«e par che menta, e frodi a frodi intessa
così le prove sue mesce e confonde;
con lui favella, e sì vedrai tu stessa
ch’un finto cor ne l’empio sen nasconde»,
e del mentito re poscia l’espone
ogn’indicio, ogni segno, ogni ragione.

48«No,» gli dice Clorinda «io che già fui
sua coetanea, e seco vissi in corte,
e che talor gli alti accidenti a lui
noti già fei de la mia varia sorte,
a i moti, a i gesti et a i sembianti sui
benché pastor, pur riconosco il forte,
né soffrir vuo’ che sotto ignobil fato
caggia a colpo vulgar crin coronato.

49In su l’omero destro un picciol neo
miniato così d’or biondeggiante
portava impresso il giovinetto Alceo,
come porta le stelle al tergo Atlante.
Da i tuoi ministri or si dispogli il reo,
e, nudo il dorso, a noi si tragga avante,
e se in lui non veggiam l’occulto segno
morasi pur, che ben di morte è degno».

50Addotto è il pastorello, e in quell’istessa
parte nudato ove Clorinda impose,
e splende in lui la bella macchia impressa
che non senz’arte ivi natura ascose.
Tosto la vita è al cavalier concessa
dal buon Corban, che in tal periglio il pose,
e vuol che in regi arnesi e peregrini
innocente s’acclami e re s’inchini.

51Si sdegna Solimano e del suo sdegno,
sì grave avvampa, è mal capace il petto,
e corre senza fren, senza ritegno
politico a destar novo sospetto.
Dice ch’aspira d’Antiochia al regno
Clorinda, e al regio trono e al regio letto,
e con quell’empio in rio concerto unita
da morte il trasse e gli salvò la vita.

52Serpe nel cor de i persiani eroi
di sì gran dubbio in ampi germi il seme,
e di Clorinda e de gl’inganni suoi
con questo lume ogni un sospetta e teme.
«Dunque Corban si servirà da noi»
dicean «senza mercede e senza speme?
e i ricchi premi in guerra e i regi onori
fian tolti a i cavalier, dati a i pastori?

53Tornianne oltre l’Eufrate, e non si mostri
tanto valor dove non è chi ’l curi.
Lunge le nostre spade e i petti nostri
mirinsi omai da gli assediati muri;
indarno a racquistarli è che si giostri
se dar si denno a villanelli oscuri.
Lasciam, lasciamo il campo, ove di pregi
son vinti i veri eroi da i vinti fregi».

54Così diceano, e già su l’aste avvolte
e ripiegate avean spoglie e bandiere,
e già fra loro ammutinate e sciolte
tumultuarie grida alzan le schiere.
Va in mezzo Soliman tra le più folte
e più pronte al furor turbe guerriere,
et opportuna a trar fuga veloce
le sprona co ’l sembiante e con la voce.

55Corbano accorre al marzial tumulto
e l’origin ne chiede e la cagione,
e poi che più non gli si tiene occulto
il van timor ch’a i moti lor fu sprone,
per mitigar di Soliman l’insulto
che si rannodi il pastorello impone,
et a più certa prova in Palestina
catenato si mandi a la reina.

56Quietasi a l’or la sollevata turba
e la fuga intrapresa ogni un sospende,
ma se n’ange Clorinda e se ne turba
e non esser creduta indi s’offende,
e perché la sua voce il re disturba
non fa motto la saggia e non contende,
e spera un giorno in opra sì cortese
far l’altrui frode e la sua fé palese.

Baldovino sogna grandi imprese mentre ascolta le lezioni di geografia di Pancrazio

57Nel ricco sen de la sua cara Edessa
l’irato Baldovin stavasi intanto,
e di superbe idee l’anima impressa
d’alti trofei chimerizzava il vanto.
Che già non fosse a i merti suoi concessa
Erminia in dono ei si sdegnò cotanto
che, fatto di Tancredi emulo antico,
l’odiò compagno e ’l bestemmiò nemico.

58Qui del gran Tolomeo talor solea
prender con gli occhi a passeggiar le carte,
e senza mover piè, spesso scorrea
del mondo tutto ogni remota parte.
Mille provincie in poco lin vedea
con brevi punti epilogate ad arte,
e pugnando co ’l genio e co ’l pensiero
cosmografo parea più che guerriero.

59Monarchie vagheggiar, regni ed imperi,
popolate città, deserti ignudi,
montuosi camin, piani sentieri,
fonti e fiumi mirar, stagni e paludi,
scorrere i mari e gli oceani interi
del suo bellico ingegno eran gli studi,
e in un mentale e volontario esiglio
fra lor godea peregrinar co ’l ciglio.

60Era seco Pancrazio, un suo maestro,
non men che di virtù d’anni canuto,
ma sovra ogn’altro industrioso e destro,
scaltro d’ingegno e d’intelletto acuto.
Questo ogni mare et ogni sito alpestro
avea su i fogli altrui scorso e veduto,
et a lui ne facea copiosa parte
facondo espositor di sì bell’arte.

61«Signor,» dicea «qui volgi il ciglio e senti
gran meraviglie in semplici parole:
quando sovra gli abissi i fondamenti
gettò del mondo e fuse d’oro il sole,
e quando trasse i cieli e gli elementi
l’eterno Dio da l’indigesta mole,
l’acque da l’acque al fin divise, e vari
confin lor diede e congregolle in mari.

62Quindi la terra, or sollevata in monte,
or rotta in rupe, or adagiata in valle,
carca di fiori il crin, d’erbe la fronte,
di biade il seno e d’arbori le spalle,
se non quanto la bagna o fiume o fonte
arsiccio ha ogni sentier, duro ogni calle,
e da i flutti e da i lidi e da l’arene
diverse forme e vari nomi ottiene.

63Quella che d’ogn’intorno il mar circonda
con l’umide sue braccia isola è detta,
e penisola è poi quella che l’onda
da un sol lato non tocca e non ricetta;
istmo si chiama al fin quella feconda
spiaggia gentil ch’è fra duo mar ristretta.
Così partita è in più figure, e quella
ch’è più lunge dal mar ferma s’appella.

64In tre parti distinto, il continente
abitabile a noi poscia si vede:
Affrica è l’una, e sotto clima ardente
bruna è di volto e barbara di fede;
il gran padre ocean da l’Occidente
le bagna intorno e dal merigge il piede,
da l’orto ha il rosso mare, e la divide
in verso Borea il termine d’Alcide.

65Europa è l’altra, et ha co ’l grane Eusino
la palude Meotide a Levante,
devota region, che nel divino
culto si mostra intrepida e costante;
stendendo oltre Albione il suo confino
vagheggia da Ponente il mar d’Atlante,
e dove in ciel gira Boote il plaustro
ha il mar gelato, e ’l vasto Egeo da l’Austro.

66Asia è la terza, e a l’altre due prevale
in grandezza di sito e di terreno;
qui la ricinge il lido orientale
e la chiude colà l’arabo seno,
poi dove avvampa il ciel meridionale
pone al suo piè l’indica Teti il freno,
e da Settentrion Scizia la regge,
inumana di core, empia di legge.

67Contengon queste in fra le braccia loro
quasi cento provincie e cento regni:
molte fertili son d’argento e d’oro,
molte feconde di sublimi ingegni;
qual gode de la pace il bel tesoro,
qual di sanguigno Marte arde a gli sdegni;
son altre inculte et arenose spiaggie,
altre bituminose, altre selvaggie.

68Van fra l’isole poi d’un grido istesso
Cipro, Ibernia, Trinacria, Anglia et Eubea,
e penisola è l’aurea Cheronesso,
la Taurica, la Cimbria e la Morea;
istmo è l’Italia, istmo è Corinto anch’esso,
Dania e l’Arabia Fertile e Petrea.
Or tale è il nostro mondo, e in questa guisa
han la terra i cosmografi divisa».

Gli compare l’anima di Alessandro magno, che lo convince ad abbandonare l’impresa del Sepolcro per dedicarsi alla conquista dell’Egitto

69Or mentre speculando intento e fiso
sta l’erudite tavole terrene,
con insolito orror spettro improviso
nel più riposto albergo a lui se ’n viene.
Da le tracciate linee egli alza il viso,
poi ferma il guardo, e dubbio alquanto il tiene,
e mira al fin giganteggiare un’ombra
vasta così che la gran sala ingombra.

70La bruna forma e la sembianza oscura
rassembra et è di vincitor guerriero.
Nero ha l’usbergo e nera l’armatura,
nero l’elmo su ’l crin, nero il cimiero;
gli ondeggia al sen, senza artificio o cura,
nera la sopravesta e ʼl manto nero,
e in nobil gesto et in sembianza ardita
stringe di fosco acciar spada brunita.

71Sorge a l’or Baldovino e minacciando
getta le carte e in esse il mondo a terra,
indi s’inoltra, e nudo impugna il brando
e grida: «A che tradirmi? Eccomi in guerra.
Non m’è gito dal petto il core in bando
e l’antico valor l’alma riserra,
dunque tu vieni, o ch’io mi traggo avanti
che non ho cor da paventar giganti».

72Ma l’ombra a lui risponde: «A cimentarmi
io qui non venni, e non ti voglio estinto.
Non ti portano no guerra quest’armi,
e vincitor sol ti desio, non vinto.
Non curarti, o signor, ch’io mi disarmi,
che non d’acciaro a i danni tuoi son cinto:
come in vita già fèr le proprie glorie,
così or premono a me le tue vittorie.

73Io lo spirto real, la nobil alma
son del magno Alessandro, e ciò ti basti,
quella che già ne la corporea salma
pari co i giorni ebbe i trionfi e i fasti,
la cui vittrice e sempre verde palma
ne le memorie tue spesso onorasti,
e ’l cui nome immortal fra voi si spande
et ha, sepolta ancor, titol di grande.

74Giovine già presi pugnando a sdegno
l’umil confin de la natia contrada.
Mi fei su ’l crin di mille regni un regno
e fur l’imprese mie voli di spada.
L’altrui perizia e ’l mio feroce ingegno
su ’l Gange ancor m’agevolàr la strada,
e punto il cor d’un generoso duolo
piansi la povertà d’un mondo solo.

75Or a palmi si vince, e ogni guerriero,
ahi gran rossor, sedendo in campo stassi,
e dopo un lungo sol secolo intero
qualche bassa vittoria udendo vassi.
Oggi a domar con l’armi un breve impero
gli acquisti altrui voli non son ma passi;
così men chiaro, o Baldovin, tu sei
con questi lenti tuoi zoppi trofei.

76Io l’istesse provincie ove ozioso
hai del bel regno tuo posta la sede
molle non passeggiai, ma generoso
toccai co ’l guardo e sol libai co ’l piede.
Dirai che regio scettro e glorioso
Edessa e Tarso a i merti tuoi concede?
Queste città c’hai conquistate in guerra
son duo piccioli sol pugni di terra.

77Lascia le linee omai, getta i volumi,
che troppo angusto è di lor sfere il giro,
o pur sol tanto in esse affisa i lumi
quanto destino in te nobil desiro:
vanne, e varca pugnando or mari or fiumi,
oltre l’Eufrate et oltre il lido assiro.
Han diversa magion Minerva e marte,
ama le tende l’un, l’altra le carte.

78I remoti de l’Asia ampi confini
e le spiaggie affricane e l’europee,
sian di que’ vasti oggetti e peregrini
che racchiudi nel cor picciole idee.
A gli espugnati al fin lidi latini
vola e rivola da l’arene achee,
e quell’Italia un giorno e quella Roma
ove indarno anelai, domina e doma.

79Non curar che in sanguigna aspra battaglia
Antiochia da’ tuoi resti difesa,
e di Gerusalem nulla ti caglia
la troppo universal publica impresa:
vinta al fin da ciascun, chi poi prevaglia
non ben saprassi, e fia tra voi contesa,
et avrai tu ne la commun vittoria
poco forse di preda e men di gloria.

80Su le foci del Nil città reale
fu di mia man là ne l’Egitto eretta,
che d’oro ogn’altra e di splendor prevale
e dal mio nome or Alessandria è detta:
questa godrei che per destin fatale
fosse al tuo braccio e a la tua man soggetta.
Or va’, che vincitor già ti prevedo
e tutte in lei le mie ragion ti cedo».

81Qui si dilegua il gran fantasma e riede
al cieco abisso ond’ei primiero uscìo,
o sia l’alma di lui, cui si concede
rigoder per poch’ore il ciel natio,
o, tratto pur da la tartarea sede,
a i danni altrui spirto nocente e rio,
e Baldovin nel dipartir de l’ombra
d’ombra mortal la dubbia mente ingombra.

Pancrazio tenta inutilmente di redimerlo ricordandogli i propri doveri

82Poi fra sé dice: – O come saggio, o come
verace il gran macedone ragiona!
Io qui gravo la man, cingo le chiome
di basso scettro e di plebea corona.
Vuol che da me sian soggiogate e dome
altre provincie, et a gli onor mi sprona,
e fatto a l’opre mie regola e scorta
seguir del suo valor l’orme m’esorta.

83Sieguansi adunque, e tu dilata e spandi,
gloriosa mia man, gli angusti imperi.
Quei ch’appagan se stessi ottusi brandi
sol di pochi trofei non son guerrieri.
Nacquero, e s’impiegàr l’arme de’ grandi
a trionfar de gli universi interi:
ha ben picciolo il cor re che capace
non l’ha d’un mondo e sta dormendo in pace -.

84Pancrazio a l’or, che i magici portenti
è co ’l pensiero a investigar rivolto,
arma la lingua sua d’alti argomenti
per sostener che quel fantasma è stolto:
«Oggetto esser non può di noi viventi
spirto (dicea) da l’uman vel disciolto,
se pur dio no ’l comanda o non consente
che infernal l’esequisca angel nocente.

85Questa non è de l’anime beate
bella apparenza o vision celeste,
ch’esse al mondo apparir sogliono ornate
d’intessuta di rai candida veste.
Una dunque ella fia de le dannate
a gl’incendi immortali ombre funeste,
nacque gentile, e non fa scorta al piede
del macedone eroe lume di fede.

86Anzi né deggio ancor, né posso dirti
che sia di quel gran re l’anima istessa,
ché mai da Pluto a i tormentati spirti
non è ne i lor martir tregua concessa,
Son favole là giù ch’elisi mirti
eterno aprile a l’altrui pace intessa,
et è follia che da l’inferna mole
i rai si torni a respirar del sole.

87Dunque ad empio demon l’opera io reco,
ch’aereo corpo in regia forma assunto
dal centro qui caliginoso e cieco
del cupo abisso ad ingannarti è giunto.
Il venir, il parlarti e l’esser teco
e ’l partirsi da te parve un sol punto;
chimere espose et immaturi figli
fur d’un zelo glorioso i suoi consigli.

88Che tu chiuda nel cor sensi guerrieri
io più d’ogni altri approvo insieme e godo,
ma che poi di Sion lasci gl’imperi
e di Cristo l’avel, questo non lodo.
Deh ravvolgi, o signor, ne’ tuoi pensieri
qual ti leghi a ciò far publico nodo:
il pugnar in Soria chino e devoto
in te più assai ch’elezion fu voto.

89Ma se pur neghittoso et ostinato
sprezzi (che tolga il Ciel) l’ira del Cielo,
l’util proprio ti mova: io, cui squarciato
è de le sfere e de’ pianeti il velo,
ciò che ti serba Dio per man del fato
or se m’odi ti scopro e ti rivelo,
e vedrai quali influssi ardenti e belle
su le venture tue piovan le stelle.

90Oroscopo real segno maschile
ne l’Ariete al tuo natal già diede,
ove occupar con union gentile
Venere e Giove un angolo si vede;
ne la decima casa alto e virile
ferma in mezzo del ciel Marte il suo piede,
Mercurio è ne la sesta, e la fortuna
favorevole ha il sol, fausta la luna.

91Ne la tua servitù placida e bella
la Vergin poi s’accoglie e si ricetta,
e la real Gerusalemme anch’ella
stassi a l’istessa Vergine soggetta.
Quinci al tuo piè quella cittade ancella
sì felice figura è che prometta,
e che Mercurio il conferma, il qual dà legge
a l’ascendente, e ’l signoreggia e ’l regge.

92Regnar dove già visse il Re del mondo,
qual maggior gloria? E questa a te prevedo.
Ah torna in Antiochia a Boemondo,
torna a Gerusalem, torna a Goffredo.
Se nulla può di que’ lunghi anni il pondo
ch’io ti servii, questa mercé ti chiedo:
deh non voler con troppo vani errori
a me toglier la pace, a te gli onori».

Mentre Baldovino prepara l’esercito alla volta dell’Egitto, Dio fa fiorire la lancia e ciò lo induce a tornare verso Antiochia

93Ei così prega, e Baldovin si sente
da varie brame assediar l’ingegno:
fabbricarsi vorrebbe il ben presente,
né l’incerto lasciar futuro regno.
Volgendo or va ne l’implacabil mente
con Boemondo il conceputo sdegno,
et or pensa al Buglion, ma far tragitto
al fin risolve a debellar l’Egitto.

94Poi dice: «Or ch’Antiochia altri difende
io d’Alessandria assalirò le mura,
e se fia mai che le cristiane tende
passar in Palestina abbian ventura,
tornarò poi, se ’l ver da me s’intende,
a la real felicità futura.
Spergiuro intanto io non farò s’acquisto,
benché lontan, fo d’altri regni a Cristo».

95Comanda poi ch’a lo spuntar del sole
timpano banditor chiami ogni schiera,
ch’anzi al partir far di sua gente ei vuole
publica mostra e vagheggiarla intera.
Giunge in campo ogni duce e par che vole
al cenno d’un suo cenno ogni bandiera,
et egli altier, qual de le guerre è stile,
gli accoglie in truppe e gl’incamina in file.

96Or mentre in finta e placida battaglia
manipoli e squadroni ordina e regge,
l’eterno Dio, che vuol mostrar se vaglia
dispersi agnelli a ricondur in gregge,
l’arida del campion dura zagaglia
in un subito april fa che verdegge,
onde in sua man più d’una molle foglia
l’asta riveste e in arboscel germoglia.

97Ricordevole a l’or del giuramento
dentro il suo core il cavalier sospira,
e al buon Pancrazio, ch’altamente intento
in ciò del Ciel le meraviglie ammira,
così ragiona: «Il sovruman portento
ah non in van ne le mie man si mira:
egli è un comando et un decreto espresso
ch’al campo antiochen tragga me stesso.

98Giurai colà, quando partii sdegnato,
non tornar se questo lieve abete
quasi fresco virgulto in molle prato
non rivestia tenere frondi e liete,
ond’or, che senza vel scoprir m’è dato
le riposte del Ciel voglio secrete,
e che prende vigor l’arido legno
mi vesto di pietà, spoglio lo sdegno.

99Su dunque in Antiochia, alti guerrieri,
a gl’amici, a i compagni, al campo, a Dio
sian de i communi et anelati impegni
ministri i vostri ferri e ’l braccio mio».
Applaude il vecchio a i nobili pensieri
e in lui fomenta il santo zel natio,
e pria che mora il bel diurno raggio
volgono in vèr Soria ratti il viaggio.