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Il Mondo Nuovo

di Tommaso Stigliani

Canto I

testo e note a cura di M. García Aguilar | criteri di trascrizione
ultimo agg. 16.06.15 16:26

ARGOMENTO
In un lido, ove s’è dalla procella
salvo il legno maggior del campo ispano
il Colombo ha da un’Angelo novella
gli altri esser salvi ancor poco lontano.
Parte di là, trova l’armata, e quella
fa rassegnar a mostra in largo piano.
Poi la rimbarca, e per la strada ondosa
vede di pesci una tenzon giocosa.

1Io, ch’in mia prima età cantai d’amoreR28st | d’Amore,
non osando tentar più grave pondo,
voglio, (fatto di me quasi maggiore)
cantar del trovator del Nuovo Mondo.
Per quai mari il cercò, con che valore
il vinseR28st | lo vinse, e come il tolse al rito immondo.
Istoria illustre, e la maggior di quante
n’abbia l’umana gente udite avante.

2Non sì peròR28st | Non però sì alle guerre avrò la brama,
ch’amoroso il mio dir non sia talora,
che dove si guerreggia, iv’ancor s’amaR28st | ivi ancor s’ama,
dove son l’arme, ivi gli amori ancora.
E non senza cagion l’antica fama
scritto in carte lasciò chiare fin’ora,
ch’Apollo, il Dio della poetic’arte,
Venere già mostrasse unita a Marte.

3Questo novello MondoR28st | Mondo novello è l’altro volto
della Terra, ch’a noi stà sotto, e in luiR28st | Della ampia Terra a cui noi sopra siamo
di quei famosi Antipodi l’incoltoR28st | che tolto
popolo vive, e v’ha gli alberghi sui,R28st | An l’origine anch’essi si dal vecchio Adamo
che tengon contra il nostro il piè rivolto,
ed an dì quando notte abbiamo nui:R28st | noi notte abbiamo
i quai giàR28st | gran un tempo favola stimati,
son poi stati alla fin veri trovati.

4Dirò insieme al principio, onde prodotta
fù la grandezza de’ suoi stati tanti
al Rè ispan, che signor dell’aurea flotta
più regni ha, che città gli altri Regnanti.
Al dominio del qual mai non s’annotta,
poi che ʼl Sol per girar da tutti i canti
non può in parte del Cielo andar, da cui
non veggia terre, e sudditi di lui.

5O divo Spirto, che lassù spirato
R28st | Tra ʼl padre e ʼfiglio, ai qui per tutto il regno
Tu che portasti il campo avventurato
Dov’era il vento di portarlo indegno
dal Padre, e dal Figliuol, per tutto ai regno.
Tu, ch’in vece di vento il fortunato
stuolo portasti al non più tocco segno,

gonfia ancor’oggi col tuo santo fiato
la debil vela del mio basso ingegno.
Da te venne l’aita a chi fe l’opra,
e da te venga a chi la canti, e scopra.

6E tu regio fanciul, ch’all’ampio impero
succedi sesto erede ai dì presenti,
non sdegnar d’ascoltar, come ti fero
monarca gli avi tuoi di tante genti,
dal mio stil rozo, ch’è però il primiero,
che canta ispani fatti in toschi accenti,
e ch’ad udir di Spagna Italia move,
solita udir di Francia, e di sue prove.

7So, ch’in pace tu siedi al Tago in riva,
e la tenera destra anco non armi.
Ma so, ch’al nobil cor mai non t’arriva
più grato dir, che di battaglie, e d’armi:
onde non troveran tua mente schiva
questi, ch’io sacro a te, divoti carmi:
in cui narrar la guerra alta si debbe
del Colombo, ch’al Mondo un Mondo accrebbe.

8Forse in più forte età, quando avrai visto
ciò, che manca all’impresa entr’al mio inchiostro,
farai coll’armi il non più fatto acquisto
ned al vetusto secolo, nè al nostro,
che finirai di soggiogar a Cristo
l’ignota terra del volubil’Ostro
con doppio ben de’ popoli ambeduoi
noi discoprendo a quegli, e quegli a noi.

9Frattanto nel Colombo una pittura
io mostrerò de’ tuoi futuri onori.
E ciò meglio pon far peravventura
miei versi incolti, che gli altrui sonori:
poichè meglio, ch’un specchio, un’acqua pura
i lor visi appresenta ai miratori.
Dunque, Signore, io movo, e tu apparecchia,
io l’umil canto, e tu l’altiera orecchia.

10Già navigando col suo campo ardito
il Colombo in quel mar ch’Africa serra
(il qual dal Re Fernando iva spedito
per trovar questi Antipodi sotterra).
Era nel quarto dì, stato assalito,
del suo partir, con improvisa guerra,
da un’altra armata di corsai composta
Inglesi, e Franchi, e l’avea in rotta posta.

11Ma avea col fin della tenzone avuto
una tempesta poi sì cruda, e fiera,
che tutte avea sue navi in mar perduto
fuor che la Capitana, ov’entro egl’era.
E con questa arrivò stanco, e battuto
dopo duo dì su l’alba alla Gomera,
isola maura, ch’una è delle sette
già le Felici, or le Canarie dette.

12Quì giunto a sorte, e senza oprar lavoro
mise l’afflitte squadre al secco lito,
e tosto come suole il folto coro
delle caute formiche a un’aia gito,
si sparser tutti a procacciar ristoro
con qualche caccia al gran digiun patire
dopo l’aspra fortuna, in ch’era stata
tutta la vittovaglia all’onde data.

13Il Capitan per una selva piena
vagando, uscì a ventura a un prato erboso
tutto fiorito, e quasi un’ampia scena,
di colli cinto, e per arbusti ombroso.
E mentr’egli fra sè la vista amena
stava fermo a lodar del chiostro ascoso,
fu rapito a levar suso i sembianti
da insolito romor d’ale volanti.

14E vide (o che gli parve) un grande augello
scender d’alto, e posar le proprie some
poco lungi da lui su un’arboscello.
Ond’egli ito vicin conobbe, come
questi era un leggiadrissimo donzello,
ch’avea volto vermiglio, e bionde chiome,
a cui spuntar non si vedeva ancora
la molle piuma delle guance fuora.

15D’un vel vestito candido, qual neve,
listato intorno a lucide fiammelle,
che scendendogli giù succinto, e breve,
lasciava ignude le ginocchia belle:
sotto alle quali egli avea d’ostro lieve
duo coturni, in cui fibbie eran di stelle:
con due dietro alle terga ali argentate,
se non le sommità, ch’erano aurate.

16E ripiegata avendo a meze braccia
la crespa gonna, tenea un scettro in mano.
Coll’altra chiama, e par, che segno faccia
che più gli s’avvicini il Capitano.
La luce, che gli uscia fuor della faccia,
cerchio intorno gli fea sì sovrumano,
che ʼl guerriero accostatosi tremante
gli s’atterrò, così dicendo, avante.

17O bella, ed immortal di Dio fattura,
ch’essere a lui non puoi se non gradita,
qui dopo la marittima sciagura
non senz’alto destino a mè apparita.
L’ultimo, e vero fin d’ogni mia cura,
infin da che d’Europa io fei partita,
non fu di far di regni avaro acquisto,
ma d’alzar, quanto è in me, l’onor di Cristo.

18E voi ne chiamo sol messi di Dio,
in testimon, ch’in lui chiaro il vedete.
pur s’ad un verme vil, come son’io,
son forse tai pensier troppo gran mete,
dimmel tu, perch’in Genoa al nido mio
torni a vivermi in umile quiete,
e saputo il voler di Dio fatale,
credendo oprar il ben, non opri il male.

19L’Angelo gli rispose: il Re celeste
aver lui solo a tant’impresa eletto:
e che non paventasse alle tempeste,
nè prezzasse del mar l’irato aspetto,
seguendo pur per l’umide foreste
la cominciata via, con forte petto:
che di là dall’Oceano profondo:
troveria fermamente un’altro Mondo.

20Poi soggiunse. E perch’altri ha già pensato
di darti alla grand’opra impedimento:
questa verga torrai, con cui toccato
si disface ogni magico ordimento:
la qual tiene oltr’a ciò dentro celato
altro valor di non minor momento:
ch’ognor, ch’in sua virtù comanderai,
ubbidito da’ tuoi sempre sarai.

21Non vo’ già, che t’invij con poca gente,
ma vanne a quest’altr’isola vicina,
ove de’ tuoi navigi il rimanente
salvo s’è dalla torbida marina.
Così detto, e sparito immantenente,
spirò di grati odori aura divina:
e di dietro seren l’aer lasciossi.
Il Duce in man lo scettro aver trovossi.

22Consolato in piè sorge, e in quel s’assisa,
che tutto è d’una gemma, che traspare:
fasciata a tre colori in torta guisa,
un bianco, un verde, e ʼl terzo al minio pare.
Nel calce ha un groppo, ov’intagliata, e incisa
della Terra l’immagine compare
in cima n’ha un maggiore, e vi si scerne
sculto il gran sito delle sfere eterne.

23Con questa verga il cavalier diè volta
verso il navigio, e la recò nascosa:
differendo il mostrarla a un’altra volta,
come dal Re Fernando avuta cosa.
Già ʼl Sole al mezo dì sua luce accolta,
facea cara al pastor l’ombra, e la posa.
Giunse al lito, e s’assise a piè d’un’orno
de’ compagni ad attendere il ritorno.

24Ed ecco alfin con varij acquisti in braccia
giungendo essi venian da più d’un lato
chi preso avea per froda, e chi per caccia,
chi capriuol, chi cervo, e chi pennato.
Costor veggendo nella saggia faccia
splender del Capitan più dell’usato
uno affetto ridente, un’aria lieta:
della cagione il chiesero secreta.

25Ma egli disse lor, che ciò venia
dal mirar sì gran preda, e copiosa,
colla qual ciaschedun si francheria
dalla cupida fame, e tormentosa.
Ma non vo’ (soggiungea) che qui si stia.
Vo’, ch’in nave ascendiam con ogni cosa,
per gir il prandio a celebrar nel seno
di quel, che colà spunta, altro terreno.

26Ivi sò, che cagion d’assai più gioia,
che questa mia non è, troverem tutti.
I nocchieri ciò udendo, ebber gran noia,
ch’eran dal digiunar fiacchi e distrutti.
Ma pure ognun l’amaro indugio ingoia,
e poi che furo i pesi al legno addutti,
sciolser l’odiosa vela, e usciron fuore
a risolcarvi il tranquillato umore.

27S’erano già, dopo intervallo corto,
all’isola appressati a mille passi:
quando innalzando il Capitano accorto
gli occhij, ch’avea ʼl pensar tenuti bassi,
scoprì di là dal lito entr’ad un porto,
ch’a celar tortuoso in terra vassi,
tutto l’avanzo degli abeti cavi,
ch’era sei caravelle, e dieci navi.

28E in piè levossi, ed additolle a’ suoi:
– Quella è, – dicendo, – o miei diletti figli,
la letizia commun, ch’a tutti noi
io promettea pur’or ne’ miei consigli.
Vedete oltr’a quegli arbori là voi
quei, che paiono in secco esser navigli?
Sono i nostri compagni in porto ascoso
campati, come noi, dal mar cruccioso.

29Allor volti i guerrieri a quella parte
riconobber le gabbie a i noti segni:
e con festosi fischij, e voci sparte,
mostraro i cori aver di gaudio pregni.
Credeansi nel Colombo esser qualch’arte,
che di saper l’occulte cose insegni.
Onde da indi in poi più lo stimaro,
com’uom divino, a cui l’oscuro è chiaro.

30Salutaron l’armata, essendo in via,
col fiero bronzo, che tonando luce:
la qual sì disperatasi da pria,
per l’improvisa perdita del Duce,
come un corriero infra camin faria,
a cui mancasse la visiva luce,
non fu a risponder lenta a’ segni fatti
con altrettanti strepitosi tratti.

31E fra i gridi, e ʼl romor d’ambe le parti,
e di bombarde i nuvoli, e ʼl fragore,
e ʼl meschiato sonar delle tre arti,
timpani, trombe, e nacchere canore:
e ʼl remar de’ legnetti in mar cosparti,
in cui veniano i Duci al lor Signore:
si cagionò nell’acqua, e per la sponda
una confusion grata, e gioconda.

32Calan la vela, e l’affannosa entrata
ad imboccar cominciano del porto,
ch’in foggia di gran tazza il sen dilata
congiunto al mar con un canal ritorto:
e tiene un’alta torre edificata
da un canto, ov’è un torrier, che rende accorto
di notte colla fiaccola ogni legno,
ch’erri smarrito per l’ondoso regno.

33Scese il Colombo su l’alpestra sponda,
dov’accertato fu, che l’altre navi:
mentre l’empia tempesta, e furibonda
tenne lontani i zefiri soavi:
gittato il vitto non aveano all’onda,
come la sua, per rimaner men gravi:
ma ch’a ciascuna salvi eran rimasi
del frumento, e del mosto i pieni vasi.

34Lieto il buon Capitan di tanta nova
fe ciascuno cibar, ch’al suo legn’era,
e cibossi egli stesso ove si trova,
dico su un sasso dell’umil riviera.
Poi mandò un bando, ch’all’aura nuova
dello scampato esercito ogni schiera
apparecchiata si trovasse, e unita,
prima a far mostra, ed indi a far partita.

35E volse, ch’Arpaliste allora allora,
che dell’armata è general pilota:
acciocchè si potesse ad ogni prora
fornir di dolce fonte ogn’urna vota:
tutti inviasse i suoi nocchieri fuora
a ricercar per l’isola rimota
alcuna scaturiggine sorgente:
il che eseguito fù velocemente.

36Sandro, ed Archinto interpreti del campo
verso il mezo dell’isola inviarsi
coi nocchier, ch’avean’armi a loro scampo,
e vasella, e giumenti usi a carcarsi:
per acqua addurre anzi che ʼl chiaro lampo
del giorno dietro al mar gisse a celarsi.
E trovaro un pastore a meza via,
Che con due sue giuvenche innanzi gia.

37Archinto domandogli, ov’in quel sito
fusse alcun rivo, o lago, e l’Africano
non pur segnò con un disteso dito
il luogo, ch’era poco indi lontano:
ma d’andarvi con lor fece a sè invito.
Verrò, disse, con voi, nè vengo in vano.
Che dianzi m’era incaminato anch’io
Per girvi a beverar l’armento mio.

38Così si ravviò con essi a pare,
e tanto andar, che, fatto il cielo nero,
giunsero a un campo d’arenose ghiare,
dove parte mirar, parte intendero,
un miracol sì nuovo, e singolare,
ch’appena creder puossi, ed è pur vero:
com’anco testimon tutto dì fanno
gl’ispani mercator, che di là vanno.

39Sorge all’isola in mezo un così grande
arbor, che ʼl Pireneo non l’ha maggiore,
le cui cime ogni dì da tutte bande
un nuvol cinge, e vi riman molt’ore.
Allo svanir del qual si stilla, e spande
giù per li rami e delle foglie fuore,
una ampia pioggia d’abbondevol onda
più che giel fresca, e più che specchio monda.

40Questa tutta accogliendosi su ʼl piano
d’intorno al tronco in un rotondo vaso,
fabbricatovi a ciò dall’isolano,
di sponde basso, e di larghezza spaso:
può per uso de’ bruti, e per l’umano,
sempre, o che ʼl Sol sia in alto, o sia in occaso:
bastar di tutta l’isola a’ cultori,
che non hà, se non salsi, altri liquori.

41Quivi dunque i cristiani in tempo corto
lor vasi empiro, e col notturno raggio
tornaro al campo, e raccontar nel porto
l’alto stupor dell’arbore selvaggio.
Avea la Notte il suo gran carro scorto
al mezo omai del solito viaggio:
ma al più del campo il vigilarla giova
per l’apparecchio della mostra nuova.

42Ciascun di dover far si studia a gara
apparenza più adorna, o meno sconcia.
Chi terge l’armi, chi ʼl cimier prepara,
chi calza il corridor, chi ʼl freno concia.
Al primiero spuntar dell’alba chiara
tutta esser si trovò l’armata acconcia
su l’ampia riva, e col suo popol pronto
a rassegnarsi al destinato conto.

43Risvegliossi il Colombo, e di su l’erta
poppa sceso laggiù con sei custodi:
fermò i vestigi in quell’arena incerta,
appoggiato ad un’asta in gravi modi:
che tutta a bigia seta era coperta,
e noderosa per aurati chiodi.
Fermò i vestigi, e s’affisò a vedere
de’ suoi guerrier le ben distinte schiere.

44Le quai secondo a suono ad una ad una
di timpani con zuffoli tremanti,
ed a voce di trombe anco qualcuna,
gli passavan con ordine davanti:
saliano in mare, e se ne gía ciascuna
al proprio legno ond’era scesa avanti
per dover’esser poi contente rese
delle mercè d’ogni varcato mese.

45Egli osservava con attento avviso
il numer de’ pedon, de’ cavalieri,
l’abito, l’andatura, i membri, il viso,
e s’armi indosso avean quant’è mestieri.
Tutto in sei reggimenti era diviso
il campo, cinque a’ piedi, un di destrieri.
Quegli a pie cinque stuoli an per ciascuno,
che ducento guerrier contengon l’uno.

46Quello a cavallo ha sei composte schiere
di cento lance l’una: in guisa tale,
che senza contar l’arme avventuriere,
senza contar’il popolo navale,
tutta la somma delle genti fiere
a cinque mila, ed a seicento sale.
Ma col valore, e coll’ardir del petto,
empion del poco numero il difetto.

47I primi in mostra i Castigliani foro,
fanti del vecchio regno, e del novello,
ch’an Maramonte innanzi, il quale è loro
commun rettor dopo l’estinto Urgello,
costui fa nello scudo un cervo d’oro,
che nuota in mar dietro al venereo augello
a inferir che si tien del nuovo Mondo
dopo ʼl Colombo il cercator secondo.

48E delle cinque squadre, in ch’egli ha impero,
altre avean Conca, Ocagna, e i grati tetti
d’Osma, e Segovia, e di Toledo altero,
lasciati, ed altre d’Avila i distretti.
Appresso i Biscaglin veder si fero
con terse gole, e con piumati elmetti:
e i Navarresi, le cui spade avanti
fur torte falci, e vomeri pesanti.

49Lor guida è Sancio d’Aisa, il qual mostrava
finta una barca nel vessil morello,
cui nessun’altra soma, o merce aggrava,
ch’un grand’altare, ov’è di Dio l’agnello:
volendo così dir, ch’egli portava
la nostra fe da questo Mondo a quello.
E certo al vero in ciò fea poco frodo,
sendo i suoi poderosi oltr’ogni modo.

50Seguiva di Leon l’armata gente,
e d’Asturia, e Galizia, il cui rettore
fu già Alfonso d’Alcantara possente,
che s’affogò nel tempestoso umore:
ed ora il buon Colombo ha nuovamente
fatto entrarne il Pinzon succeditore,
esperto combattente in terra, e in onda,
la cui ‘mpresa è una lontra in s’una sponda.

51Poi viene il quarto reggimento, sotto
l’insegna del vecchio Innico da Marra,
ch’a mostrar, che non è dagli anni rotto,
nè domo dall’età, suo campo sbarra
con un serpente, che tra spine addotto
si spoglia, e gioventù novella innarra.
Son questi i Granatin dai cotti volti
colla plebe di Murzia insieme accolti.

52Ecco appar Dulipante, il Duce bello
d’arnesi d’or pomposamente armato:
stirpe d’un Rè, qual dirò poscia, e dello
monarca ispano alla gran corte stato.
La costu’insegna è un picciolo torello,
che co’ pie calca un giogo in mezo a un prato,
forse per dinotar, com’il suo core
non si ritrovi in servitù d’Amore.

53Van pria con sua bandiera i Catalani,
a cui nell’uso dello scoppio a piede
ogn’altro popol de’ paesi ispani
volontaria la palma, e ʼl pregio cede.
E dopo con leggiadri abiti strani
un’altra nazion segue, e succede
ch’in Valenza ha l’origine natia
specchio di bel costume, e cortesia.

54E d’ambedue quest’ordini passanti,
ma del primiero più, che più contese,
stati erano già morti ottanta fanti
nella tenzon contra l’armata inglese.
Fe ʼl Colombo riporvene altrettanti
de’ guerrier della torma aragonese
ch’era sciolta, e teneasi in libertate
per riempir le compagnie scemate.

55Le tre ultime squadre, onde si serra
tutto ʼl numero a piè, da varie parti
vengon d’Italia, gloriosa terra,
e madre d’eccellenza in tutte l’arti:
due che ʼl gran Capitano assolda in guerra,
di Genovesi, e Toschi insieme sparti,
sotto ʼl pennon del figlio, e del germano,
ed una del Pontefice sovrano.

56Su questa il sacro Algabro ha potestade,
ch’è Pastor d’Asti, uom degno, e venerando
per prudenza non men, che per bontade,
il qual la Chiesa d’esaltar bramando,
mutata avea nella sua strema etade
la mitra in elmo, e ʼl pastorale in brando:
benchè de’ suoi sian diece in mar defunti,
i quai tosto gli fur d’Ispani aggiunti.

57Ciascuna fila allor, ch’ella arrivava
presso al gran Capitan, faceva al vano
scoppiar con leggiadria l’arme sua cava,
e tutto a un tempo colla destra mano
togliea il vaso, e in andar ricaricava:
non cessando frattanto or presto or piano
di gir pronti sergenti innanzi, e’ndietro
delle turbe accozzando il rotto metro.

58E ciò essi facean parte con cenno,
parte lor traversando innanzi l’aste.
questi sergenti, ov’al Colombo fenno
l’alfier roman tanto appressar, che baste,
segno co’ gridi in ogni parte dienno,
che dall’andar l’esercito sovraste:
e colui sciolta un’ampia insegna, e bella,
cominciò varij giochi a far di quella.

59Or di vela in sembianza la diffonde,
or sì l’accoglie, ch’una squilla pare:
quando tutta spiegandola in tort’onde,
fa rassembrarla un conturbato mare;
e in un tempo la involve, e la confonde,
e la fa quasi a un nuvoletto pare:
quando la cangia con rivolta scaltra
per dietro a’ terghi da una mano all’altra.

60E quindi ripigliandola agilmente
d’infra le gambe, simile la rende
ad un’ala, che vola, o ad un serpente,
ch’attorcigliato si disvinchia e stende.
Talor da sè la trae tant’altamente,
ch’esser par l’Alba con sue rosse bende:
e nel cader se le suppon si giusto,
che la toglie con bocca in calce al fusto.

61Sicché con varij giri, e volte, e nodi
continovando senza far partenza,
fu da ciascun con non discordi lodi
in ciò chiamato uom d’unica eccellenza.
Al fin fermò ʼl vessillo, e in umil modi
del Duce riverì l’alta presenza.
Poi s’avviò cogli altri a chino volto
per dar loco a’ destrier, ch’instavan molto.

62Se sapessi, uditor, chi sia costui
o per più vero dir, chi sia costei:
ti s’alzeriano in capo i crini tui
tanto stupor ti prenderia di lei.
Ella è una figlia d’un gran Re, la cui
morte a lei cagionò più casi rei
chiamata Roselmina, alma avveduta,
ch’era da tutto ʼl campo uomo creduta.

63Arieno ebbe nome il genitore,
che’n Dania tenne la real sua sede:
il qual dopo aver fatta al Regnatore
di Norvergia gran guerra, e tolte prede,
morì senza viril suo successore,
e destinò costei del Regno erede:
che nel legnaggio er’unica, e rimase
sol colla madre alle paterne case.

64Ma perch’ella d’età troppo immatura,
e vecchia era la madre, e mal potea,
del Re Fernando la lasciò alla cura,
nel qual fiducia più ch’in altri avea,
per la gran fama, che di sua drittura
ne’ cristiani paesi ognor correa:
con condizion, che Dania egli reggesse
fin che la garzonetta appien crescesse.

65Quindi la desse in moglie a un cavaliero
che stimasse di lei degno marito:
rassegnandole in dote il Regno intero
con ciò ch’anco in Norvegia era asseguito.
L’Ispano, come buon, ch’era nel vero,
non mirando, ch’allor fusse impedito
nella guerra de’ Mori in sue contrade:
questo impaccio abbracciò con gran pietade.

66Al governo mandò di Dania in fretta
un suo saggio ministro insieme, e forte.
E perch’alle due donne era sospetta
la patria, fe venirle alla sua corte.
La vecchia il Re, ch’era Linerba detta,
ritenne in compagnia della consorte:
e la fanciulla ad instruir mandonne
in un serraglio di sacrate donne.

67Quattr’anni appresso, che la man divina
tirò Arieno a più sublime scanno:
avendo il Re spagnuol la saracina
gente scacciata, e fattole ogni danno:
di cercar pensò sposo a Roselmina,
ch’era omai giunta al terzodecim’anno,
ed imparati avea con doppi studi
costumi adorni, e liberal virtudi.

68Del chiuso albergo egli la trasse fuora
e la ridusse alla sua madre appresso:
e di restituir bramando ancora
pacificato, e non da guerra oppresso
quel regno, ch’era in turbolenza, allora
ch’a sue mani in deposito fu messo:
deliberò di far, come sagace,
con un solo trattato, e nozze, e pace.

69Chiese a Nassirio (avea Nassirio nome
il Re norvegio) e fe per lettre preghi,
ch’a perdonare alle due donne, come
conviensi a Re magnanimo, si pieghi:
offerendo di porgli in man per chiome
la sua fortuna, ove ciò far non neghi:
ch’era di dar la giovane in mogliera
al figliuolo di lui, ch’unico anch’era.

70Dal degno intercessor mosso a placarsi
Nassirio, e dal gran prò delle promesse:
poichè vedea perciò Dania acquistarsi:
l’accordo, è ʼl maritaggio in un concesse,
con patto, ch’uno, e l’altro effettuarsi
quindi a duo anni, e non allor, dovesse:
per aspettar, che sia d’età più forte
Roselmina da giungere a consorte.

71Ferdinando rimase al tutto queto,
nè di ciò disse alle due donne cosa,
disegnando scoprirlo al tempo lieto
per più farne una, e l’altra allor gioiosa
ma Nassirio il figliuol chiamò in secreto,
e palesogli averlo unito a sposa:
benchè, com’era corto in sua favella,
tacesse il nome, e ʼl sangue a lui di quella.

72Il damigel, che dal giogale intrico
avea ʼl pensier lontan, lontano il core:
non sol perch’a libidine nemico,
e schifo in sua natura era d’Amore:
ma perchè, come troppo a guerra amico,
gir bramava a pugnar di patria fuore:
quasi aperse le labbra, e a negar venne
ma poi, meglio pensando, il dir trattenne.

73Pensò, ch’ov’egli avuto avesse ardire
negar apertamente, esser potea,
che ʼl padre lo sforzasse a ciò esseguire:
e così disse a lui, che gli piacea:
ma ch’esser volea pria lasciato gire
a sciorre un voto, ch’al Sepolcro avea.
E dopo ʼl suo ritorno avria compiuto
appieno, quanto avesse il Rè voluto.

74Il Rè, porgendo a’ falsi detti fede,
lodò il pensier religioso, e santo:
e dopo pochi dì modo gli diede,
e lo ‘nviò con duo Baroni a canto:
immaginando, che, perch’iva a piede,
matureriano i duo posti anni intanto.
Partì ʼl donzel con questi, e non ritenne
suo caminar fin ch’in Anversa venne.

75Qui posatosi un dì rientrò in via,
ma lasciò i duo con scusa, e con colore
d’essersi al Ciel votato insin da pria
d’andarei sol per umiltà maggiore:
e prometter si fe, ch’ognun l’avria
ivi aspettato, senz’uscir mai fuore,
per ritornar poi tutti al patrio suolo,
celando al Rè, ch’egli fuss’ito solo.

76Venne egli della Spagna alle contrade
per la fama, ch’udia della sua guerra,
ed entrò di Granata alla cittade,
in cui colla sua corte il Re si serra:
il qual per aver già le maure spade
fugate in tutto dall’esperia terra,
per letizia apprestava in ricco loco
a i vincitori un bellicoso gioco.

77Dulipante esser volse a questa giostra
(cheʼl nome di costui fu Dulipante,
il quale è quel, ch’or’è passato in mostra
a questo quinto reggimento avante)
dove da lui tanta virtù fu mostra,
che superò in aringo ogni giostrante,
non avendo pugnato in tai tenzoni
Salazar, nè famosi altri campioni.

78Per queste prove del garzon possente,
e per la faccia sua gioconda, e bella,
Roselmina, che stata era presente
coll’altre allo spettacolo ancor’ella:
di lui s’innamorò sì caldamente,
come soglia mai far molle donzella:
e portò, poi che ʼl gioco ebber fornito,
la sera alla sua stanza il cor ferito.

79Compiaciutosi il Re di tal valore
conoscer volse il giovenetto strano,
e quello a sè chiamato al novo albore,
chi fusse il domandò con viso umano.
Dulipante io mi nomino, Signore,
diss’egli, e figlio son d’un’Alemano,
a te venuto dal nativo regno
per servir in battaglia a un Re sì degno.

80E soggiunse aver duol, che fusse giunto
con troppo tarde intempestive piante.
Per questo nome nol conobbe punto
per figlio di Nassirio il Re Ferrante:
perocchè ne’ trattati, e nell’assunto
accordo nuzzial, mai Dulipante
mentovato non s’era infra i duo Regi:
ma il Principe de’ popoli norvegi.

81Fernando il buon voler gradendo d’esso
l’accolse fra’ suoi servi, e certo il rese,
ch’ancorin guerra il manderebbe appresso.
Nascendo occasion di nuove imprese.
qui Roselmina poi veggendo spesso
i bei modi di lui, più si raccese:
tanto ch’un giorno dal desio focoso
fu spinta a domandarlo al Re in isposo.

82Il Re, che lei promessa aveva innante
al Prence di Norvegia, e non altrui,
negò di voler darla a Dulipante,
non sapendo che questi era colui:
anzi il mandò in Siviglia all’Ammirante
Colombo, acciò passasse il mar con lui
per l’alta inchiesta della nuova terra,
come fusser le navi acconce a guerra.

83A doppia fine il Re discreto elesse
di far far indi al giovane partita,
una perchè costei più nol vedesse,
e sanasse l’obblio tanta ferita:
l’altra per osservar le sue promesse
a lui, che trar volea guerriera vita,
e che di questo amor non sapea nulla,
ch’era solo al Re noto, e alla fanciulla.

84La miserella a i gran dolor non usa,
vistosi il caro suo dagli occhij torre,
pianse più giorni, e alfin, di speme esclusa,
dispose di sua vita i lacci sciorre.
Prese d’ascoso una bevanda infusa
di duo veleni, che sapea comporre,
ch’eran ben di virtude ambi possente,
ma contrarij, l’un freddo, e l’altro ardente.

85Nè ʼl sapev’ella, anzi gli avea doppiato
per più affrettar sua vita al fine amaro.
Onde nel mescolar, che l’agghiacciato
si fe col caldo umor, tanto pugnaro,
che rimasi ambeduo l’un rintuzzato
dall’altro, e fatto all’un l’altro riparo:
sol di tener la donna ebbon vigore
tre giorni tramortita, e di sè fuore.

86Stata era in questo mezo ella sepolta
per morta, e ʼl terzo giorno a prima sera
rivenuta in suo senso, a sè convolta
esser sentendo in una tomba nera,
si drizzò in piedi, e poi che s’ebbe sciolta
la corda, ch’alle mani intorno l’era,
le languidette braccia in alto eresse,
per tentar se ʼl coperchio alzar potesse.

87Non era ancora per suo buon destino
statavi dall’artefice su messa
la lapida del marmo alabastrino,
ma vi stava frattanto in vece d’essa
una liev’asse di segato pino
con bianca calce al margine commessa.
La giuntura, che fresca era, spiccossi
con pochi sforzi, e furo gli orli mossi.

88Uscita di là sotto ella s’accorse
d’esser nel tempio, e dalla luce scorta
delle lampade sacre, ad aprir corse
la serrata di dietro antica porta.
Quindi verso ʼl palagio i passi torse
per palesarsi a i Re d’esser risorta
ravvolta in quella veste oscura, e trista
in ch’era stata sotterrar già vista.

89Trovò, ch’ognun che della regia corte
la vedesse, a fuggir volgea le piante,
credendola alle gote incave, e smorte,
l’alma di Roselmina, e l’ombra errante.
Però pensò col vel di questa morte
coprirsi sempre, e seguitar l’amante,
che sapeva non essersi partito
col campo ancor dal sivigliano lito.

90Uscì per dove rotte eran le mura
della cittade incontanente fuori.
Ed in viaggio postasi a ventura
della sorgente Luna agli splendori
giunse su l’ora quarta in una oscura
valle cinta di frassini, e d’allori
ove vide tremar lontanamente
per l’uscio d’una grotta un lume ardente.

91Andò là dentro, ed a un gran foco appresso
un uomo ucciso vi trovò disteso,
ch’essere stato a più d’un segno espresso
parea poc’anzi dalle fere offeso
di ch’ella per timor da un moto spesso
si sentì ʼl core a prima vista preso,
come fanciulla, che per gli anni frali
non era usa a veder fierezze tali.

92Poi trascorso cogli occhij intorno alquanto,
e vistovi vecchij abiti, e novelli,
ed armi, e vasa, e cibi in più d’un canto,
di ladri il pensò nido, e di rubelli.
Si spogliò dunque in fretta il lungo manto,
e con un ferro incisisi i capelli,
si vestì da guerrier d’elmo, e d’usbergo
con spada al fianco, e con ischioppo al tergo.

93E tolto da sfamar l’avido dente,
uscì quindi di corso, anzi di volo.
Tutto le succedè felicemente
per esser quella notte il crudo stuolo
gito ad una sua preda unitamente,
fuor che colui, che restò in guardia solo
che poi forse dal sonno in terra tratto
fu da’ lupi dormir per sempre fatto.

94Nel vegnente mattin fece insegnarse
il sentier di Siviglia, e per quel messa,
non prima il quinto giorno in Cielo apparse,
che vi pervenne, e s’introdusse in essa.
Ella sapea sì italico, che parse
talor nel dir nata in Italia stessa:
così fatta instruir dal Rè Ferrante,
ch’amava d’Appennino ogni abitante.

95E perchè nel trattar tragici giochi,
che soglion far tra lor le chiuse suore,
toccato a lei più volte era in que’ lochi
di finger dell’insegna il portatore:
ond’avea impreso (e v’avea pari pochi)
di maneggiarla con maestro errore:
si fe un guerrier d’Italia, e disse come
detto Lelio di Narni era per nome.

96Qui per acuta febbre, e pestilente,
essendo de’ Latin morto l’alfiero:
ella ordinò tai trame ascosamente
coi danai, ch’avea preso all’antro fiero:
che Roldan, ch’appo ʼl Duce era potente,
escludendo ogni italico guerriero:
lei mise in quella vece, ed in sua mano
la guardia diè del gonfalon romano.

97Furon lievi a sortir gl’inganni effetto,
e l’ordite menzogne a trovar fede:
sì perchè ciascheduno in suo concetto
estinta Roselmina esser si crede:
sì perchè rari la sapean d’aspetto:
oltre che ʼl tosco, e ʼl gir sì lungo a piede,
le aveano, più d’Amor la pena, e ʼl pianto,
la bella faccia trasformata alquanto.

98Al partir poi della raccolta gente
ella cogli altri entrò nel salso loco,
dove il veder l’amato ognor presente,
che nol sapendo, a ciò mirava poco:
altro non fe, che renderle fervente
più sempre in petto l’amoroso foco:
e quì ora alla fin con fronte bassa
(com’io dicea) nella rassegna passa.

99Preme la giovanetta isventurata
sue molli membra col ferrigno pondo:
e sotto al ferro tien della celata
l’oro aggravato del suo capo biondo.
Nè tanti passi mai colla pedata,
quanti sospiri fa col cor profondo:
avendo sempre del suo caro amore
il nome in bocca, e la figura al core.

100E quel, ch’indur dovria per la pietade
l’insensibili pietre a vivo pianto
(se come occulta è sua calamitade
fusse palese, e senz’alcuno ammanto)
si è l’esser bella, ed in acerba etade:
ed oltracciò di si gran senno, e tanto,
che trar si lascerebbe il cor dal petto
innanzi che dal cor l’onesto affetto.

101Passata, che costei fu col pedestre
avanzo di sua squadra alla verdura.
Si fece innanti l’adunanza equestre
con fregi, e penne, e lucida armatura:
nella qual’era il popolo campestre
de gli Andaluzzi, e quel d’Estremadura:
parte con lor giannetti all’uso armati,
e parte con corsieri altrove nati.

102Venia Roldano nella prima fronte,
che n’ha il governo, uom d’alcun pregio in guerra:
ma sì malvagio, e pien d’ingiurie, e d’onte,
che non regge il piggior tutta la Terra.
Fa per scudo su un fiume un rotto ponte,
ch’affoga chi v’è sopra, e in acqua il serra
a’ qual senso non so. So ben, che spesso
egli a chi fida in lui suol far l’istesso.

103Calca sedendo ad un giannetto il dorso
candido, maculato a pezze saure,
di grazioso passo, e di tal corso,
che lasceria (non ch’altro) addietro l’aure.
Con sella, e barde, e con frontiera, e morso
di verde seta, cui ricamo innaure:
ma con rosso zendado appeso al seno
di squillette d’argento asperso, e pieno.

104Corte ha le staffe, e fatte ad aurea scaglia:
di sorte tal, che ʼl frenatore Ispano,
c’ha il braccio armato d’arrendevol maglia,
e lungo spron su ʼl borzacchin rovano:
tenendo di due punte una zagaglia
impugnata nel mezzo ad alta mano:
par, che fra l’uno, e l’altro arcion serrato
stia, più tosto ch’assiso, inginocchiato.

105A questa usanza la primiera banda
tutta arma, e quella ancor, che l’è da tergo.
la terza è di frisoni angli, e d’Olanda,
forti, ma grevi a par del sazio mergo:
e l’altre di destrier, che Napol manda,
Napoli di delizie unico albergo,
ch’alle felicità, ch’in grembo serra
sembra parte del Ciel caduta in terra.

106Già ʼl mercenario campo era varcato
quando comparve con superba mostra
de’ venturieri lo squadron filato,
che mezo a piè, mezo a caval si mostra.
Con reggimento alcun non numerato,
ma sciolto, e franco, e ch’a sua voglia giostra.
In lui d’uomini chiari è maggior copia,
ch’in tutto ʼl campo, e non an guida propia.

107Anno il Colombo, di chi in cambio viene
quel membruto pedon, ch’è innanzi a ognuno
nomato Salazar, ch’eguali ha bene
in senno pochi, ma in valor nessuno.
Da due mani una spada al fianco tiene
detta Filindra, ed è vestito a bruno,
benchè poco sia candido egli stesso,
la gente a mille, ed ottocento è presso.

108108 I primi fanti anno lo scoppio in collo,
la corda in mano, ed alla cinta il brando.
Gli ultimi vengon lenti, e senza crollo
le lunghe picche agli omeri appoggiando.
E dopo questi a lato al fermo rollo
passan gli assisi in sella, ognun mostrando
qualche concetto di suo chiuso core,
o in impresa, od in armi, od in colore.

109Lungo saria, di questa parte, e quella,
se tutti i forti annoverar volessi.
V’è Arimone, e Trifeo, coppia gemella,
c’è Ernesto, v’è Partenio, e Urgan con essi.
V’è Martidora l’inclita donzella
egualmente oltraggiosa ad ambo i sessi,
che di grazia e beltà le donne avanza,
e gli uomini d’audacia, e di possanza.

110Evvi Silvarte il pugnator sovrano,
ch’a Salazar non cede in alcun’opra
Clorimondo il terribile Romano
col fier Brancaspe, che due spade adopra.
suo frate Argiso, ed Ugo, e Soridano,
e Lucidor, ch’in stratagemi s’opra:
ed il sordo Oldibrando, e ʼl zoppo Alastro,
quel di schermir, questo di lotta mastro.

111Polindo, e Radamista ardenti sposi
dove lasc’io? dov’obbliati mando
i quattro Toledan tanto famosi,
essempio d’amistà raro, e mirando?
ch’ognor van giunti, e’n simil manto ascosi,
Gonsalvo, Pinador, Vasco, ed Ernando?
Meglio è far, che quì i nomi, udirvi altrove
le prodezze di tutti, e le gran prove.

112Tosto che furo i venturier trascorsi
passar sotto custodi a questo eletti
ducento nati cani a’ liti corsi
fatti in zuffe avvezzar più ch’in diletti:
che dintorno alle bocche aveano morsi
cerchij di chiodi a’ colli, e giuppe a’ petti:
ciascun de’ quai tenea pel Signor suo
un stipendio di fante, ed alcun duo.

113E varij eran di quegli i possessori
qual’un, qual n’avea duo, qual sei, qual diece
dietro a’ cani in ischiera i guastatori
venner con vanghe, e marre, e al fin si fece
comparir quasi ignudi i vogatori,
che remi in spalla avean di picche in vece.
Lasciò prima il Colombo ir tutti i suoi
sopra le navi, ed ei salì dapoi.

114Dove in varie mercè fatto due some
d’argento dispensar per man servile,
e a qualche genti dall’inopia dome
giunto alcun don, come di guerra è stile:
fe scior le vele, e nel divino nome
s’inviaro ordinati in quattro file.
Ciascun legno, com’è picciolo, o magno,
vien cento passi, o più, lungi al compagno.

115E marcian tutti per l’ondosa via
con fresc’aura, ch’appieno i lini afferra,
fra l’Occidente, e donde l’Austro invia
suoi gravi fiati a far’al Mondo guerra.
Ch’a tal drittezza al Capitan, che sia.
Par’ men discosto la cercata terra:
per quanto col suo ingegno egli misura,
e dello scettro ancor nella scoltura.

116Di quello scettro, il qual’a lui già diede
il messaggio del Ciel, che poscia avea
sottilmente egli visto, e con gran fede
e veneranza altissima il tenea:
sì perch’è don di Dio, sì perchè vede
del novo Mondo in lui sculta l’idea
tal quasi, qual’aveva egli sovente
figuratosel prima entro la mente.

117Andò la bella armata ai cui servigi
esperta turba di nocchieri abbonda
fin che ʼl Sole erse al mezo dì i vestigi,
famelic’ora all’uomo, e sitibonda.
Ed ecco in oltre gir di su i navigi
gallar’in copia essi vedean per l’onda
così vaste testuggini, e membrute,
che l’avresti isolette esser credute.

118Il cui guscio sovran volgea tal cerchio,
che fatto a una gran cella avrebbe volta.
le più tenean degli omeri il coperchio
sott’acqua, e l’altra scorza in su rivolta:
secondo ognuna dall’oprar soverchio
del concubito er’ebbra, e di sè tolta.
Presti i guerrier ne trassero alle navi
molte delle minori, e meno gravi.

119E fattone vivanda in cavo rame,
a cui supposta era la fiamma accensa,
si miser lieti a satollar le brame
con questo, ed altro, che ʼl terren dispensa.
Mentre che si traean l’ingorda fame,
cadde dall’aere alla più degna mensa
un vivo pesce di sembianti strani
lungo quant’una delle nostre mani.

120Pareva augello, e due lungh’ale avea
di bianca cartilaggine natia.
Il quale infranto dal cader battea
con spessi guizzi i vasi, e si moria.
Stupì ciascun, ma il Capitan sapea
che ʼl pesce detto Rondine quel sia,
che suole alzarsi a volo ognor che vienne
dall’Orata assalito, e un riso fenne.

121Poi riguardato in aria, ed aggirata
intorno intorno sua virtù visiva,
ne discoperse con ispalla alata
un simil’altro, che volando giva:
e su per l’acqua una veloce Orata,
che dall’odio natio spinto il seguiva:
però tutti invitò con mani, e faccia
a rimirar quella gioconda caccia.

122Il pesce volatore iva poc’alto,
formando un torto volo, e rotto ad arte:
acciochè ʼl notator, che gli dà assalto,
perda la traccia, e restine indisparte:
ma quello, adoperando or nuoto, or salto,
gli era sempre da lato in ogni parte.
Con osservarne l’ombra attentamente,
l’ombra sù per lo mar da lui nascente.

123Al fine in aria essendosi del tutto,
per troppo vento nel dibatter preso,
quel marittimo umor nell’ale asciutto
il qual’esse al volar pronte avea reso:
il pesce cadde su ʼl tranquillo flutto,
dov’il tirava il suo medesimo peso.
E ʼl nemico, che poco era disgiunto,
corse abboccarlo, e ʼl divorò in un punto.

124Di questi pesci per quel salso suolo
può spessa moltitudine vedersi,
che per diletto anco volar a stuolo
sogliono, oltra ʼl fuggir da’ denti avversi:
finchè mancato per secchezza il volo
lasciano tutti a un tempo in mar cadersi:
e talor su le navi è il cader suo,
come avvenne al primier di questi duo.

125Così con tai diporti il campo ispano
navigand’iva per quell’acqua ignota,
del qual per sicurezza il Capitano
con Arpaliste a canto, il gran pilota,
osserva ogni dì il Sol col foglio in mano,
ed ogni notte i fissi lumi nota
quant’alti sien, nè si dilunga molto
dal cerchio, c’ha dal granchio il nome tolto.

126E getta il piombo ancor nel fondo amaro
mattina, e sera, acciò n’avverta il segno.
sette dì, e sette notti in alto andaro,
senza caso incontrar d’istoria degno.
L’ottavo d’improviso incominciaro
a patir del camin duro ritegno.
da chi, per qual cagione, e con che danno
ne’ canti seguirò, che seguiranno.