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L’Oceano

di Alessandro Tassoni

Canto I

testo e note a cura di F. Contini | criteri di trascrizione
ultimo agg. 16.06.15 14:37

Proemio (1-2)

1Cantiam, Musa, l’eroe di gloria degno
ch’un nuovo mondo al nostro mondo aperse,
e da barbaro culto e rito indegno
vinto il ritrasse e al vero Dio l’offerse.
La discordia de’ suoi, l’iniquo sdegno
de l’Inferno ei sostenne e l’onde avverse,
e con tre sole navi ebbe ardimento
di porre il giogo a cento regni e cento.

2Tu magnanimo Carlo, a cui le porte
d’Italia, il re del Ciel diede in governo
perché la difendessi ardito e forte
da l’inimico oltraggio e da lo scherno,
tu gradisci il mio canto e tu da morte
privilegialo sì ch’ei viva eterno,
ché tuo nome immortal fuor di se stesso
può l’opre anco eternar dove sia impresso.

Colombo, in navigazione oltre le Colonne, sprona i suoi uomini

3Dai termini d’Alcide avea già sciolte
le vele il domator de l’oceano
e con le prore a l’occidente volte
si lasciava a le spalle il lito ispano.
Tutto intorno a lui parean sepolte
le tempeste nel mar placido e piano,
e, invitata da un ciel puro e sereno,
gli apriva Teti al gran disegno il seno.

4Un fesco venticel da terra usciva
ch’invigorando il cor de’ naviganti
faceva di lontan fuggir la riva
e da tergo sonar l’onde spumanti.
Era ne la stagion che l’Alba apriva
cinta di rose il cielo e d’amaranti,
e, affacciata al balcon de l’Oriente,
parea languir mirando il sol nascente.

5Salutavan le trombe il nuovo giorno
e i delfini a scherzar correan su l’onde.
Sedeva in poppa il capitano e ʼntorno
cinte de’ suoi più degni eran le sponde.
Ei con parlar ferocemente adorno
e con voci magnanime e feconde
diceva loro: «Oggi, compagni, è il punto
che ʼl nostro sole a l’Oriente è giunto.

6Oscura abbiamo e neghittosa vita
fin qui dormito; or s’incomincia l’ora
che fuor de la vulgar nebbia infinita
usciamo al dì lucente. Ecco l’aurora.
Questa via ch’altri mai non ha più trita
vi conduco a solcar del mondo fuora,
acciò che fuor de la comune schiera
usciate meco a fama eterna e vera.

7E s’alcuno di voi con maggior cura
d’oro e di gemme a faticar s’invoglia,
io spero di trovar tale avventura,
che ne potrà saziare ogni sua voglia.
Che la via che facciam non sia secura
il vedermi con voi dubbio vi toglia;
ché pazzo è chi desia, per cangiar sorte,
d’espor se stesso a temeraria morte».

8Così parlava e già trascorsi tanto
erano i legni suoi nel mar immenso,
che nel lito african da nessun canto
non appariva più vestigio al senso,
quando rivolse al glorioso vantoSatana vede il pericolo rappresentato da Colombo e scatena una tempesta (8,5-16)
gli occhi il superbo re de l’aer denso
e, antiveduto il suo periglio, sorse
dal nero seggio e l’empie man si morse.

9E, chiamando i ministri a’ quai commessa
l’aria avea d’Occidente e ʼl mar profondo,
grida lor furiando: «E chi concessa
al Colombo ha la via del nostro mondo?
Dunque d’un uomo vil l’audacia oppressa
e sommersa del mar nel cupo fondo
esser non può, con tre legnetti frali?
Oh ignominia degli angioli immortali!

10Se tornate qua giù, spiriti indegni.
senza averlo affogato entro a quell’onde
o distornato almen sì ch’a quei regni
non giunga mai che l’oceano asconde,
io vi farò provar l’ire e gli sdegni
ch’io serbo a le perdute anime immonde,
e legherovvi di catene eterne
tra ʼl foco e ʼl giel de le paludi inferne».

11Sì disse il re dell’ombre e ʼl guardo fiero
volgendo a Buccifar, terror de’ venti,
mostrò ch’a lui del suo crudele impero
toccassero le basi e i fondamenti.
Come nottole uscian per l’aer nero
gli spiriti mal nati ai rai lucenti
e pareva che ʼl sole a quell’uscita
ritirasse la luce impallidita.

12Liete sen gìan le tre famose navi
col vento in poppa in alto mar secure,
quand’ecco si turbàr l’aure soavi
e l’onde si turbàr placide e pure.
A l’apparir degli empi spirti e pravi
parve ascondersi il ciel fra nubi oscure
e i venti, che dormian sovra l’arene
del mar, ruppero i ceppi e le catene.

13Scatenato Libecchio Africa lassa
e verso tramontana i vanni spaccia;
Euro al fondo del mar corre e s’abbassa,
e le tempeste in ciel Volturno caccia.
Vede il periglio il capitano e passa
a confortare i suoi, pallidi in faccia;
fa calar ogni vela in un momento,
fuor che ʼl trinchetto, e piglia in poppa il vento.

14Né provveduto ancor del tutto ei s’era,
che riversò la maledetta gesta
da la faccia del ciel torbida e nera
grandine e pioggia e fulmini e tempesta.
Sparve il giorno col sole e innanzi sera
notte si fe’ caliginosa e mesta;
né rimase altro lume ai naviganti
che quel ch’uscìa dai folgori tonanti.

15Crescono l’onde a tant’altezza ch’elle
perdon la forma e la sembianza d’onde.
Le navi ora salir verso le stelle
e su le nubi alzar paion le sponde,
or traboccar fra l’anime rubelle
sembran ne le voragini profonde;
e al romper de l’antenne e de le sarte
han già i nocchieri abbandonata l’arte.

16Tutto quel dì, tutta la notte appresso
per le vie de la morte erràr dispersi.
Sembra la pioggia, al cader folto e spesso,
che giù nel mar un altro mar si versi.
Crescono i venti a memorando eccesso,
stretti a soffiar dagli angioli perversi;
e già comincia il capitan co’ suoi
forte a temer che l’ocean l’ingoi.

Il genovese prega Dio, che seda la tempesta

17Ciò che saggio nocchier, ch’antiveduto
potea fare o soldato o capitano,
tutto fe’ il valoroso e fu veduto
ne’ più vili bisogni oprar la mano;
ma quando indarno al fin vide ogn’aiuto,
ogni fatica, ogni consiglio vano,
fermossi immoto e pien d’ardente zelo
rivolse gli occhi e le parole al cielo.

18E disse: «Ecco, Signor, che vinto cede
a la possanza tua mio frale ingegno.
Se non è tuo voler che la tua fede
portata sia da un peccatore indegno
dove non pose mai, ch’io creda, il piede
alcun de la tua legge e del tuo regno,
perdona a questi almen, che non han colpa,
e del soverchio ardir me solo incolpa.

19Ma se questi del mar fieri contrasti
vengono a noi da la tartarea corte,
tu che d’Egitto a l’empio re mostrasti
l’alto valor de la tua destra forte
e d’Israel il popolo salvasti,
oggi salva ancor noi con egual sorte,
e vegga de l’Inferno il seme rio
ch’in cielo, in terra e ʼn mar tu sol se’ Dio».

20Salì questa preghiera al Ciel volando
e fermò l’ali a i piè del Redentore.
Mirolla e ʼl guardo in Urriel girando,
che de l’ispano regno è protettore,
«Va’ tu» gli disse. E quegli al gran comando
tosto s’armò di lampi e di terrore,
e dove perigliar vide il Colombo
trasse la spada e giù lanciossi a piombo.

21I miseri guerrier, prostrati al suolo,
stavano orando in atto umile e pio,
quando si scosse l’uno e l’altro polo,
e tremò il mondo e un fiero tuon n’uscìo.
Ed ecco di lontan videro a volo
folgorando venir l’angel di Dio;
e parve ai lampi e a le fiammelle sparte
che giù cadesse il sole in quella parte.

22Qual digiuno falcon, che d’alto vede
di stormi o d’altri augei schiera che passa,
piomba dal cielo e le disperge e fiede
con l’artiglio e col rostro e la fracassa;
cotal l’angel di Dio da l’alta sede
sovra gli empi demoni i vanni abbassa;
gli percote e gli caccia e li disperge
e ʼl nubiloso ciel colora e terge.

23Fra i nembi che fuggian da’ suoi sembianti
tralucevano i rai con lunghe spere;
fuggiano i venti e i turbini sonanti
e le procelle e l’ombre oscure e nere.
Egli in atti sdegnosi e fulminanti
con la spada ferir l’inique schiere
e cacciarle del ciel visibilmente
veduto fu da la smarrita gente.

24Allor levossi il capitan griando:
«Oh fortunati, ecco un guerrier celeste
che combatte per noi là col suo brando,
discaccia i demoni e le tempeste.
Chi vuol segno più lieto e memorando?
Ecco il ciel che s’allegra e si riveste
d’azzurro, e ʼl mar che placa il gonfio seno.
Mirate là più avanti. Ecco il terreno».

La flotta giunge sana e salva alle Canarie, dove la dolcezza del luogo e gli spiriti inferi stimolano molti a volersi fermare (25-44)

25Così parlava e di lontan vedea
molt’isole nel mar fra sé distinte,
onde le prore a quel sentier volgea
dove parean del vento esser sospinte.
Eran l’isole queste ove credea
l’antica età che de le genti estinte
volassero a goder l’alme beate,
e le chiamò Felici e Fortunate.

26Porto in una di lor securo stassi
ch’entra nel lido e forma un ampio cinto;
e fuor, là dove ad imboccarlo vassi,
stretto è di foce e d’alti scogli è cinto.
Nella tempesta il mar da’ cavi sassi
spumeggiando ritorna indietro spinto;
ma non può l’ira mai del vento audace
la cheta onda turbar che dentro giace.

27Quivi Colombo entrò con le sue navi
e stanza vi trovò dolce ed amena;
praticelli, boschetti, aure soavi,
fonti, rivi e d’amor la terra piena;
fiorite l’erbe e gli arbuscelli gravi
di frutti e intorno una continua scena;
e tra le frondi augelli e per le valli,
persi, verdi, vermigli, azzurri e gialli.

28Ma non s’offerse cosa a i riguardanti
più gradita da lor né più gioconda
ch’un vezzoso drappel di ninfe erranti
che gìan danzando in fra le piagge e l’onda.
Come alzaron la vista ai naviganti,
s’imboscàr tutte a la più chiusa fronda.
Solo ritenne il piede una di loro
e da l’arco aventò due strali d’oro.

29Parve Clizia costei, ch’a vendicarse
del temerario ardir fosse restata.
Folgoraron le chiome a l’aura sparse
e la faretra d’oro ond’era armata;
e in succinto vestir leggiadra apparse,
bianca la gonna e ʼl vago piè calzata
d’aurei coturni, e ne la faccia bella
qual tremolante e mattutina stella.

30E volgendo a le navi i lumi irati,
«E chi» gridò, «cotanto ardir vi diede?
Uomini vili a le miserie nati,
tenete fuor di questa riva il piede.
Qui solo hanno gli eroi fatti beati
e le ninfe immortali albergo e sede».
E ʼn questo dir scoccando il terzo strale,
ratta si rinselvò, come avesse l’ale.

31Poi che sparita fu la bella arciera,
stette sospeso il capitano un poco
se doveva smontar su la riviera
o procacciarsi porto in altro loco.
Stimando al fin che de la donna altera
fossero i gesti e le parole un gioco,
per ristaurar le navi in terra scese
co’ suoi compagni e un padiglion vi tese.

32Quivi rifece antenne, arbori e sarte,
e rivide le poppe e le carene.
Ma de’ compagni suoi la maggior parte
cercando andàr per quelle piagge amene
e trovàr le vallette in ogni parte
di cannemele e zuccari ripiene
e di starne e fagiani e daini e lepri
che scherzavan fra i mirti e fra i ginepri.

33Era ancor primavera e da le viti
pendean l’uve mature, e i rami tutti
parevano inchinarsi a fare inviti
ch’altri cogliesse i lor maturi frutti.
Ma fra i gusti più cari e più graditi,
che divennero poscia amari lutti,
era il veder fra le selvette ombrose
or mostrarsi, or fuggir le ninfe ascose.

34La vaga gioventù focosa e ardente
correa per abbracciarle; e correa invano,
ch’elle si nascondeano immantinente
e su l’avvicinar fuggian di mano.
Ecco una n’apparia bella e ridente,
e sembianze d’amor fea di lontano,
fingendo d’aspettar; ma poi d’appresso
scoccava l’arco e fuggia a un tempo stesso.

35Gli strali erano d’oro e piaga mai
nel suo colpire alcun di lor non fea;
ma sentiva il percosso acerbi guai
per l’arciera crudel che ʼl percotea,
né di seguirla e di cercarla a i rai
de la luna e del sol si ritenea;
ed ella ad or ad or gli si mostrava
ne l’aspetto gentil ch’ei più bramava.

36A cui piacea la tenerella etate
donzellette apparian di primo fiore
lascivamente in varie guise ornate,
che pareano al sembiante arder d’amore;
e quando s’accorgean d’esser mirate,
or s’ascondeano, or si mostravan fuore,
baciandosi tra lor sì dolcemente
ch’avrebbon fatto un cor di tigre ardente.

37S’altri l’età più ferma avea più cara,
ecco forme più adulte in più maniere
or saettar con le compagne a gara,
or cantar sole, or carolate a schiere.
Chi nude le chiedea, ne l’onda chiara
notar da lunge le potea vedere;
s’in abito virile, in poco stante
satollava il desio cupido amante.

38Una di lor, che sotto un verde alloro
chiusa d’un fresco rio d’onde correnti
temprava al suon d’una grand’arpa d’oro
che fra le mani avea soavi accenti,
lo spirito velocissimo e canoro
or con tremule note, or con languenti,
or con liete alternando e disciogliendo,
da una rupe cantò, così dicendo:

39«Quand’Amor nacque, sue dolcezze eterne
stillarono dal ciel sovra i mortali,
che da prima correan tutti a goderne
confusamente in un volere eguali,
fin che ʼl desio di maggior copia averne
instigò i primi artefici de’ mali
a nasconder la loro e trovar arte
d’usurparsi e goder de l’altrui parte.

40Sdegnato, Giove a proveder s’accinse,
nandò l’Onore e l’Onestade in terra:
le dolcezze d’amor l’una restrinse,
e l’altro mosse a l’appetito guerra.
Così del gusto il puro fonte estinse,
fuor ch’in questa del mondo unica terra,
che serba ancor de le dolcezze il fiore
come le distillò, nascendo, Amore.

41Voi fortunati a la beata sede
giunti a goder de le delizie antiche,
non affrettate oltre il suo corso il piede,
ch’a tempo volgeran le stelle amiche.
Come a l’estivo ardor l’autun succede
co’ frutti a ristorar l’altrui fatiche,
così frutti d’amor verran fra poco;
ma non si geli poscia il vostro foco.

42Primavera d’amore, aura gentile
par che spirando ai dolci scherzi alletti.
Passa de la stagione il vago aprile
e s’infiamma d’arsura estiva i petti.
Tempra l’autunno Amor l’arco e ʼl focile
co’ dolci frutti suoi, co’ suoi diletti;
ma non sì tosto poi sazio è il desio,
ch’un freddo verno amor caccia in oblio.

43Godete, amanti lieti e aventurati,
di primavera i fiori e la verdura,
soffrite de la state i caldi fiati,
ché più gradita fia vostra ventura.
Succederà l’autun co’ frutti amati,
ma non s’estingua poi la vostra arsura,
ch’in noi nato il desio diventa eterno,
né state il cangia, né lo spegne il verno».

44Così cantò la ninfa e ʼn tal maniera
mosse la gioventù cupida e sciolta,
che per le selve andar mattina e sera
si vedea follegiando e di sé tolta.
Vincere a lungo andar la prova spera,
se ben non succedea la prima volta,
però che suole ogni principio sempre
ritrovar in amor contrarie tempre.

Colombo cerca invano di convincere i suoi uomini a ripartire (45-55,4)

45Ma il capitan, che ʼl suo periglio intese
e vide ciò che ne potea seguire,
di tosto proveder consiglio prese
e fe’ intimar che si volea partire;
ma gli ordini e i comandi indarno spese
e i prieghi indarno e le minacce e l’ire,
ché non credeva alcun, né gli era aviso
che fosse in altra parte il Paradiso.

46Blasco d’Arranda, uom già d’età matura
ma saettato di saetta d’oro,
fisso di rimaner, per la paura
che non partisser gli altri, ei dicea loro:
«E qual nuova cercar miglior ventura
vogliam noi sciocchi, o in mar vano tesoro,
se la stanza e ʼl possesso ora lasciamo
de l’isola beata ove noi siamo?

47Noi non sogniam questa felice vita,
né son dipinti questi frutti e fiori;
ma il capitan, ch’a dipartir n’invita,
sa ch’hanno come gli altri e sugo e odori.
Quest’isola sì bella e sì gradita,
albergo de le grazie e de gli amori,
mostra che qui non giunga mai la morte
o che si viva almen con miglior sorte.

48E non senza ragion l’antica etate,
che ʼl tutto seppe, in questa parte volle
la sede por de l’anime beate,
che ʼl pregio di natura a l’altre tolle.
Qui la primavera è sempre, autunno e state,
senza alcun verno, e non è piano o colle
che di frutti non sia pieno e fecondo;
e noi vogliam cercar d’un altro mondo?

49Torni il Colombo a prender nuova gente
e la conduca ove s’ha dato il vanto;
ei troverà compagni agevolmente
e noi godremo qui felici intanto».
De l’infiammato petto il dire ardente
l’incauta gioventù commosse tanto,
che già la maggior parte ha stabilito
di non partir da l’amoroso lito.

50Con trecento guerrier dal porto ispano
s’era partito il gran Colombo; e cento
nati sul Tago avean per capitano
il superbo Pinzon, gonfio di vento;
d’Aragon cento ne traea Roldano,
uom di feroce e indomito ardimento,
e cento già d’Italia, i più fidati,
Tolomeo suo fratel n’avea guidati.

51Seco il minor fratello e ʼl maggior figlio
conducea il Colombo a quell’impresa,
che de la gloria sua, del suo periglio
fosser consorti entrambi e ʼn sua difesa
o, se venisse a lui del suo consiglio
da morte o rio destin l’opra contesa,
potesse uno di lor seguirla tanto
che ne portasse il desiato vanto.

52Diego avea nome il figlio in cui fioriva
sua speme, ancor fanciul d’età crescente
che già sprezzando il mar col padre giva
a cercar nuovi regni in Occidente.
Quantunque volge l’una e l’altra riva
de la Liguria a l’Austro e al sol nascente,
non vide Amor fanciullo in quell’etade
meglio disposto o di maggior beltade.

53E questi e assai pochi altri eran restati
seco nel porto a rispalmar le navi.
Egli poi che mandò messi iterati
attorno e delirar vide i più savi,
andò egli stesso al fine e gli ostinati
smover con dolci e con parole gravi
cercò; ma poco frutto i suoi ricordi
fèr predicando agli appetiti sordi.

54«Soldati» ei dicea lor, «quest’isoletta
non può mancarne mai. Venite, andiamo;
ch’in così poco ciel non è ristretta
quella felicità che noi cerchiamo.
Tutto ciò che più gusta e più diletta,
se dentro a questo mar più c’ingolfiamo
ritroveremo, e donne e frutti e fiori
e, quel ch’importa più, gioie e tesori.

55Se v’arrestano qui vani diletti,
che diranno i re vostri al mio ritorno?
Voi foste meco a l’alta impresa eletti
e fate a la lor fede oltraggio e scorno».
Così dicea; ma gli ostinati pettiL’Ammiraglio finge di ripartire, gli uomini rimasti, spaventati, al suo ritorno si pentono dell’errore e tornano nei ranghi(55,5-76)
non si movean però dal lor soggiorno,
follia stimando a quel sicuro lido
le speranze antepor del mare infido.

56Ond’ei tornò tutto dolente e mesto,
fra sé volgendo il non pensato caso;
e di perder temendo ancor il resto
che vacillando seco era rimaso,
l’ancore svelse e uscì del porto presto
e le vele spiegò verso l’Occaso,
gridando da la poppa in alto suono:
«Poi che m’abbandonate, i’ v’abbandono».

57Ma che farà con così poca gente?
Egli stesso nol sa, né si sgomenta.
L’isola gira e di lontan sovente
manda uno schiffo e gli animi ritenta;
ma sorda sempre ai prieghi suoi più sente
farsi ogn’orecchia, ogni speranza è spenta;
ond’al fin parte e i legni in alto mare
porta il vento, né più l’isola apparte.

58Qual tortore che i figli abbia guidati
fuor del nido in non secura parte,
poi che s’accorge o de’ vicini aguati,
o del periglio lor sospetta in parte,
gli stimula a fuggir con dolci usati
susurri e va girando e torna e parte,
e, quando vede al fin che nulla vale,
s’allontana da lor spiegando l’ale;

59tal il Colombo in fino a l’altra aurora
col vento in poppa a piene vele corse.
Pregavanlo i compagni a far dimora
e gìan piangendo e di lor vita in forse,
quando calò le vele e la sua prora
tutto in un tempo a l’Oriente ei torse;
prese il vento per fianco e diede segno
ch’a l’isola tornar facea disegno.

60Ma del Settentrion la rabbia avversa
s’oppone, e ritornar non gli concede
o, se ritorna pur, sì l’attraversa
che va girando e tardo e lento ei riede.
Vince l’industria al fin l’aura perversa
e già securo ha sovra il vento il piede;
ma il vento, ch’ottener non può la palma,
subito cessa e resta il mare in calma.

61Alzano i marinai le vele e vanno
cercando aura che spiri, e nulla giova.
Senz’aura il cielo, il mar senz’onda stanno,
perduto è quaggiù il moto o non si trova.
Gettan gli schiffi e con fatica e affanno
cercan di rimorchiar le navi a prova;
ma sì stentata è l’opra e così lunga,
che troppo ci vorrà pria che si giunga.

62Il capitano allora, in sé racolto,
levò le mani e le preghiere a Dio
e disse: «Alto signor, tu che m’hai tolto
a custodir dal tuo avversario e mio,
tu che rompesti dianzi il nembo folto
e frenasti del mar l’impeto rio,
tu dammi or vento e fa ch’io ritrovi il core
de’ cari servi tuoi tratto d’errore».

63Su l’ali de la Fede in un momento
saliro i prieghi a la magion celeste:
e ʼl messaggier divin, che stava intento
al rio pensier de la tartarea peste,
l’aurate piume giù dal firmamento
spiegò, succinto in luminosa veste,
e ritrovò che gli angioli dannati
ne le spelonche i venti avean legati.

64Gli spiriti perversi avean creduto
che sen gisse il Colombo a l’Occidente
e che più non tornasse a dare aiuto
a la perduta sua misera gente;
ma poi che ritornar l’ebber veduto
contra il furor de l’Aquilone algente,
ne le caverne lor frigide e vòte
legaro i venti, e restàr l’aure immote.

65E avean lo schernitor di scherno vinto,
se l’angelo di Dio non discendea
a diserrare il tenebroso cinto
che chiuso il vento in sua magion tenea.
A l’isola felice il duce spinto
su l’ora nona il quarto dì giugnea
e ritrovava in orrida sembianza
tutta cangiata già sì lieta stanza.

66Corsero al lito i suoi compagni mesti,
tosto che di lontan videro i legni;
e con le mani alzate e con le vesti
feron chiamando a i naviganti segni;
e a l’approdar de le tre navi presti
si lanciàr giù da que’ dirupi indegni,
che di prati fioriti e piagge amene
s’eran cangiati in nudi sassi e arene.

67Fuvi di lor chi per desio d’uscire
fuor di quel luogo inospite e diserto
corse ne l’onda a rischio di morire,
ch’eran le navi ancor nel mare aperto.
Ma poi che tempo e spazio ebbe il desire,
Blasco, nel danno suo già fatto esperto,
con vergognose luci e ʼn terra fisse,
chiese perdono al capitano e disse:

68«Quel dì, signor, ch’in alto mar spiegando
le vele di partir festi sembianza,
stemmo tutta la notte amoreggiando
fra le ninfe leggiadre in festa e ʼn danza.
Ogni tristo pensier fuggito in bando
n’era in sì bella e sì gioconda stanza;
godevamo ugualmente e n’era aviso
d’esser trasumanati in paradiso.

69Ma poi che il sol ne l’ocean s’immerse
e fu la luce sua del tutto estinta,
ombra caliginosa ne coperse
di spaventose imagini dipinta;
né mai sì fiera illusion s’offerse
a l’agitat’Oreste e d’orror cinta,
che s’agguagliasse a quella; onde la notte
ne furo il sonno e le speranze rotte.

70Di rauche trombe e di tamburi il suono
l’orecchie ad or ad or ne percotea;
or tremava la terra, or s’udia il tuono
de’ lampi, or del furor de la marea.
Parean fuggir le fere in abbandono
e ʼn vece de le ninfe a noi parea
ch’uscissero giganti e mostri ascosi,
orribili, tremendi e spaventosi.

71Né le sembianze lor del tutto vane
erano a i sensi oppressi e conturbati;
ma d’urti fieri e di percosse strane
sentimmo i colpi da diversi lati,
e le piagge vicine e le lontane
muggiar d’urli feroci e di latrati.
Così senza aver mai riposo un’ora
fummo agitati in fin ch’uscì l’aurora.

72Quand’al fin l’alba in Oriente apparve
e le sue stelle in ciel la notte ascose,
s’accolsero e fuggìr tutte le larve
e le finte bellezze insidiose.
Frutti, fior, fronde, ogni delizia sparve,
gli ameni prati e le selvette ombrose;
e l’isola restar vedemmo piena
d’orridi sassi e d’infeconda rena.

73Tre giorni siamo in sì solinga stanza
senza riposo e senza cibo stati,
di rimedio non pur ma di speranza
da tutti gli elementi abbandonati.
Questo spirto, signor, per te n’avanza;
ché se tu ti scordavi i tuoi soldati
o più tardi giugnevi in lor soccorso,
di nostra vita era finito il corso».

74Qui tacque Blasco e lo smarrito aspetto
degli altri confirmò le sue parole.
Gli conforta il Colombo e con affetto
paterno di lor mal seco si suole;
fa ristorargli e ascolta con diletto
i lor vaneggiamenti e le lor fole;
e l’isola deserta intanto lassa
e a prender acqua a la vicina passa.

75Vede rustici alberghi e abitatori
e d’acqua chiede; e, meraviglia strana,
trova il terren che non produce umori,
ma d’un grand’arbore in vece è di fontana.
Stringonsi intorno a lui tutti i vapori
del luogo e, fuor d’ogni credenza umana,
la virtù di quell’arbore gli scioglie
e gli distilla giù da le sue foglie.

76Quivi egli empiè a grand’adagio i vasi voti
e tolse al dipartir rinfrescamenti;
e veggendo del mar già queti i moti
di nuovo fe’ spiegar le vele ai venti.
Musa, cui sono i gran perigli noti
nel girar ch’ei fe’ il mondo a nuove genti,
tu d’intelletto fior dammi e di senso
qual si convien a l’Oceano immenso.