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L’Oceano

di Alessandro Tassoni

Lettera sopra la materia del mondo nuovo

testo e note a cura di F. Contini | criteri di trascrizione
ultimo agg. 2.11.15 8:39

Lettera scritta ad un amico sopra la materia del mondo nuovo

Signor mio, Vostra Signoria m’ha mandati due canti del suo poema, i quali non sono né i primi né seguiti: l’uno contiene la descrizione d’una battaglia e l’altro un accidente amoroso. Quanto al poema, io non posso giudicare quello ch’egli sia per essere mentre non ne veggo né principio né mezzo né fine ma, poi ch’ella me ne mostra un braccio e una gamba, io discorrerò di quel braccio e di quella gamba per quello che sono, e forse delle qualità loro si potrà anche venire in qualche cognizione della riuscita di tutto il corpo, come si narra che già al tempo antico i savi d’Egitto, veggendo una scarpa sola di Rodope, fecero giudizio de la bellezza di tutto il corpo suo.
La prima cosa, adunque, lo stile a me pare assai buono e corrente; e credo che l’uso continuo gliel farà anco migliore. Sonovi alcuni pochi luoghi espressi stentatamente; ma ne la rivisione Vostra Signoria averà più facile e franca la vena da poterli mutare in meglio. Le comparazioni sono poche e potrebbono essere alcune di loro più nobilmente spiegate; l’arditezza de’ traslati a le volte ha qualche difficoltà e sonovi alcune voci e frasi poco toscane segnate in margine. Ma, quello che più importa, Vostra Signoria secondo l’uso moderno ha premuto più nei concetti inutili che ne le cose essenziali e seguita, per quant’io posso giudicare, la via degli altri che trattano questa benedetta materia del Mondo Nuovo, che non son pochi percioché, oltre il cavalier Stigliani, che n’ha di già dati fuora venti canti, e il Villifranchi, che avea ridotto a buon segno il suo poema quando morì, io so tre altri che trattano anch’essi eroicamente l’istesso suggetto e tutti danno in questo: di voler imitare il Tasso ne la Gierusalemme e Virgilio ne l’Eneide e niuno si ricora de l’Odissea, la quale, s’io non m’inganno, devrebbe esser quella che servisse di faro a chi disegna di ridurre a poema epico la navigazione del Colombo a l’India Occidentale.
Già per publica fama e per istorie notissime a tutto il mondo si sa che i popoli dell’India Occidentale non avevano, all’arrivo di Colombo in quelle parti, né ferro né cognizione alcuna di lui; e che andavano tutti nudi, oltre che l’essere di natura pusillanimi e vili, se non vogliamo eccettuare i Cannibali, i quali, ben che andassero ignudi anch’essi, avevano nondimeno più del fiero e combattevano con archi e saette di canna con punte avvelenate. A che, dunque, voler formare un eroe guerriero dove non si poteva far guerra o, facendosi, si faceva contra uomini disarmati, ignudi e paurosi? Non vede Vostra Signoria che questo è un confondere l’Iliade con la Batracomiomachia, e introdurre un Achille che divenga glorioso col far macello di rane? Vostra Signoria mi risponderà che i Suoi Indiani li finge armati e bravi. E questo è forse ancor peggio percioché ognun sa certo che non avevano armi e che non erano tali; onde esce apertamene del verisimile e l’intelletto non può gustare di cosa seria ch’abbia fondamento di falsità sì evidente, perché la fantasia delle cose notissime non estrae fantasmi diversi da quel che sono (ragione che intese anche, ma non la disse, Aristotele). Oltre che parimenti sa ognuno che il Colombo fu più tosto gran prudente che gran guerriero.
Essendo adunque tutti gli altri popoli di quelle parti ignudi e vili, a me non pare che si possa far combattere il Colombo eccetto che co’ Cannibali, i quali, ben che andassero anch’essi nudi, erano nondimeno tanto fieri e gagliardi che, combattendo con archi grandi e saette con punte di pietra avvelenate, si poteva dalla vittoria acquistar onore. Ma bisognerebbe avvertire di non introdurre, come gli altri, il Colombo con un esercito, percioché oltre l’esser chiaro ch’ei non condusse se non tre caravelle con poca gente, mentre si mette in campo con un battaglione di cinque o sei mila tra fanti e cavalli armati contra una moltitudine di gente ignuda non gli si può fare acquistar fama eroica, se bene i nemici fossero cento mila, essendo una cosa ordinaria che i pochi armati e bravi vincano i molti disarmati e inesperti. E per questo l’Ariosto, quando introdusse il suo Orlando contra moltitudine vile, l’introdusse sempre solo. Però anche il Colombo, se non si vuole introdur solo, si dèe almeno introdurre con così pochi compagni che a que’ compagni ed a lui sia glorioso ed eroico vincere.
Quanto agli amori, ognuno sa parimente che le donne ritrovate dal Colombo erano brune e andavano anch’esse ignude. Però è vanità il fingere in loro bellezze diverse dal colore e dal costume di quelle parti.
L’introdurre poi in India altra gente d’Europa diversa da quella del Colombo che combatta con lui è il maggior errore che si possa fare, venendosi contra l’istoria a levare a lui la gloria de la sua vera azione eroica, che fu d’essere stato il primo senza controversia a tentare e scuoprire il mondo nuovo.
Però, quanto all’imprese gloriose ed eroiche del Colombo, io mi restringerei, come fece Omero quand’egli cantò gli errori d’Ulisse, a fortune di mare, a contrasti e macchine di demoni, a incontri di mostri, a incanti di maghi, a impeti di genti selvaggie e a discordie e rebellioni de’suoi, che furono in parte cose vere. E negli amori andrei molto cauto, per non uscire dal cerchio, e fingerei più tosto le Indiane innamorate de’ nostri che i nostri di loro, come nelle storie si legge d’Anacaona. E quanto all’invenzione che hanno trovata alcuni di trasportare donne d’Europa in quelle parti su le navi del Colombo, io l’ho per debole assai, e tanto maggiormente sapendosi che ʼl Colombo a fatica ritrovò uomini che ʼl seguitassero in quel suo primo passaggio.
Ma perché pensai anch’io una volta a questo suggetto e ne feci così all’infretta un poco d’abbozzamento del primo canto, che contiene quello che occorse al Colombo allo stretto di Gibeltaro fino a le Canarie, dette l’Isole Fortunate, vegga Vostra Signoria s’egli potesse servire a lei per quello ch’ella disegna di fare, che gli ne mando qui congiunta una copia.
E le bacio le mani.
Servitor di Vostra Signoria,

Alessando Tassoni.

(Roma, 1618 ?)