Tipico esemplare del filone religioso della narrativa in versi del Seicento, la Caterina martire di Fortuniano Sanvitali è una sorta di agiografia in ottave sul martirio della santa egiziana. Il poemetto consta di 140 ottave indivise, e fu stampato nel 1601 a Padova – dove l’autore si trovava in esilio dalla natia Parma – per i tipi di Lorenzo Pasquati, che l’anno prima mandò in luce anche Gli avvenimenti amorosi di Arianna, a testimonianza di una intensa attività dell’autore nella città patavina, centro di un rilancio socio-culturale volto a permettergli di rientrare in patria.
Con questo testo Sanvitali dà la prova più concreta della propria produzione in ottave, a cui accennerà, con tono apologetico, nella prefazione dell’Anversa conquistata, come anche di una propensione per le forme narrative brevi. La brevitas non è caratteristica soltanto della fabbrica del poema, di un solo canto, ma anche dello stile, che senza indugiare sulla diegesi né sull’ornato racconta in maniera secca il martirio di Santa Caterina. Pur se in maniera difforme da quelle che saranno le forme più evolute del genere (basti pensare alla Strage di Marino e al San Francesco di Gallucci), il poemetto di Sanvitali attesta la grande vitalità primo seicentesca del motivo religioso nella narrativa in versi.
ultimo agg. 22 Novembre 2015 10:37
All’illustrissimo e reverendissimo padrone mio colendissimo, il signor cardinale d’Este
Conosco bene che questa mia breve composizione alla grandezza di Vostra Signoria illustrissima e reverendissima paragonata è picciola offerta, ma non forse tale rispetto alla piccolezza del mio povero ingegno, e deve ella, se non per altro, almeno esserle grata per lo soggetto di che tratta, ciò è del sangue sparso da gloriosa vergine per amor di Cristo, rappresentato dal colore delle sacre vesti di porpora, le quali, conforme a’ suoi meriti, l’adornano. Oltre a ciò mi giova sperare che non isdegnerà ricordarsi che io sono creato della serenissima sua Casa avendo per molti anni servito al serenissimo grande Alfonso secondo duca di Ferrara, di venerabile memoria. Conceda Iddio a Vostra Signoria illustrissima e re-verendissima ogni somma felicità e me le inchino e baciole umilissimamente le mani.
Di Padova, il 10 agosto 1601
Di Vostra Signoria illustrissima e reverendissima
umilissimo e deditissimo servitore
Fortuniano San Vitale
ultimo agg. 22 Novembre 2015 11:33
Proemio (1-2)
1Canto il martirio e l’immortal corona
di Caterina d’amor santo accesa,
tempri mia cetra quel che largo dona
senno e fermezza in così dura impresa,
talché risponda a’ mie carmi Elicona
la verginella uccisa e non offesa;
per Giesù la fedel forte combatte
versa per sangue il collo tronco il latte.
2Magnanimo Alessandro, a cui dal Moro
a l’Indo in sé non ha la terra eguale,
poiché a voi de le Muse e non de l’oro,
che tanto il vulgo apprezza, e calse e cale,
le nove rime, ond’io cantando onoro
l’animosa umiltà d’alma reale,
consacro estense, a voi ornato d’ostro
dovuto al merto et al gran sangue vostro.
Massenzio fa vela verso l’Oriente per affrontarsi con Costantino, giunge ad Alessandria d’Egitto (3-8)
3Ne i cori di Massenzio e Costantino
un tal viveva oculto emulo sdegno
ch’odio aperto si fece, a sé il domino
volendo questi e quei de l’alto regno
ch’al genero troian diede latino;
e poi crebbe per armi e per ingegno,
crebb’egli sì che sotto al grande Augusto
era la terra a lui termine angusto.
4Sorta sopra l’aspra discordia infra costoro
fiera s’appresta e sanguinosa guerra;
radunar d’ogni intorno armi e tesoro
in questa miri et in quell’altra terra;
non manca a Bronte, a Piragmon lavoro,
e Giano in Roma il tempio suo disserra.
Le navi apparecchiate incontanente,
Massenzio se ne passa in Oriente.
5Sale i legni spalmati e l’aura amica
di Zefiro spirando entra nel mare;
così sciogliendo da l’Ausonia antica,
a gli occhi suoi pria la Cilicia appare,
Corfù lunge iscopre e Creta aprica
trascorre, e Rodi e Cipri, isole chiare,
al fin s’approda di Pelusio al porto,
dove Pompeo già fu tradito e morto.
6Quinci pel Mar Carpazio veleggiando
scorge presso del Nil la negra foce.
Quel ferace terreno ei rimirando
tutto lieto, sì parla ad alta voce:
«Ne vegno a te quasi di Roma in bando
per cacciarne in nimico mio feroce,
se forze mi darai di stuolo armato
sì come ad altri imperadori hai dato».
7Giace del mar su l’arenosa sponda
dove il Nilo a lui rende ognor suo dritto
città che d’armi e d’or, di biade abonda,
città che ’l nome ha d’Alessandro invitto,
città reale a null’altra seconda
de l’Oriente, e capo già d’Egitto.
nel suo gran porto il re le vele accolse
et ivi l’oste sua radunar volse.
8Ma pria che passi sotto a l’alta insegna
schierato il campo, il grande imperadore
d’amicarsi gli Egizi dèi disegna,
onde rivolge a l’ecatombe il core.
Questa de i sacrifici la più degna
usanza era in Egitto e la maggiore;
al suo volere il popolo conforme
molte vittime adduce in varie torme.
Vuole celebrare dei sacrifici animali per ingraziarsi gli dei: Caterina, saputolo, decide di fermarlo (9-17)
9Alto rumor per Alessandria intanto
s’ode d’uomini misto e d’animali:
spiegan gli uomini lode in dolce canto
a’ sordi e morti dèi, non immortali;
quel de le fiere è spaventoso pianto,
che ben preveggon, lasse, i propri mali.
E non sol la città, ma i campi e i lidi
assordano le voci, il suon, gli stridi.
10Vergin era colà nel verde aprile
de gli anni suoi, in stato almo e giocondo,
al grazioso aspetto e signorile
non vide pari il sol che gira il mondo.
Sermon condito di nativo stile
ebbe più ch’altra mai grave e facondo,
Caterina avea nome, di ricchezza
adorna e di sapere e di bellezza.
11Sì che non solo per gli aperti campi
d’Iside, ché n’andò gran tempo errante,
sparsi intorno splendean lucidi lampi
de l’alte lodi sue, del suo sembiante,
ma dovunque mortale orma si stampi
dal freddo Scita al mauritano Atlante,
spargeasi ’l nome suo di terra in terra,
che gran fama alcun termine non serra.
12Costei di regia stirpe era discesa
da’ Tolomei, del Nilo antico onore;
solo a Cristo ella avea la mente intesa,
e fermo sol ne’ suoi precetti il core.
Disse, rivolta a’ suoi: «Chi mi palesa
che suon, che strano popular furore?».
Fu chi ’l comandamento umil raccolse
indi la lingua in tai parole sciolse:
13«Fuori de l’oceano a pena il sole
traea ne l’Oriente il carro aurato,
quando di rose inteste e di viole
corre lo stuolo egizio inghirlandato
ne la nostra città, com’altri vuole;
conducon tutti un animal legato,
e sen vanno di paro a quattro, a sei
ad onorar vani e fallaci e dèi,
14dov’è di bronzo e d’alabastro eletto
su le colonne il tempio alto sospeso,
opra d’antico e nobile architetto,
dov’altri placar crede il Cielo offeso;
u’ d’oro stassi in brutto orrido aspetto
Isi in giovenca, e di lei Api acceso,
e non lunge da loro Anubi in cane,
entro ancor io con l’altre gente insane.
15In questo loco, con profano zelo
il popol si raccoglie in un momento,
e cento tori e di candido pelo
cento agnelle son morte, e capre cento.
Cade l’augel che col notturno velo
Roma sottrasse al gallico ardimento.
Altri accendendo sparge arabi odori,
altri copre gli altar di frondi e fiori.
16Ma de l’imperadore al grande altare
di cento aquile nere ardere i rostri,
cento leoni ancor dovean machiare
di sangue il suolo, e far vermigli i chiostri».
Sì disse, e tacque. Ella dispon d’andare
al tempio sacro, a quelli infami mostri,
e l’alto suo pensiero a la nutrice
solo fa noto, e in guisa tal le dice:
17«Da questo mio fedel udito hai come
sia ’l popol nostro in empio culto avolto:
per trarne lui d’errore e perché il nome
di Dio s’essalti al tempio, il core ho volto.
Recami il velo, annodami le chiome,
sol che non erri ’l crine a l’aura sciolto».
Parte di casa in fretta nel suo manto
rinchiusa, ognor con la nutrice a canto.
Si reca al tempio e chiede di interrompere il sacrificio(18-22)
18Così ne va, senz’altri in compagnia:
servo non vuol, non vuol aver donzella.
D’uomini frequentissima è la via,
a lei si volge e questa vista e quella;
spingonsi avanti per veder che sia
le genti, e per udir ciò che favella.
Al tempio giunta si discopre il viso,
che sembra di bellezze un Paradiso.
19Né così vaga appare a noi dal cielo
a mezza notte l’argentata luna,
né così splende il bel signor di Delo
qualor no ’l copre oscure nube alcuna
come costei, rimosso il fosco velo.
Quinci il popolo intorno a lei s’aduna,
stupisce il re feroce al novo aspetto,
stupirà più per quel che a lui fia detto.
20Grida ella: «A che le vittime e gli incensi
uccidete et offrite a’ muti marmi?
or che v’induce a quel che non conviensi
falsa credenza o van timor de l’armi?
A Cristo, e non altrui, gli altari accensi
esser denno, e cantati i sacri carmi;
Egli a la terra, al mare, a le superne
sfere commanda, a le paludi inferne».
21Mentre sì lor riprende, e quegli intesi
sono al culto, che tanto ella disprezza,
la guarda irato il re, gli spirti accesi
mostran per gli occhi fuor la sua fierezza.
Pur da l’ira così non sono offesi
ch’altro affetto non desti in lor bellezza,
la bellezza che in lei così fioriva
che fea dubbiar se fusse donna o diva,
22onde Cesare a lei: «Tu ne’ verdi anni
col senno stimi d’avanzar l’etate,
poscia che in sorte hai da gli eterni scanni
maniere accorte e singolar beltate.
Non è ragion che per turbar t’affanni
il vero nostro culto e la pietate;
apri al ver, apri gli occhi, e vedrai come
s’adorino gli dèi, non finto nome».
Massenzio la fa trattenere (23-28)
23La vergine reale a la risposta
già s’apprestava umile alteramente,
quand’ei soggiunse: «Egizia, assai disposta
contro me ti mostrasti e questa gente:
da te voglio mi venga altrove esposta
pur questa causa istessa e la tua mente».
Indi vuol che si guidi a la sua reggia
fin che imponga di lei quel ch’esser deggia.
24Allor da stuolo armato e pronto e forte
la vergine innocente intorno è cinta,
cui del re segue a la superba corte
la pia nutrice di pallor dipinta,
gridando dice a le nemiche scorte,
da dolor e d’amor materno vinta:
«Dove la figlia e la signora mia
conducete, crudei? dove s’invia?
25Io son la sua nutrice, il latte a lei
diedi sola, e nutrilla e le fui madre,
ma che per allevarla, ohimè, non fei
la genitrice sua mancata e ’l padre?
et io la veggio de’ ministri rei
essermi tolta da l’armate squadre?
Deh, se ne’ vostri cor luogo ha pietade
vi mova il mio dolore e questa etade.
26O me traete ancora in quella parte
dove, crudi, guidate ogni mio bene,
che non tem’io per lei del fiero Marte
non che de la prigion, de le catene.
Ohimè, figliuola mia, chi mi diparte
da te? perché me lasci in tante pene?
Viver io senza te non posso un giorno
ne ’ndietro senza te farò ritorno».
27Mossa dal suon del parlar fioco e lasso,
«Mia nutrice» risponde «assai mi preme
di te, a cui de la famiglia i’ lasso
la cura, te conforta e quella insieme.
Al proprio albergo mio chiuso m’è il passo,
ché m’attende il Signore, in cui ho speme.
Solo in lui spera, e ti confida e in tanto
deh, pon fine, ti prego, al tristo pianto».
28La vergine a l’entrar nel real tetto
lascia di fuor colei tra viva e morta.
Ella si straccia il crine e batte il petto,
che mal tanto dolore, egra, soporta.
Indi, fatto ritorno al suo ricetto,
e la famiglia sbigottita scorta,
raddoppia il pianto e più non muove il piede
ond’altri un fonte in marmo esser lei crede.
Il giorno seguente la convoca per chiederla in moglie: lei rispondere di essere già sposa di Cristo (29-39)
29Dopo il solenne celebrato giorno
e ch’ogni cerimonia ebbe fornita,
far il re chiamar colei che fece scorno
a’ dèi da cui l’Egitto attende aita.
Va il messo, e non sì tosto ei fa ritorno
che giunge ancor la verginella ardita,
inchina ella Massenzio umilemente,
ma non umilia già vèr lui la mente.
30L’imperadore al giunger di costei
alquanto s’alza da l’aurata sede,
poi dice: «Or, donna, dimmi chi tu sei,
e di qual nume tien la vana fede.
Poiché mostri sprezzar sola gli dèi
che pur tutto l’Egitto adora e crede,
ei non è già saper, ma ben follia
il traviar da la diritta via».
31E la fanciulla a lui: «I’ son di Costo,
uomo assai già famoso, unica erede;
a Cristo solo ho di servir proposto,
e di serbargli ognor la data fede».
Più oltre ella non segue, ma il re tosto
se vuol seco regnare la richiede,
sdegnando a lui rispose: «Hai pure udito
di cui mi sia, non voglio altrui marito.
32Lontano è ’l mio voler da tal disio,
via più che ’l Nilo da la fredda tana.
Son umil serva del figliuol di Dio,
che tolse da Maria la carne umana,
son sposa io di Cristo, ed egli è ’l mio
signor, né da me punto ei s’allontana.
In lui pensando sol mia mente ha pace,
Ei m’ha promesso in Ciel regno verace».
33«S’adorar tu volessi i patri dèi
co ’l sommo Giove, come gli altri fanno,
eguale in ogni parte ti farei
a Fausta moglie mia» segue il tiranno.
«Io lo scettro di Roma ti darei,
né saria questo sogno od altro inganno:
ben ti prometto un certo regno in terra,
ch’è mio e mio sarà dopo la guerra.
34Dunque da un uomo, e morto, attendi il Cielo?
uomo che i vili Ebrei a sprezzo avieno?
che nato quando il terren copre il gielo,
nudo fra gli animai giacque su ’l fieno?
e posto in croce fra duo ladri il telo
d’un cieco capitan gli aperse il seno?
Per opra di costui il Cielo agogni,
né comprendi che ciò sperando sogni?».
35Quivi ella incominciò: «Se non venìa
Giesù a sottoporsi al nostro incarco,
quando egli nascer volle di Maria,
di pena mai non era l’uomo scarco.
Quinci è che non già più come solia
prenda l’empio demon l’anime al varco,
che l’umiltà del mio Signor reciso
gli ha quel primo poter, e lui conquiso.
36Che Dio creasse il cielo a tutti è chiaro,
ei, come suo, né può far dono altrui.
Se i perfidi Giudei poi lo sprezzaro
fu lor diffetto e permission di lui.
Quando da la sua via quei traviaro,
lasciolli Cristo, et indi elesse nui,
elesse nui del popolo gentile
e rimase l’Ebreo misero e vile;
37questo popolo eletto amò cotanto
che fu detto da lui popol cristiano.
Perch’ei lasciar volesse il carnal manto
su l’alta croce ad infiniti è piano:
s’un legno fu cagion d’eterno pianto,
un altro rendé il Cielo al germe umano.
il mondo ben mostrò quando morio
ch’egli era in carne il ver figliuol di Dio.
38Di negro manto al dispietato scempio
s’avolse il cielo, e si turbàr gli abissi;
il velo si squarciò del sacro tempio,
e vider gli occhi intempestiva ecclissi;
i morti erraro in disusato essempio,
scotersi intorno l’ampia terra udissi.
Favole non son queste de’ poeti
le Sibille il predissero e i profeti».
39Soggiunse poscia: «Altrui donare in vano
vuoi quel regno ch’ancor per te non hai:
mi promettesti tu far del romano
imperio donna, e s’ei fia tuo no ’l sai,
anzi ogni tuo sperare in tutto è vano
che nel fiume latin, miser, cadrai,
però mentre che puoi te stesso aita
e riconosci quel ch’altrui dà vita».
Massenzion convoca dei filosofi per cercare di convincerla ad abbandonare la fede
40Qui, di timore e d’ira insieme punto,
si sente il re da quel fatal sermone;
pargli nel Tebro di restar defunto
qual ne Mar Rosso l’empio faraone.
Sdegna a termine tal vedersi giunto
che ceder debba a feminil tenzone;
ma seguane che può: egli vuol pria
con l’egizia tentar ciascuna via,
41bench’ella d’altro Dio fosse seguace
da quelli a cui facea l’Egitto onore.
La memoria del padre ancor tenace
de’ primi cittadin vivea nel core,
ché Costo, mentre visse, in guerra e in pace,
s’acquistò d’Alessandria un vero amore:
era per tal rispetto e per suo merto
di Caterina il nome in tutti inserto.
42Scorge il re che la forza ora non giova
s’ei la città non vuol tutta nimica:
fa ch’altri di rimoverla si prova
da quel pensier di cui la vede amica;
manda ove spera di trovare a nova
legge contrasto di dottrina antica,
altri passa a Corinto, altri a Cirene,
altri a Rodi famosa, altri ad Atene.
43Arrivano cinquanta da l’estreme
contrade de l’Imperio, e fu lor sorte,
del pallazzo salite le supreme
scale, passar costor per cento porte.
Entràr più dentro ancora, uniti insieme,
dov’era il re con la superba corte;
il più vecchio di quei, d’umiltà pieno,
inchinò il capo e la man pose al seno:
44«Siamo noi» disse «obedienti e pronti
a’ cenni tuoi, magnanimo signore».
Ed egli: «Vi è chi a Giove novi monti
osa contro inalzar, or vedi errore.
Vo’ che voi, per sapere illustri e conti,
atterrate l’altrui pazzo furore».
Quegli audace risponde: «Ecco me presto
a sodisfar per tutti, e chi fia questo?».
45Massenzio così a lui: «Una donzella
è questa, che si fa di Cristo sposa,
la qual per saper molto et esser bella
e per solo colui sprezza ogni cosa.
In lei si trova ancor pronta favella,
onde sen va superba ed orgogliosa».
Rispos’ei: «Poco avrò da fare o nulla
s’avrò sola contraria una fanciulla».
46Già ne l’eburnea sede erasi assiso
Cesare, e in man tenea lo scettro d’oro.
Caterina del rege al primo aviso
ne vien, e par una par de l’alto coro:
di maniere è bellissima e di viso,
in un bianco vestir senza lavoro.
Chiamata de i filosofi al cospetto
di celeste saper ripiena il petto.
47Quasi sprezzando di vedersi a fronte
una donzella umile, il vecchio altero
proruppe: «Uopo non fia che scenda al fonte
del saper mio per dimostrarti il vero,
ma con poche ragioni a molti conte
condurò te nel dritto e buon sentiero,
se tu me duce e consiglier vorrai,
che già per molta età molto imparai».
48Ed ella: «Quel saper di cui ti vanti,
sì come l’altre cose umane è frale,
né può condurti al sommo bene avanti,
ché tanto in su senno terren non sale.
Se de la fé di Cristo oggi t’ammanti,
ben di salire a Dio avrai tu l’ale:
questa è scorta sicura, e quindi i vanni
stender potrai verso gli eterni scanni».
49Ei ripigliò: «La gran natura eterna
invisibile, immensa, che dal cielo
con giudizio ineffabile governa
quanto produce il sole al caldo, al gielo,
non è cosa che ’l volgo ignaro scerna:
troppo a gli occhi de l’alma ha denso il velo,
e troppo debol vista oscura e offende
lume divin, perché infinito splende.
50Quel che l’antica etade al ciel gradita
a’ posteri lasciò creder conviensi,
e a quelle leggi accomodar la vita
che da i gran saggi a i lor nipoti densi,
et a la ragion già istituita
sottopor la ragion debole e i sensi.
Giove e Giuno onorando, Apollo e Marte
con gli altri nostri dèi c’hanno in ciel parte.
51Questi additàr gli oracoli preclari,
tanto famosi al secolo vetusto,
questi cantati da i poeti rari
fur con culto di lode inclito e giusto;
di questi tempi nobili e gli altari
adora il nostro imperadore Augusto:
tutti i popoli e i re lo stesso fèro
ch’ebber nel mondo glorioso impero.
52E se lo stato prospero argomenta
che in convenevol modo dio s’adori,
chi sarà così sciocco che non senta
quanto ben da i Roman Giove s’onori?
Ma l’alma semplicetta si sgomenta
e teme inganno di spietati errori
udendo de gli dèi raccontar cose
a i mortali nefande, obbrobriose.
53Mentre adoràr Giove, Giunone e Marte
i Quiriti domàr tutta la terra,
e non vi fu del mondo alcuna parte
che non temesse la lor forza in guerra,
quando lasciaro il lor culto in disparte
la romana possanza cadde a terra,
contro se stessa il ferro, empia, converse
Roma, e lo stato publico sommerse.
54Stolto chi non comprende il gran mistero
c’hanno infinite favole nascosto,
perché l’alto splendor del senso vero
non resti al vulgo indegnamente esposto:
questo fece da Orfeo, fece da Omero
con mille finzion l’esser composto.
Ma tu, saggia, con noi più a dentro mira
e dal tuo dio fallace il piè ritira».
Caterina converte i filosofi
55Allora Caterina alzando il viso
al cielo, indi richiese altera aita;
parve scendesse in lei dal Paradiso
splendor più che mortal, grazia infinita.
Parlò con un modesto suo sorriso
alto così che fu da tutti udita,
ragioni tante e tai che la mia penna
sol di lor parte et a fatica accenna.
56Disse che Dio, prima a Mosè parlando,
la vera religion fece palese,
e poscia al mondo l’insegnò mandando
il verbo, allor ch’umana carne prese.
Poscia mostrò (qui gli occhi al cielo alzando)
che questa verità sol Dio comprese,
il qual è trino et uno, e che ogni cosa
con potenza creò miracolosa.
57Nel formar l’uomo maggior studio e cura
pose il fabro celeste in lui converso,
in esso i don de l’arte e di natura
accolse, come in picciolo universo.
Il terren paradiso diede in cura
ad Eva, ed al marito a lui perverso,
onde l’uom, che saria stato immortale,
per colpa sua è misero e mortale.
58Ma Dio, poiché d’Adam la colpa in noi
traslata vide, ebbe di noi pietate,
e per ricoverare i figli suoi
mandò qua giù da le magion beate
l’unico Figlio, il quale ucciser poi
i perfidi Giudei, anime ingrate.
Ei sgombrò con sua morte i gran divieti,
egli amari converse in giorni lieti.
59Le favole che scrissero i gentili
esser menzogne di bruttezze piene,
gli scritti loro vani sogni e vili
esser, contrari in tutto al sommo bene.
Gli oracoli in parlar tanto sottili
esser demoni involti ogni ora in pene,
e questi a forza aver pur confessato
dal Ciel Cristo disceso et incarnato.
60La ragion natural non aver caro
di molti dèi l’adorazion fallace,
che i tempi ingiustamente a quei s’alzaro
e ch’empiamente ognor v’arde la face.
Che i sacrifici che i gentili usaro
apportàr guerra altrui, turbàr la pace.
Mostrò ogni lor poeta menzoniero,
sol dirne alcun, Dio confessando, il vero.
61Quel che soggiunse no ’l può dir mio stile,
né potrebbe anco altrui più colta rima,
e loquenza non ha pari o simile
qualunque più di pregio li mondo estima.
Destò sue fiamme in lei l’alto focile
de lo Spirto che l’alme al Ciel sublima;
quinci ne i duri adamantini petti
de i saggi fé meravigliosi effetti.
62Miracol novo: al ver pensando intanto,
colui più non risponde e lei non mira,
che a poco a poco in lui lo Spirto Santo
e ne’ compagni lo suo foco inspira.
Questi di vincer sol diedesi vanto,
or vinto il re lo guarda e se n’adira.
Oh celeste saper, quanto tu puoi
se ne la lingua altrui discender vuoi!
63Cesare allor, sdegnosamente altero,
«Altri» grida «sottentri a favor mio».
Risposer duo di lor, vinti dal vero:
«Non cediamo a lei, no, cediamo a Dio.
Mostrati pur, Massenzio, a noi severo,
che te spreghiamo, e Giove infame e rio,
e ben colui schernir gli idoli deve
che brama al Ciel salir spedito e lieve».
64Poscia un altro, rivolto a’ suoi compagni
disse: «Dio confessiamo e trino et uno,
cagion che splenda il sol, la pioggia bagni,
onde il fertil terren nutre ciascuno.
Non sono dèi del ciel possenti e magni,
ma finti vanamente e Giove e Giuno».
«Voi ben tutti farò… » qui d’ira acceso
più oltre non disse, o non fu inteso.
I filosofi sono messi a morte, Caterina è picchiata e imprigionata
65Ma ben freme di rabbia or che si vede
da quei deluso in cui pone a sua spene,
e d’ogni indugio impaziente chiede
chi lor leghi di funi e di catene.
Et essi, armati il cor di stabil fede,
non han timor de le vicine pene,
benché da’ rei ministri in un sol loco
tosto s’appresti orribilmente il foco.
66Drizzato il rogo in largo spazio ed erto
colà si vede la cittade unita,
come adivien se nel gran campo aperto
de l’aria appar tallor stella crinita.
Di quei dotti ciascun tutto è coperto
da la fiamma che lor toglie la vita,
onde l’anima sciolta al Cielo ascese,
né però il foco il crin né i panni offese.
67Resta attonito ogni uno e si bisbiglia,
per timor del tiranno, in bassa voce.
Gente vi è molta che al parer s’appiglia
di quei saggi in seguir chi morio in croce,
e l’amico e ’l parente si consiglia
a non curar del re l’animo atroce,
sì che poi mille e mille a Dio rivolti
spietatamente fur dal mondo tolti.
68Allora di correnti e spessi rivi
del sangue di costor fu ’l suolo asperso,
e se de l’acque sacre esti fur privi,
ebber battesmo pur, benché diverso,
e d’uomini mortai fece lor divi
il benigno Rettor de l’universo,
anime fortunate, a cui natale
l’istesso giorno fu che fu mortale.
69Massenzio intanto impon ch’aspre ritorte
stringan le braccia a Caterina intorno,
e la battano fin presso a la morte;
poscia faccia in prigion duro soggiorno,
ma che non v’entri alcun che lei conforte,
né concesso le sia vedere il giorno
mentr’ei lontan da la città dimora,
volendo pur così ch’ella ne mora.
70Quai fieri lupi intorno a pura agnella
squarciano il bianco vello a brano a brano,
tali i crudi ministri a la donzella
straccian le vesti con l’impura mano,
e, nudo, il corpo in questa parte e in quella
battuto è fieramente in modo strano,
sì che ne acquista una crudel divisa
a spesse macchie, di pantera in guisa.
71Scende dal bianco seno a lista a lista
in più d’un loco il di lei puro sangue,
e ne forma color quale s’è mista
rosa a viola che recisa langue.
La magnanima donna non si attrista,
benché sia quasi fatto il corpo essangue,
che sono le percosse e le catene
a l’alma sua gioia e piacer, non pene.
72Mentre afflitta è così, né si lamenta,
come di marmo fosse o d’altro tale,
ma più costante nel dolor diventa
sì che di tanto strazio a lei non cale,
la mano stanca omai pur si rallenta
di batter lei, ma, variando il male,
la conduce empiamente in cavo speco
via più de l’atra notte oscuro e cieco.
Dio le invia un angelo in soccorso (73-78)
73Se d’aiuto terren quivi rinchiusa
la gran figlia di Costo or priva stassi,
per lei là su nel Cielo aperta e schiusa
la porta è di pietate, onde a Dio vassi.
Visto l’Angelo suo custode esclusa
ogni aita, e i suoi membri afflitti e lassi,
umile al Re de i regi egli s’inchina
e gli parla così per Caterina:
74«Re de i mortali e de le menti eterne,
che la vergine festi a tua sembianza,
Tu, che comprendi le sue voglie interne
e come abbia in te solo ogni speranza,
ne la prigione in cui luce non scerne
mostrale segno tal di tua possanza
ch’ottener voglia il disiato intento,
sprezzato e vinto ogni maggior tormento.
75Come in specchio in te veggio, almo Signore,
in cui riluce ogni futura istoria,
che l’egizia non deve a l’ultim’ore
colà giungerne in terra or per tua gloria,
ma ch’ella manderà lo spirto fuore
avuta de le ruote empie vittoria,
e di Massenzio pria la nobil moglie
e di Porfirio a te dovute spoglie.
76Ma come fia non so che semiviva
ne la prigion miseramente giace».
Rispose Dio: «Che sia al presente priva
di vita Caterina a me non piace,
ma che alcun giorno fra i mortali viva
e dal duolo e digiun vo’ che aggia pace:
uscirà indi e l’opre sue fian conte,
l’alma a me diansi, il corpo al sacro monte».
77Ciò inteso a pena il messaggier celeste,
discende in terra dal superno trono,
questi s’ammanta di visibil veste
e mortal sembra de la voce al suono.
Discende in Alessandria e, benché deste
trovi le guardie, intoppo a lui non sono,
dov’è la verginella inferma e sola
giunge, le piaghe sana e lei consola.
78E viene ancor dal Ciel candida e bella
colomba, quando fa l’alba ritorno;
vola di Cristo a la devota anzella
e le ministra il viver d’ogni giorno.
Così, nascendo la diurna stella
quando il sol scalda del gran Tauro il corno,
a’ cari figli non pennuti ancora
d’esca Progne provede ad ora ad ora.
Satana tenta invano di farla desistere dai suoi propositi (79-86)
79Dovendo uscire a riveder le stelle
l’egizia, entra il demonio in grave affanno,
perché teme per lei che a lui rubelle
non si faccian molt’alme, a suo gran danno,
onde uno spirto d’increspata pelle
copre, et avolge ancor di lungo panno:
al vestire, a l’andare et a le membra
la nutrice di lei tutto rassembra.
80Ha canuti capei, mesta e rugosa
faccia, e lo sguardo in fronte ha quasi spento,
sovra torto baston l’orme riposa,
e move il piè tremante a passo lento,
mostra sembianza afflitta e dolorosa,
e pensier chiude ad ingannare intento.
Or nel partir al falso messaggiero
Pluto si parla imperioso e fero:
81«Volando te n’andrai dov’ora stassi
la mia nemica che di duol non cura:
fa quanto puoi acciocché mova i passi
da quella fede in cui più sempre indura,
onde gli idoli adori e colui lassi
che noi ritiene in questa parte oscura».
Ei parte, e giunto ov’è la nobil diva
dice: «Figlia e signora, ancor sei viva?
82Mi godo che tu viva, ma il vederti
in questo stato mi tormenta il core;
se di mia lunga servitute i merti
hanno in te forza e ’l mio materno amore,
ti prego e ti scongiuro a ravederti
per non morir de gli anni tuoi su ’l fiore:
contro la morte ogni animal s’aita,
e tu, pur donna, sprezzerai la vita?
83Deh, non per Dio, deh non voler, signora,
privar te stessa e me di tanto bene;
aspetta almeno e non precorrer l’ora
che a tutti di partir quinci conviene».
Qui da le luci rosseggianti fuora
versa doglioso pianto in larghe vene;
se stessa incolpa e biasma quella cuna
ove l’accolse, e l’empia sua fortuna.
84Pria che scendesse ne la cava chiostra
lo spirto che rassembra il molle sesso,
da l’Angel suo a la fedel fu mostra
la falsa intenzion del stigio messo.
La saggia indi lo scherne e con lui giostra
sì che al fin si discopre ei da se stesso.
A lui dolce risponde, ed egli crede
che al suo finto sembiante ella dia fede:
85«L’amico tuo parlar ben mi conforta
in tanto duol, nutrice, e madre cara;
so che diletto il viver mio t’apporta,
ma non son io di questa luce avara:
devi saper, chi prende Dio per scorta
dolce piova ogni pena, ancorché amara.
questa vita non ha di bene un’ora
il morir per Giesù la vita onora».
86Al nome di Giesù lo spirto immondo
già sostener non può le finte larve;
depon del vestir finto il falso pondo,
indi qual nebbia o fumo egli disparve.
Così fece ritorno nel profondo
onde a veder quest’aure invan comparve.
Spesso così adivien chi ad altri inganno
tende: ne riport’ei vergogna e danno.
Fausta, moglie di Massenzio, e Porfirio, un suo capitano, le fanno visita: Caterina li induce a convertirsi e indica loro dove poter ricevere il battesismo (87-101,6)
87Una voce fra tanto, apportatrice
del ver, sen va per la real cittade,
che lo strazio, il digiun, la prigion dice
de la saggia e del re tanta impietade.
Giunge a l’orecchie de l’imperatrice
e in lei desta disio, desta pietade:
desta disio di riveder colei,
desta pietà de’ casi atroci e rei.
88Cedea del giorno l’alma luce bella
già de la queta notte al fosco manto
allor che per veder l’alta donzella
Fausta n’andò col suo Porfirio a canto,
che, militando in questa parte e in quella,
acquistò di prodezza onore e vanto;
precorse un servo tosto che vicina
vider l’atra prigion di Caterina.
89A Fausta s’inchinaro et anco al duce
le guardie, et indi aperta fu la porta.
Aperta tosto, ecco insperata luce
che d’improviso a gli occhi noia apporta,
ma come oltre la coppia si conduce,
e da quella ne vien l’egizia scorta,
fisso lo sguardo in lei stupida tiene,
et a pena mirarla ancor sostiene,
90ché d’un lume sì bel vedeasi ornata
la prigion dianzi d’ogni luce priva,
che non saria pur d’aquila fissata
la vista in lei, cotal splendor n’usciva.
A gli occhi lor parea che circondata
fusse de i rai del Sol l’eterna diva.
Meraviglia non è s’oltre il costume
uman risplende c’ha dal Cielo il lume.
91Ella, che ben di tal stupor s’accorge,
così lor parla con allegro volto:
«Innanzi l’ora che dal mar risorge
l’alba, onde ’l mondo è da la notte sciolto,
da quel che ne i martir gioia mi porge
l’aspro dolor fu da mie piaghe tolto,
da’ santi Angeli suoi, che come intraro
quinci tosto le tenebre sgombraro.
92Et il cibo m’arreca, ond’io non moro,
bianca colomba dibattendo l’ale.
Così a’ suoi fedeli il suo tesoro
dispensa il mio Signor, ch’è senza eguale,
né come altrui d’argento ha sete o d’oro,
ma de l’anime nostre a lui sol cale;
a cui se voi le vostre offrir vorrete
eterna vita per mercé n’avrete».
93E soggiungea: «V’aspetta meco insieme
a goder pace in Cielo il Padre eterno,
purché in voi sia quella verace speme
qual si conviene e quale in voi discerno;
né tema il cor v’ingombri, ché non teme
ch’in Dio confida, e ’l mal si prende a scherno,
et è gioia e contento ogni martiro
onde già tanti e tanti a lui saliro».
94Parlò la vergin santa in tal maniera
e ’l cor compunse di chiunque udilla,
onde creduta fu la prigioniera
piena di zel, che Dio ne l’alme instilla.
Allor sorgendo conoscenza vera
Fausta da gli occhi fuor lacrime stilla,
Porfirio umile e ’n sé tutto raccolto
d’esser converso a Dio mostra nel volto.
95Era Porfirio un uom prode e perfetto,
a quello imperatore, a Fausta caro,
in Libia di Cirene era prefetto,
per molte gran vittorie illustre e chiaro.
De’ soldati con bel numero elletto
venne, e ’l raccolser quegli e l’onoraro.
O saggio avventuroso cavagliero,
che morendo acquistasti eterno impero!
96L’imperatrice, accesa, il parlar scioglie
invèr colei di cui udio la voce:
«So» disse «che ’l soffrir qui tante doglie
Dio ti dona, e quindi è che ’l mal non noce,
e credo che entro stassi a queste soglie
spesso quel che morio pel mondo in croce,
ché morta omai saresti e ’n questo orrore
già d’altronde non vien tanto splendore.
97Esser vorrei partecipe ancor io
di cotal gioia e sì diletta a Cristo.
Correre spesso in Roma più d’un rio
di sangue per suo amor con gli occhi ho visto:
me somigliante ancor move disio
per far morendo di sua grazia acquisto.
O me felice e fortunata a pieno
quando il ferro per lui vedrommi ’n seno!
98Le spesse morti altrui porgean spavento
fin ne l’intime parti a me nel core,
di ciò ripresi e del suo mal talento
mio marito, e biasmai l’insano ardore,
ma sparse fur le mie parole al vento,
ei vedrà la sua sorte a l’ultim’ore.
Meglio è patir breve cordoglio e poi
lieti avere in eterno i giorni suoi».
99Soggiunse il capitan: «Con larga usura
poco dobbiamo dar per l’infinito,
né tutto il mondo ci de’ far paura,
non che, Fausta, il furor di tuo marito».
Ed ella: «Più di lui punto non cura
mio cor, sì per costei già fatto ardito,
che brama sofferire ogni aspra morte
per inalzarsi a la celeste corte».
100L’egizia «Invan senza battesmo aspira
alcuno al Ciel,» loro a parlar riprende,
«per tanto andrete, ciò Dio m’inspira,
dove nel mare il nostro fiume ascende:
tra fruttifere palme là si mira
segreto speco, cui mai nulla offende,
quivi abita uom di Dio, questi avrà cura
di lavar, ché egli può, vostr’alma impura».
101«Per ottener battesmo, s’uopo fia,»
dissero «andrem da l’uno a l’altro polo,
non che in loco vicin là dove stia
chi fuor ne tragga da l’errante stuolo.
A te grazie rendiamo, che la via
vera n’insegni, or là n’andiamo a volo».
Benedetti da lei, se ne inviaroFausta e Porfirio si recano da un eremita e ricevono il battesimo(101,7-109)
e con lor servi al saggio veglio andaro.
102N’andaro in breve a l’eremita santo
che albergo umile avea presso ad un rio.
Bianco la barba e ’l crine e bigio manto,
i piedi scalzo, il cor sincero e pio.
Gli augelli al dì faceano onor co ’l canto,
ed ei porgea preghi devoti a Dio
quando a lui giunta l’alta imperatrice
pria lo saluta e poi così gli dice:
103«Padre, che fuor del volgo insano errante
a Dio ten vivi in solitario loco,
e, di beata povertade amante,
non hai qui da bramar molto né poco,
che dispensano il cibo a te le piante,
e prendi ’l mondo e sue ricchezze a gioco,
mandati siamo a te, se non t’è grave,
per l’acqua ond’è ch’altrui sua colpa lave».
104Sedeasi il vecchiarel pensoso e solo
di seca palma in tronco antico e duro.
Di cane avea sua stanza, e sovra il suolo
sopiva i sensi, quando il cielo è oscuro;
quindi mira pel mare andarne a stuolo
di Proteo il gregge e ’l marinar sicuro
i legni ricovrar entro a quel porto.
De la donna al parlare in piedi è sorto,
105fattosi incontro a lei tutto giocondo
disse: «Ben giunta sii, donna reale,
co ’l buon guerriero a nullo altro secondo,
poiché del vero Dio solo a voi cale.
Pria che la luce rischiarasse il mondo,
sovra a me il sonno dispiegando l’ali
voi seppi a me venire e chi vi manda,
e quel che per ben vostro mi commanda».
106Indi al fonte vicino il piè rivolse,
lo seguì Fausta e ’l prode capitano,
e incontanente lor a dar si volse
battesmo e vita con la santa mano,
e sovra quelli sacri detti sciolse,
l’una e l’altro così rendé cristiano,
cui brevemente l’eremita diede
istruzion de la verace fede:
107«Come Dio dal Ciel venne a prender carne
nel sempre intatto umil virgineo chiostro,
d’esser Dio sposo e parto in non turbarne
fior di virginità chiaro fu mostro.
Nacque, visse, morio sol per salvarne
e pagar con sua morte il fallir nostro.
Risorse il terzo dì cinto di palme,
salì al Ciel, qui rimase in cibo a l’alme.
108Il seguìr altri, che son seco or santi,
coronati di sangue e di martiri,
altri che co ’l digiun scalzi et erranti
hanno ottenuto il fin de’ lor desiri.
Così voi stessi a lui seguir costanti
siate, né il pensier vostro altrove miri.
Questa e non altra via calcar dovete,
se per l’orme del Ciel andar volete».
109Rese grazie al buon vecchio, indi si pone
in via ciascun portando il cor contento.
Fausta, tornato el novo suo Nerone,
pensa di seco usare ogni argomento
per la vergine trar de la prigione,
pria che ’l di lei mortal ne resti spento,
ma di ciò con Porfirio si consiglia
che al pietoso parer di lei s’appiglia.
Massenzio fa costruire una macchina per torturare Caterina ma l’angelo la distrugge(110-124)
110Fausta e Porfirio e l’empio imperadore
in Alessandria avean fatto ritorno,
onde la moglie a lui chiede che fuore
lasci l’egizia a rivedere il giorno.
Ei, credendola giunta a l’ultim’ore,
tosto commanda a chi gli stava intorno
che tragga di prigion colei che sposa
si fa di Cristo e n’è tanto orgogliosa.
111Ma poscia, inteso come ancora sia
e viva e di sua sorte allegra e paga,
e come andovvi di nascosto pria
co ’l capitan Fausta, di Cristo vaga,
più libertà non vuol che le si dia,
la chiama fata, incantatrice e maga.
Così, fatto colui più che mai fiero,
non ha di Fausta effetto il bel pensiero.
112Ei, ripensando a la novella amara,
ne l’ira si confonde; a pena il crede,
pur con nove minaccie anche prepara
colei ritrar da la verace fede.
La sposa di Giesù, cui morte è cara,
attende sol dal Ciel grazia e mercede:
sia che Massenzio vuole, ella dispone
solo un Dio d’adorare in tre persone.
113Quindi l’empio tiranno incrudelisce,
e non vi è più chi possa far contrasto;
poiché non può ne l’alma, egli inasprisce
più che Falari mai, nel corpo casto.
Sorge novo Perillo e s’offerisce
trovar tormento onde l’iniquo e vasto
pensier di tormentar possa adempire,
e sfogar l’odio in strano aspro martire.
114Parla costui: «Non è di Costa nata
non è del Tolomeo sangue reale,
ma d’alcun crocodillo è generata
o da tigre o da più crudo animale.
Vedi voglia orgogliosa et indurata
ne la sciocchezza e nel suo proprio male;
gli ausoni fasci sprezza, e gli dèi nostri
or chiama dèi bugiardi or sozzi mostri.
115Se dal petto levar vuoi di costei
quel Cristo, ond’ella attende alto favore,
forma, Massenzio, quattro ruote o sei
et armale di chiodi e dentro e fuore,
sì che squarciano a gara i membri rei,
del suo sposo celeste a disonore.
Strida un cerchio con l’altro e lupo sembri
ciascun d’essi a sbranar gl’infami membri».
116Fura è d’Averno che al crudele addita
le gravi pene e i gran supplici atroci.
Che sia tosto la machina fornita
commanda il re con iterate voci.
Come fu la sua mente accesa udita,
ad ubidire i fabri fur veloci;
apparve il dì seguente la superba
machina, in vista orribilmente acerba.
117Son le ruote inalzate, che fra loro
ad incontrarsi van con moto eguale.
Fornito è dentro e fuor questo lavoro
di ferree punte, acute più che strale.
Orrido è sì che meno orrido il toro
fu che al suo fabro apportò fin letale.
Quivi nel mezzo è una colonna alzata
dove la verginella fia legata.
118Già sparso per l’Egitto erasi il grido
di questa non più vista infernal mole;
gran gente lascia il suo paterno nido
che lo strazio con gli occhi veder vuole.
Spesso ritrarsi a l’arenoso lido
tal de i marini augei nuvola suole,
corre in frotta così l’alpina gente
se l’orsa intorno a la sua greggia sente.
119Le ruote accomodate, ecco si mena
Caterina a l’orribile tormento.
Scorta da lei l’apparecchiata pena,
tenendo verso il ciel lo sguardo intento,
prega Giesù, con voci espresse a pena,
che l’alto splendor si vede in un momento,
simile a quel che appar quando lampeggia
ne i giorni lieti allor che ’l suol verdeggia.
120Questi è un Angel di Dio, lo manifesta
ben d’insoliti rai mirabil luce;
spada di foco impugna ultrice e presta,
più d’ogni stella e più del sol riluce.
La machina di ferri empi contesta
in mille pezzi di sua man riduce
e, spezzandosi, andarno in tronchi mille
per l’aria, et indi uscìr fiamme e faville.
121Qual il fulmine suol s’aporta guerra
a quercia antica o ad altra annosa pianta,
che impetuoso e frondi e frutti atterra
e i nodosi suoi rami a forza schianta,
la gran machina, allor che si disserra,
di quel popolo rio fa strage tanta
che vendicata in parte è l’altra offesa
di Caterina, ed essa resta illesa.
122L’inventor de le ruote infra coloro
fu ’l primo, che n’andaro in pezzi al vento:
così Perillo entrò primier nel toro
che mal per opra sua vidde Agrigento;
che pone ingegno a tal crudo lavoro,
ragione è che per esso ei resti spento,
ché altro premio non vuol l’opera indegna
se non che l’autor suo tormenti e spegna.
123Colà pe i campi il Nilo dilatossi
a tal fragore, onde fur molti absorti;
più de l’usato il mare anch’ei turbossi
e le navi sdruscìrsi entro a quei porti.
Massenzio il disperato scolorossi
volar veggendo e ferri e corpi morti,
a quello orribil suono, al fiero scempio
fuggìr le turbe impaurite al tempio.
Fausta rimprovera Massenzio, che la fa decapitare, e con lei Porfirio (124-132)
124Di tanti e tanti giunti a dura morte
vedutasi la strage orrida e strana
sgridò l’imperatrice a suo consorte:
«A che tenti abbassar la fé cristiana,
che sola schiude a noi del Ciel le porte
e da l’eterno oblio sol n’allontana?
Io che ’l vero ne scersi, ho di me dono
già fatto a Cristo, e di te più non sono».
125D’ira s’infiamma il re come la moglie
ode parlar contro ogni suo pensiero,
e così irato in lei la lingua scioglie:
«Poiché tu sprezzi del Romano Impero
l’esser donna, e contraria a le mie voglie,
n’andrai quel mastro a ritrovar di Piero
ch’egli negò per vil timor d’ancelle,
ma senza capo andrai, senza mammelle».
126S’alegra al suon de la sentenza fera
Fausta, che per Giesù morir si vede:
d’imperatrice or fatta è prigioniera,
la man cinta di ferro e cinta il piede.
Di Cristo seco avea l’alta guerriera
che a lei fu mastra ne la santa fede,
la qual, mentre è condotta al martir crudo,
contro a i colpi di morte a lei fa scudo.
127Da cui ne vien la vergine pregata
a pregar Dio che a l’alma sua dia posa.
Dal ferro è con le poppe a lei tagliata
la real testa, e tutta è sanguinosa.
La notte che seguì quinci levata
è Fausta da Porfirio, ed in pomposa
tomba, quand’ei più puote la nasconde
con le sue genti a’ suoi desir seconde.
128Qui lacrimando disse: «O del gran Tebro,
anzi del mondo un tempo imperatrice,
io ti chiudo in vil tomba e ti celebro,
povere essequie, ma più far non lice,
ché disperata lege e furor ebro
onorar tuo gran merto ahi m’interdice.
Tu da me, quanto posso or darti, accetta
e voti e incensi dopo questo aspetta».
129Malvagia lingua intanto al re l’accusa;
ei chiamato ne va senza dimora,
e morte dispregiando non si scusa
del suo fatto, ma narra il come e l’ora,
né men la compagnia ne viene esclusa,
onde Massenzio vuol che ’l duce muora,
et a morte condanna seco insieme
i compagni, de’ quali a lui sol preme.
130Lingue d’Inferno uscite a le ruine
de l’altrui merto, voi fra le labbia immonde
vi disciogliete, qual Megera, il crine,
tutto d’invide serpe apre e diffonde
per turbare al valor del merto il fine,
perché miseria e duolo in alma abonde,
la qual gioir dovria che non parlate,
e col vostro velen che non oprate?
131E giunti del lor fine al destinato
loco, il duce parlando a quei si volse:
«O voi, che meco avete militato
e per terra e per mar, mente il Ciel volse,
né per grave ferita onde piagato
restasse alcun di voi giamai si dolse,
ben convien che la morte a voi non caglia,
ché premio vi sarà d’ogni battaglia».
132Così a quei, da Porfirio rincorati,
fur tronchi i capi, e ne cadero estinti,
e come ancora erano tutti armati
gli usberghi ne restàr di sangue tinti.
Ducento erano questi, eran soldati,
che sempre aveano i suoi nimici vinti,
ora ne vanno co ’l gran duce loro
dove corone avran d’eterno alloro.
Martirio di Caterina (133-140)
133Qual libico lion fra molti armenti
se la bocca insanguigna il cor non sazia,
ma crescendo il furor questo co’ denti
sbrana e quello con l’unghie irato strazia,
tal del fiero tiranno, ancorché spenti
sian mille e mille, l’ira non è sazia:
orribilmente infuriando grida
che la figlia di Costo alfin s’uccida.
134Presa e legata, ella è condotta a morte;
mentre il ministro a dargliela s’appresta,
gli occhi drizzando a le celesti porte
così ragiona, in uno ardita e mesta:
«Tu, che mi desti esser tua sposa in sorte,
pria che ’l ferro a me tronchi oggi la testa
dammi, se lice ad occhio umano, quale
se’ ne la reggia tua vederti ora tale».
135Chi dona il lume a quel che alluma il giorno
acconsentì al di lei santo affetto.
Crollàr le stelle e tuonò il ciel d’intorno
per riverenza insieme e per diletto,
si squarciò de le nubi il velo adorno
e Dio mostrossi in glorioso aspetto.
Ei de l’eternità nel trono assiso
lucido avea di tre gran lumi il viso.
136Tutto il bello del ciel vid’ella aperto
e seder Cristo al suo gran Padre a canto,
gli Angeli intorno triplicato serto
fargli, e soave uscir di loro il canto.
Dicean, cantando: «Caterina il merto
abbi del pio digiun, del lungo pianto,
e de gli altri sofferto aspri martiri
or vieni ad appagarne i tuoi desiri».
137«Eccomi giunta al fin de la mia guerra,»
genuflessa allor dice «o Re de’ regi.
Se spada micidiale il corpo atterra
concedi a l’alma mia perpetui fregi.
Ti chiedo in grazia che a qualunque in terra
devoto invochi od il mio nome pregi.
Tu conceda, Signor, quanto desia
ad onor tuo per questa morte mia».
138Così detto la gola e ’l seno ignuda
attende lieta il termine fatale;
scende la spada e fa che gli occhi chuida,
troncando l’aureo suo stame vitale.
Del re (chi ’l crederia?) la vista cruda
mirar non puote il colpo aspro mortale;
ne cadde il corpo estinto in su ’l terreno,
l’alma volò del suo fattor in seno.
139Tre volte aperse gli occhi e mirò il Cielo,
tre volte e lieti quei poscia serràrsi.
Di morte indura i di lei membri il gielo,
che tutti di sudor freddo son sparsi,
ma se ’l veder le toglie il mortal velo
da la sua lingua Dio s’ode chiamarsi,
tal da lo stelo suo reciso fiore,
tal cigno in riva del Meandro muore.
140Sgorga da la ferita in su ’l terreno
latte in vece si sangue (opra divina),
e da gli Angeli vien per lo sereno
aer portato il corpo al Monte Sina.
L’aer tutto colà mirasi pieno
d’Angeli intorno a Caterina;
stuolo di pinti augei così in Egitto
con la Fenice fa lungo tragitto.
ultimo agg. 28 Novembre 2015 11:54
Alle Muse
Al sacro estense, al mio novello Augusto
ite Muse devote, e lui chiamate
e magnanimo e forte e saggio e giusto,
ornamento e splendor di questa etate.
Poiché l’Europa è omai termine angusto
a la fama di lui, voi la portate
da l’aggiacciato suolo al lido adusto
e al ciel, s’altri no ’l vieta, indi v’alzate.
Luiggi quivi e Ippolito fra gente
beata stassi, di cui già cantaro
i duo cigni maggior del secol nostro,
e lor dite così: «Gran padri, l’ostro
che lasciaste là giuso or è più chiaro
ad Alessandro intorno e più lucente».